Marco Revelli
L'invisibile popolo dei nuovi poveri
il manifesto, 12 dicembre 2013
Torino
è stata l’epicentro della cosiddetta “rivolta dei forconi”, almeno
fino o ieri. Torino è anche la mia città. Così sono uscito di casa
e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il
protagonista di un vecchio film, degli anni ’70, ambientato al
tempo della rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». Bene,
devo dirlo sinceramente: quello che ho visto, al primo colpo
d’occhio, non mi è sembrata una massa di fascisti. E nemmeno di
teppisti di qualche clan sportivo. E nemmeno di mafiosi
o camorristi, o di evasori impuniti.
La prima impressione, superficiale, epidermica, fisiognomica – il
colore e la foggia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di
muoversi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di
“impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di
quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli
indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento,
piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare
dallo scoperto, o già costretti alla chiusura, artigiani con le
cartelle di equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori,
“padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per
pagarla, disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori, ex
manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite
iva divenute insostenibili, precari non rinnovati per la riforma
Fornero, lavoratori a termine senza più termini, espulsi dai
cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse.
Le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al
limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sottili,
oggi in rapida, forse vertiginosa espansione… Intorno, la piazza
a cerchio, con tutti i negozi chiusi, le serrande abbassate a fare un
muro grigio come quella folla. E la “gente”, chiusa nelle auto
bloccate da un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare
disagio, anch’essa presa dai propri problemi, a guardarli – almeno
in quella prima fase – con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci
si ferma per un funerale. E si pensa «potrebbe toccare a me…». Loro
alzavano il pollice – non l’indice, il pollice – come a dire «ci
siamo ancora», dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso
gesto, e un sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?».
Altra comunicazione non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire,
il comun denominatore che li univa era esilissimo, ridotto
all’osso. L’unico volantino che mostravano diceva «Siamo ITALIANI»,
a caratteri cubitali, «Fermiamo l’ITALIA». E l’unica frase che
ripetevano era: «Non ce la facciamo più». Ecco, se un dato
sociologico comunicavano era questo: erano quelli che non ce la
fanno più. Eterogenei in tutto, folla solitaria per costituzione
materiale, ma accomunati da quell’unico, terminale stato di
emergenza. E da una viscerale, profonda, costitutiva,
antropologica estraneità/ostilità alla politica.
Non erano una scheggia di mondo politico virulentizzata. Erano un
pezzo di società disgregata. E sarebbe un errore imperdonabile
liquidare tutto questo come prodotto di una destra golpista o di un
populismo radicale. C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo
che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squadre. E i
cultori della violenza per vocazione, o per frustrazione
personale o sociale. C’era di tutto, perché quando un contenitore
sociale si rompe e lascia fuoriuscire il proprio liquido
infiammabile, gli incendiari vanno a nozze. Ma non è quella la cifra
che spiega il fenomeno. Non s’innesca così una mobilitazione tanto
ampia, diversificata, multiforme come quella che si è vista a Torino.
La domanda vera è chiedersi perché proprio qui si
è materializzato questo “popolo” fino a ieri invisibile. E una
protesta altrove puntiforme e selettiva ha assunto carattere
di massa…
Perché Torino è stata la “capitale dei forconi”? Intanto perché
qui già esisteva un nucleo coeso – gli ambulanti di Parta Palazzo,
i cosiddetti “mercatali”, in agitazione da tempo – che ha
funzionato come principio organizzativo e detonatore della
protesta, in grado di ramificarla e promuoverla capillarmente.
Ma soprattutto perché Torino è la città più impoverita del Nord.
Quella in cui la discontinuità prodotta dalla crisi è stata più
violenta. Parlano le cifre.
Con i suoi quasi 4000 provvedimenti esecutivi nel 2012 (circa il
30% in più rispetto all’anno precedente, uno ogni 360 abitanti come
certifica il Ministero), Torino è stata definita la “capitale degli
sfratti”. Per la maggior parte dovuti a “morosità incolpevole”, il
caso cioè che si verifica «quando, in seguito alla perdita del lavoro
o alla chiusura di un’attività, l’inquilino non può più permettersi
di pagare l’affitto». E altri 1000 si preannunciano, come ha
denunciato il vescovo Nosiglia, per gli inquilini delle case
popolari che hanno ricevuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro
mensili imposti da una recente legge regionale anche a chi
è classificato “incolpevole” e che non se lo possono permettere.
“Maglia nera” anche per le attività commerciali: nei primi due mesi
dell’anno hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esistenti, 15 al giorno)
in città, e 626 in provincia (di cui 344 tra bar e ristoranti). E’
l’ultima statistica disponibile, ma si può presupporre che nei
mesi successivi il ritmo non sia rallentato. Altri quasi 1500 erano
“morti” l’anno prima. Mentre per le piccole imprese (la cui morìa ha
marciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiusure al giorno in Italia)
Torino si contende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei
“forconi”) la testa della classifica, con le sue 16.000 imprese
scomparse nell’anno, cresciute ancora nel primo bimestre del 2013 del
6% rispetto al periodo equivalente dell’anno prima e del 38% rispetto
al 2011 quando furono portate al prefetto di Torino, come dono di
natale, le 5.251 chiavi delle imprese artigiane chiuse nella provincia.
E’, letta attraverso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi
succedutisi nella transizione all’oltre-novecento, tutta intera la
composizione sociale che la vecchia metropoli di produzione
fordista aveva generato nel suo passaggio al post-fordismo, con
l’estroflessione della grande fabbrica centralizzata
e meccanizzata nel territorio, la disseminazione nelle filiere
corte della subfornitura monoculturale, la moltiplicazione
delle ditte individuali messe al lavoro in ciò che restava del grande
ciclo produttivo automobilistico, le consulenze
esternalizzate, il piccolo commercio come surrogato del
welfare, insieme ai prepensionamenti, ai co.co.pro, ai lavori
a somministrazione e interinali di fascia bassa (non i
“cognitari” della creative class, ma manovalanza a basso
costo… Composizione fragile, che era sopravvissuta in sospensione
dentro la “bolla” del credito facile, delle carte revolving,
del fido bancario tollerante, del consumo coatto. E andata giù nel
momento in cui la stretta finanziaria ha allungato le mani sul collo
dei marginali, e poi sempre più forte, e sempre più in alto.
Non è bella a vedere, questa seconda società riaffiorata alla
superficie all’insegna di un simbolo tremendamente obsoleto,
pre-moderno, da feudalità rurale e da jacquerie
come il “forcone”, e insieme portatrice di una ipermodernità
implosa. Di un tentativo di una transizione fallita. Ma è vera. Più
vera dei riti vacui riproposti in alto, nei gazebo delle primarie
(che pure dicevano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se
ne può più”) o nei talk show televisivi. E’ sporca, brutta
e cattiva. Anzi, incattivita. Piena di rancore, di rabbia
e persino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena.
Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella
soggettività”) del ciclo industriale, con il linguaggio del
conflitto rude ma pulito. Qui la politica è bandita dall’ordine del
discorso. Troppo profondo è stato l’abisso scavato in questi anni tra
rappresentanti e rappresentati. Tra linguaggio che si parla in
alto e il vernacolo con cui si comunica in basso. Troppo volgare
è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi
della vita. E forse, come nella Germania dei primi anni Trenta,
saranno solo i linguaggi gutturali di nuovi barbari a incontrare
l’ascolto di questa nuova plebe. Ma sarebbe una sciagura – peggio, un
delitto – regalare ai centurioni delle destre sociali il monopolio
della comunicazione con questo mondo e la possibilità di
quotarne i (cattivi) sentimenti alla propria borsa. Un ennesimo
errore. Forse l’ultimo.
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