Perché il mondo ha bisogno di quegli uomini speciali
La figura di
Nelson Mandela riporta d’attualità la questione dell’influenza delle
singole personalità sul corso degli eventi storici
la Repubblica, 12 dicembre 2013
Le loro biografie narrano delle discese agli inferi prima dell’ascesa al
cielo, delle cadute nella polvere prima della salita agli altari
Personaggi che con le loro straordinarie virtù individuali mostrano
l’estensione dei vizi collettivi. E finiscono così per rappresentare
l’infelicità pubblica
«Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi…». Anzi, per usare
l’espressione originale, «Sventurato quel popolo che ha bisogno di
eroi». È la frase che Bertold Brecht, nella Vita di Galileo, fa dire al
grande scienziato – uno dei padri della nostra modernità – , subito dopo
l’umiliante abiura di fronte al Tribunale dell’Inquisizione, in
risposta all’“ingenua” osservazione del suo interlocutore, Andrea Sarti,
il quale, deluso, aveva definito «sventurata la terra che non produce
eroi». E non è una semplice autodifesa. È, in fondo, una delle più
ficcanti rivelazioni della natura nuova dell’“eroe moderno”. Il quale, a
differenza dell’eroe antico, o dell’eroe “classico” che con l’assurgere
all’eternità della gloria rivelava un pieno della storia, ne mostra
invece un vuoto. Non un punto alto (di apoteosi), ma un punto basso (di
caduta). Portando alla luce una doppia infelicità. O una doppia miseria.
Un’infelicità storica, in primo luogo, come rivela il senso più
esplicito dell’osservazione (un po’ banale) di Andrea, che intendeva
alludere, evidentemente, a una condizione quasi disperata se solo un
“eroe” – una figura straordinaria – può «riscattare l’umanità umiliata
». E in effetti, disperata doveva essere la condizione del popolo nero
del Sudafrica, se fu necessaria la forza morale e fisica di un Mandela
per trarlo dal pozzo in cui giaceva. Così come disperata doveva essere
la condizione della Roma papalina cinquecentesca, se fu necessario il
rogo di Giordano Bruno – quello che, contrariamente a Galileo, non
abiurò – per dare il segno di una rivoluzione mentale. E, per venire
alla nostra storia nazionale, ben infelice doveva essere la condizione
nell’Italia pre-risorgimentale, se furono necessari uomini che offrirono
le proprie sofferenze e la propria stessa vita in “sacrificio” per
disincagliare la Storia che si era arrestata (tali sono gli eroi del
nostro Pantheon, da Amatore Sciesa ai Martiri di Belfiore, dai fratelli
Bandiera a Carlo Pisacane, fino a Mazzini e a Garibaldi, che se non
morirono comunque patirono).
L’“eroe moderno”, prima di diventare tale, è stato un reietto. La sua
biografia narra di una discesa agli inferi prima dell’accesso al cielo.
Di una caduta nella polvere prima della salita agli altari, come se
appunto la Storia pretendesse non solo le proprie vittime sacrificali
per emendarsi dalla propria miseria, ma anche i simboli viventi della
propria mutevole (ma alla fine in qualche caso trionfante) Giustizia.
Sotto questo aspetto l’esempio di Nelson Mandela è perfetto: terrorista,
proscritto, galeotto, prima di diventare materia di orazione funebre
dei cosiddetti Grandi della Terra. Figura terribilmente “divisiva”,
diremmo oggi, prima di unire nel proprio nome i rappresentanti di quelle
stesse Cancellerie che fino a un ventennio prima l’avevano classificato
tra i peggiori nemici pubblici.
Vi è poi, però, un secondo tipo di “infelicità” pubblica che l’eroe
moderno è chiamato a rivelare. Un’infelicità – meglio una “miseria” –
che potremmo definire morale perché quasi sempre queste figure
dell’eccezionalità finiscono per mostrare – e misurare –, con le proprie
virtù solitarie, l’estensione dei vizi collettivi. Sono uomini – e
donne – che marciano “in direzione ostinata e contraria” (come canta De
André) rispetto ai loro compatrioti. Questa è in fondo la sciagura delle
terre che “hanno bisogno di eroi”: la mediocrità morale del conformismo
di massa, resa visibile dalla testimonianza delle poche mosche bianche.
Ed in ciò esemplare è la nostra vicenda nazionale. Pressoché tutti gli
eroi nazionali novecenteschi appartengono alla striminzita schiera dei
“pochi pazzi” che devono, in modo ricorrente, rimediare ai guasti dei
“troppi savi”, come scrisse Francesco Ruffini, uno dei 12 professori che
nel 1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo, salvando così
almeno un brandello di dignità dell’Università italiana.
Si pensi, a questo proposito, a un titolo come L’intellettuale come eroe
(di Marco Gervaso-ni), riferito a Piero Gobetti, interprete esemplare
di questo ruolo rivelativo dell’“eccezione”. E a quel vero e proprio
testamento precoce gobettiano che è l’Elogio della ghigliottina(1922)
dove l’allora ventunenne torinese destinato alla morte in esilio
scriveva: «siamo sinceri fino in fondo, io ho atteso ansiosamente che
venissero le persecuzioni personali perché dalle nostre sofferenze
rinascesse uno spirito». O si leggano, le pagine splendide diUn eroe
borghese, l’onore reso da Corrado Stajano alla memoria dell’avvocato
Giorgio Ambrosoli, il silenzioso servitore dello Stato chiamato a
liquidare la banca di Michele Sindona e assassinato dalla mafia politica
l’11 luglio del 1979. Apparteneva alla piccola schiera di quelli che
continuano testardamente a tener fermo il proprio dovere in un contesto
di diffusa e prevalente corruzione, servilismo, illegalità. Come, dopo
di lui, faranno (e pagheranno nello stesso modo) i giudici Falcone e
Borsellino o il generale Dalla Chiesa, per fare solo i casi più
ricordati.
A ben guardare, pressoché tutti gli “eroi civili” della nostra storia
repubblicana sono morti in solitudine. Anzi, sono morti di solitudine.
Ed è questa la ragione per cui la “figura eroica” dovrebbe, presso di
noi che ci portiamo addosso questo peso, più che stucchevoli esercizi di
retorica, sollecitare penosi esami di coscienza.
Nessun commento:
Posta un commento