Giuseppe De Rita
Nella palude del lavoro liquido. Dal post-fordismo alla dispersione: una parabola discendente
Corriere della Sera, 20 dicembre 2013
a proposito di Aldo Bonomi, Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori nella crisi, Einaudi 2013
Da antico sodale nella ricerca sulla composizione sociale del Paese, ho
ritrovato nel recente volume di Aldo Bonomi su Il capitalismo infinito tanti richiami alla mia storia intellettuale e professionale, con le
tante scoperte e le tante delusioni che ci ha dato la straordinaria
decennale dinamica della nostra struttura sociale.
All’inizio, negli
anni 60 tutto sembrava chiaro e solidamente proiettato in avanti: stava
contraendosi fortemente la componente agricola, che ancora al
censimento del ‘51 contava sul 54% della popolazione; aumentava e si
compattava come «classe operaia» la componente «fordista» dei lavoratori
dipendenti dell’industria; cresceva con passo inarrestabile la
componente impiegatizia, specialmente concentrata nel lavoro pubblico e
nelle attività bancarie e assicurative. Sembrava un mondo destinato a
durare per decenni, anche perché esso trovava la sua corrispondenza
nella articolazione delle forze politiche, attraverso il tipico fenomeno
del collateralismo categoriale (del mondo agricolo, della classe
operaia, del ceto medio impiegatizio).
E invece con l’inizio degli
anni 70 cambia tutto, e radicalmente, pur se non tutti allora se ne
accorsero, impegnati com’erano su altre impressive ma sovrastrutturali
tematiche. Succede che in quegli anni esplode l’economia sommersa (3-4
milioni di «spezzoni di lavoro» non riconducibili ad alcuna
rappresentazione statistica come di rappresentanza); con l’economia
sommersa matura ed esplode la piccola e piccolissima impresa (solo per
il settore industriale ci fu il raddoppio del numero delle imprese
create nei cento anni precedenti); esplode nel settore terziario non la
grande organizzazione dei servizi, ma il lavoro autonomo e individuale
(per esempio nei trasporti scomparve il grande Istituto Nazionale
Trasporti e dilagò il popolo dei proprietari di camioncini e di camion);
il pubblico impiego si dilata in maniera importante, ma perde
compattezza e identità a vantaggio della moltiplicazione di nuove figure
professionali e più ancora della corrosione operata da milioni di
«secondi lavoristi»; si affermava un enorme processo di cetomedizzazione
segnato più da una antropologica propensione alla soggettività
dell’agiatezza che da una seria potenziale maturazione di classe
borghese.
Noi ricercatori ci ritrovammo a lavorare in una realtà
senza più confini e schemi certi; e dovemmo prendere atto che tutto era
cambiato, e che vivevamo in una realtà di «post-fordismo», coscienti da
un lato che la dimensione organizzativa non funzionava più come
facitrice di composizione sociale; e dall’altro che tutto il nuovo
(economia sommersa, piccola impresa, lavoro autonomo, ecc.) aveva un
motore immobile e profondissimo: il valore della soggettività e della
libertà di essere se stessi, contro ogni vincolo sovraordinato, e non è
un caso che gli anni 70 furono anche gli anni, sul piano sociale e
valoriale, dell’accettazione referendaria del divorzio e dell’aborto).
Cavalcammo
allora, specialmente Bonomi e io, la tematica del post-fordismo,
impegnati però ad uscire dall’indistinto tipico di ogni «post». E i
lettori di quegli anni ritrovarono testi, anche nostri, su definizioni
meno indistinte: si parlò di capitalismo molecolare, di capitalismo
personale, di «piccolo è bello», di primato del fai da te, della
centralità della creatività individuale. Cercando di incardinare questo
panorama di scelte in alcuni processi più solidi e concreti (del
territorio, con il localismo, ai mercati internazionali con il made in
Italy). È stata, parlo almeno per me, una cavalcata fenomenologica di
grande interesse, e anche di soddisfazione, visto che vedevamo cose che
gli altri non capivano. Ma sapevamo che non potevamo restare a goderci
lo studio del post-fordismo, della molecolarizzazione, del primato della
soggettività. Sapevamo, anche perché lo constatavamo ogni giorno nelle
nostre ricerche, che i meccanismi della articolazione molecolare del
sistema continuavano a operare, sottotraccia, ma con estrema potenza. E
così oggi ci ritroviamo in un mondo di totale varietà, dove l’economia
dei servizi e la società della conoscenza producono non solo piccoli
imprenditori, lavoratori sommersi e lavoratori in proprio ma una miriade
di altre posizioni di lavoro, come (cito Bonomi) «classe creativa,
capitalisti personali, lavoratori della conoscenza, professionisti
metropolitani e globalizzati, imprenditori, cognitivi, giovani e adulti
esodati, precari, quarto stato» e si potrebbe continuare
nell’elencazione, in una quasi orgia di identità e figure professionali
«liquide».
Mi viene, rileggendo, un po’ di vertigine. E ho la
sensazione che una tale frastagliata fenomenologia non permetta più di
esercitare quel riconoscimento collettivo che è necessario in ogni
società (in termini di ricerca, di rappresentazione mediatica, di
rappresentanza sociale e politica). Gli schemi, anche i nostri, non
servono più, non bastano più; la realtà e la dinamica quotidiana sono
soverchiati, dovremo solo aspettare che si sedimentino. Ci resta solo la
soddisfazione, sempre gratificante per chi fa fenomenologia, che la
realtà è più forte di ogni sforzo di programmazione e organizzazione,
anche intellettuale .
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