Antonio Polito
I nostri figli sdraiati, i padri capovolti
Michele Serra, nell’ultimo libro fa il relativista sui valori etici e l’imperialista estetico
Così aliena il ruolo di genitore e si disinteressa dei gusti culturali dei giovanissimi
Corriere della Sera La Lettura, 1 dicembre 2013
E se l’«universo sconosciuto» di cui ha scritto Barbara Stefanelli sul
«Corriere della Sera» fossimo noi? Noi padri, intendo, e non i nostri
figli adolescenti che tanto incomprensibili ci appaiono? E se, come in
un racconto di fantascienza, gli umani si rivelassero i veri alieni?
Devo confessare che il dubbio mi è venuto leggendo Gli sdraiati ,
l’ultimo libro di Michele Serra (edito da Feltrinelli). Molto bello, e
molto popolare a giudicare dalle classifiche dei più venduti. E proprio
per questo meritevole di una buona polemica, perché lì dentro c’è un bel
po’ di senso comune della nostra generazione, di noi figli ribelli del
baby boom, diventati genitori obbedienti di figli perlopiù unici, e
solitamente viziati.
Il fatto è che leggendo Serra, la lunga lettera di un padre a un figlio
incomunicante, ho parteggiato per il figlio. E questo è grave, per un
genitore. Insomma, l’ossessione del protagonista per la cura delle
portulache sulla terrazza della seconda casa al mare, per il rito
annuale della vendemmia del Nebbiolo nella seconda casa di un’amica
nelle Langhe, e per la scalata di un fantastico quanto simbolico Colle
della Nasca (presso il quale par di potere ipotizzare una terza casa),
tutte magnifiche attività borghesemente colte, o coltamente borghesi,
che il padre vorrebbe imporre al figlio come prova di maturità, e di
amore del bello, e di pregnanza dell’esperienza umana, paiono noiose e
stravaganti a me, figurarsi al figlio. Il quale, non a torto, se ne
resta sdraiato e iperconnesso sul divano della prima casa, emulando i
coetanei che su Twitter si sono battezzati indivanados per distinguere
la loro pigra rivolta da quella più attiva degli indignados (e che temo
che Serra si sia perso perché, come da lui dichiarato, ha rifiutato la
frequentazione di Twitter, giudicato troppo banale con i suoi 140
caratteri).
Ma Serra e io siamo coetanei (anche se lui ricorda il suo Sessantotto di
quattordicenne mentre io, allora dodicenne, no) siamo cresciuti vicini,
abbiamo lavorato nello stesso giornale («l’Unità») e sospetto che
abbiamo votato a lungo lo stesso partito. E allora, mi domando, che cosa
è successo perché io sia finito dalla parte del figlio invece che del
padre-narratore? Io penso si tratti di questo: quel padre dichiara di
essere un «relativista etico», riluttante dunque a trasmettere valori, a
cercare verità, a parlare del bene e del male; ma, forse per
compensare, si comporta come un assolutista estetico, comicamente
ostinato nel tentativo di trasmettere un’idea di buon gusto, uno stile
di vita, una concezione del bello. Da parte mia sono invece giunto alla
conclusione che sia meglio fare l’opposto, e che il fallimento
genitoriale della nostra generazione (e se è per questo anche della
sinistra dal cui alveo veniamo) nasca proprio dall’aver tentato di
sostituire l’etica mancante con un’estetica intollerante. Penso che noi
padri dovremmo ricominciare a essere «etici», lasciando in compenso in
pace i nostri figli sull’estetica.
Mi stupisce per esempio che nel padre di Serra, così inorridito dalla
generazione wireless , dagli iPad, gli iPod e gli iPhone, non ci sia mai
curiosità su che cosa il figlio ascolta, legge, condivide; che il
rifiuto del mezzo (online) conviva con una sostanziale indifferenza al
messaggio. Questo ragazzo «sdraiato» studia? Legge, seppure su un ebook?
Che musica ascolta, satanica o angelica? Crede in Dio o in qualche
forma di trascendenza? Ama? Non si viene a sapere niente di tutto questo
dal libro, probabilmente perché il padre narratore non lo sa, e forse
non lo sa perché non gli interessa. Ciò che sommamente lo smuove è
piuttosto come il figlio accartocci l’amato kilim, o dove e in che
condizioni sparga i suoi calzini. Niente che non possa risolvere una
brava colf, che sicuramente non mancherà con tutte quelle case in giro
per mari e monti.
Ma anche tutta la confusione, e perfino l’odore che l’adolescente
promana (del resto è perfino etimologico che un adolescente abbia
odore), par di capire che sarebbero tollerati se solo il ragazzo una
volta all’anno vendemmiasse il Nebbiolo, o una volta nella vita
ascendesse il Colle della Nasca, cedendo così al gioco di potere del
genitore. Perché, e questo è per me il punto chiave del libro, tutte
queste cose non sono concepite dal padre come gusti personali, e
pertanto discutibili: «Come farti capire — scrive disperato — che non è
la mia vita, ma è la vita degli uomini quella della quale io sono un
così impacciato testimone?».
Dunque l’esperienza del padre interpreta niente di meno che «la vita
degli uomini». Il ragazzo che la rifiuta quindi nega la condizione
umana. Come potrebbero non sentirsi degli estranei i nostri figli, di
fronte a tanta siderale distanza, a questa dicotomia umano/non umano?
Invece di cercare succedanei estetici all’autorità etica cui abbiamo
rinunciato, dovremmo piuttosto parlare con loro della verità. Non per
convincerli della nostra, o ancor meno per piegarli alla nostra (il
Sessantotto è stato davvero utile da questo punto di vista, anche se in
Italia è durato troppo, dieci anni, ed è finito nel sangue di Aldo
Moro).
L’educazione non si impartisce, è la libertà di una persona che incontra
la libertà di un’altra. Ma se noi non abbiamo niente da dire sulla
verità, di che cosa pretendiamo di parlare con i nostri figli? Come
potranno cercare la loro verità, magari diversa, forse opposta, se noi
ne abbiamo paura? Perché ci dovrebbero ascoltare mentre ci crogioliamo
nei nostri riti di borghesi arrivati e progressisti, che non hanno più
niente di cui stupirsi e più nessuna novità cui aprirsi e ai quali la
verità non interessa più, perché il nostro pensiero si è fatto debole,
debolissimo, quasi inesistente? Forse abbiamo paura della libertà dei
nostri figli; temiamo che la usino male, ma non abbiamo niente da
proporre in cambio. Forse, da «adulti politicizzati», qualche volta li
odiamo persino; perché, come ha scritto Gustavo Pietropolli Charmet,
rimproveriamo loro «di non avere nessuna intenzione di intristirsi per
le stolide e appassite ragioni» per le quali abbiamo inutilmente
sofferto noi. Forse gli alieni siamo noi.
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