Donatello Santarone
Lo stile ritrovato di una scelta di vita, il Manifesto, 14 maggio 2013
Riproposta da Sellerio
dopo quasi venti anni di assenza l'edizione completa delle lettere dal
carcere. Un libro che introduce a un'opera che ha segnato il clima
culturale dell'Italia repubblicana
«La storia è ciò che ci tocca più
direttamente ... perché costituisce l'unico oggetto di studio in cui gli
uomini si presentano davanti a noi nella loro interezza». Queste parole
di Erich Auerbach possono aiutarci a penetrare nei pensieri e nella
sofferta (ma anche a tratti felice) umanità delle Lettere dal carcere di
Antonio Gramsci. La frase del filologo tedesco ci rammenta che un
corretto approccio alle Lettere, come ai Quaderni e agli scritti
precedenti il carcere, non può non considerare l'interezza dell'uomo,
dell'intellettuale marxista e del militante comunista, in cui la
molteplicità e la ricchezza delle questioni affrontate si comprendono
restituendole alla storia. Solo dopo questa paziente ricostruzione, il
lascito di Gramsci può divenire, come è ormai accaduto in tante parti
del mondo, l'opera di un «classico», capace di parlare al presente anche
in contesti storici diversi da quelli che l'hanno generata.
Va salutata perciò con gioia la ricomparsa nelle librerie italiane della più completa raccolta dell'epistolario carcerario gramsciano, che l'editore Sellerio ripropone nell'edizione critica curata nel 1996 da uno dei maggiori studiosi al mondo di Gramsci, Antonio A. Santucci (Lettere dal carcere 1926-1937, Sellerio, pp. 886, euro 28). Si tratta di un corpus di 478 lettere a cui se ne aggiungono 16 indirizzate ad autorità giudiziarie, ministeriali e governative, ed altre 12 indirizzate a Gramsci da parte di Tatiana e Giulia Schucht, Giuseppe Berti, Ruggero Grieco e una inviata da Umberto Cosmo a Piero Sraffa, utili, scrive il curatore, per «consentire la ricostruzione immediata di alcuni scambi significativi del carteggio gramsciano».
La lima sottile del carcere
Va salutata perciò con gioia la ricomparsa nelle librerie italiane della più completa raccolta dell'epistolario carcerario gramsciano, che l'editore Sellerio ripropone nell'edizione critica curata nel 1996 da uno dei maggiori studiosi al mondo di Gramsci, Antonio A. Santucci (Lettere dal carcere 1926-1937, Sellerio, pp. 886, euro 28). Si tratta di un corpus di 478 lettere a cui se ne aggiungono 16 indirizzate ad autorità giudiziarie, ministeriali e governative, ed altre 12 indirizzate a Gramsci da parte di Tatiana e Giulia Schucht, Giuseppe Berti, Ruggero Grieco e una inviata da Umberto Cosmo a Piero Sraffa, utili, scrive il curatore, per «consentire la ricostruzione immediata di alcuni scambi significativi del carteggio gramsciano».
La lima sottile del carcere
Immergersi nella lettura di queste pagine rappresenta una straordinaria avventura dello spirito, consente di misurarsi con alcuni fondamentali problemi dell'esistenza umana, facendo conoscere a un lettore del XXI secolo un viaggio di formazione e di conoscenza che solo un classico può offrirci. Un'opera compiuta, ricorda Santucci nella nota introduttiva, nata dalla condizione di un uomo recluso e privato della libertà dal fascismo, di un uomo che «affida al dialogo epistolare il compito di rallentare gli effetti devastanti della "lima sottile" che disgrega la mente e la volontà del condannato».
Questo dialogo epistolare è un continuo intreccio di autoanalisi e di descrizioni della condizione psico-fisica del prigioniero, a più riprese gravemente sofferente, ma sempre lucidamente consapevole delle ragioni storiche della sua condizione. Scrivendo alla sorella Teresina ed esprimendo preoccupazione per lo stato d'animo della madre, scrive: «Per lei (la mamma) il mio incarceramento è una terribile disgrazia alquanto misteriosa nelle sue concatenazioni di cause ed effetti; per me è un episodio della lotta politica che si combatteva e si continuerà a combattere non solo in Italia, ma in tutto il mondo» (Lettera 92, 20 febbraio 1928). Gramsci paragona la sua condizione di carcerato e quella di un altro famoso detenuto, il patriota abruzzese Silvio Spaventa, deputato al Parlamento napoletano del 1848, il quale mantenne sempre una grande coerenza di ideali, «né - afferma Gramsci - si diede alla devozione, anzi, come scrive spesso, si andò sempre più persuadendo che la filosofia di Hegel era l'unico sistema e l'unica concezione del mondo razionali e degni del pensiero d'allora» (Lettera 171, 13 gennaio 1930).
L'ostinata volontà di comunicare e dialogare è un tratto precipuo della personalità di Gramsci: «Sarà perché tutta la mia formazione intellettuale è stata di ordine polemico; anche il pensare "disinteressatamente" mi è difficile, cioè lo studio per lo studio. (...) Ordinariamente mi è necessario pormi da un punto di vista dialogico o dialettico, altrimenti non sento nessuno stimolo intellettuale. Come ti ho detto una volta, non mi piace tirar sassi nel buio; voglio sentire un interlocutore o un avversario in concreto; anche nei rapporti familiari voglio fare dei dialoghi» (Lettera 211, 15 dicembre 1930).
Ci sono poi i temi più esplicitamente politici, storici, filosofici, letterari, pedagogici, nei quali Gramsci, pur dentro quella criptografia carceraria necessaria per eludere la censura, affronta, o semplicemente vi allude, alcune delle questioni approfondite nei Quaderni del carcere. Tra questi vi è quello educativo. Nel tentativo di contrastare la morte di una rosa, che «ha preso una terribile insolazione», e cercando di sostenere la crescita di nuove «pianticelle», Gramsci scrive a Tania: «A me ogni giorno viene la tentazione di tirarle un po' per aiutarle a crescere, ma rimango incerto tra le due concezioni del mondo e dell'educazione: se essere roussoiano e lasciar fare la natura che non sbaglia mai ed è fondamentalmente buona o se essere volontarista e sforzare la natura introducendo nell'evoluzione la mano esperta dell'uomo e il principio d'autorità. Finora l'incertezza non è finita e nel capo mi tenzonano le due ideologie». (Lettera 148, 22 aprile 1929). Questo brano è emblematico di un procedimento molto frequente nelle Lettere: a partire da una descrizione della vita in cella, da un raccontino, da una memoria dell'infanzia in Sardegna, da una vicenda naturale, Gramsci introduce temi di rilevanza teorica, come questo relativo al rapporto educativo, all'alternativa pedagogica (così Mario Alighiero Manacorda volle intitolare un'antologia gramsciana sull'educazione) tra spontaneità e coercizione, individualità e autorità, libertà e necessità.
La fatica intellettuale
In tutta l'opera e l'azione politica di Gramsci il tema della formazione riveste infatti un'importanza particolare, fin dagli anni del movimento consiliare torinese e dell'Ordine nuovo, perché convinto che non è possibile pensare alla politica senza un solido fondamento culturale. La classe operaia, sostiene Gramsci, potrà esercitare una duratura egemonia nella misura in cui essa sarà dotata di una solida coscienza di classe («il rivoluzionario qualificato») frutto di un molecolare e serio tirocinio intellettuale che parta dalle lotte e che si accompagni a momenti di discussione e di studio. A questo proposito va ricordato che curò personalmente le dispense per un corso di formazione dei primi quadri del nascente partito comunista, che si adoperò per la costituzione di club di discussione culturale, che più volte intervenne per ricordare quanta importanza avesse la conquista di una cultura generale di base per la classe operaia necessaria per avere idee generali sul mondo in opposizione alla aridità e alla meccanicità delle vecchie scuole professionali che trasformano i lavoratori in «mostri aridamente istruiti». Così scriveva sull'Avanti! del 24 dicembre 1916: «Al proletariato è necessaria una scuola disinteressata. Una scuola in cui sia data al fanciullo la possibilità di formarsi, di diventare uomo, di acquistare quei criteri generali che servono allo svolgimento del carattere. Una scuola umanistica, insomma, come la intendevano gli antichi e i più recenti uomini del Rinascimento».
Costretto a non rivedere più i figli Delio e Giuliano, Gramsci scrive lettere toccanti e piene di umanità ai suoi bambini e alla moglie Giulia, chiedendo notizie sulla loro crescita intellettuale e morale, sulla scuola, sui loro interessi. Il dirigente comunista si interroga sulla funzione educativa del Meccano, indicato come il gioco più vicino alla nuova cultura industriale di quegli anni, sull'importanza dei classici della letteratura per l'infanzia, sui racconti legati alla natura e agli animali, sullo studio della storia, che «riguarda - scrive al figlio Delio - gli uomini viventi (...), tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi» (Lettera 468, data incerta).
Nel frattempo Gramsci matura (otto mesi dopo la lettera sulla rosa) una sua posizione sull'educazione, intimamente connessa alla sua concezione della politica e del partito, in cui centrale è ciò che nei Quaderni definisce il «conformismo dinamico», cioè un processo di acculturazione, istruzione e socializzazione unitario e omogeneo (simile, in questo, ai nuovi processi di standardizzazione industriale del fordismo statunitense e dei piani quinquennali sovietici), solo a partire dal quale è possibile far emergere l'individualità e la creatività. Distante dal puerocentrismo di tanta pedagogia attivistica (non ci si deve abbandonare «alla pura contemplazione estetica del bambino, che viene implicitamente degradato alla funzione di un'opera d'arte»), alla quale pure Gramsci guarda con molta curiosità e considerazione, egli si propone di passare dalla fase della scuola attiva a quella della scuola creativa.
Il rumore di fondo della merce
Per questa ragione lo studioso marxista, a proposito dell'educazione del figlio Delio, ha l'impressione che la concezione della moglie e della sua famiglia «sia troppo metafisica, cioè presupponga che nel bambino sia in potenza tutto l'uomo e che occorra aiutarlo a sviluppare ciò che già contiene di latente, senza coercizioni, lasciando fare alle forze spontanee della natura o che so io. Io invece penso che l'uomo è tutta una formazione storica ottenuta con la coercizione (intesa non solo nel senso brutale e di violenza esterna) Questo modo di concepire l'educazione come sgomitolamento di un filo preesistente ha avuto la sua importanza quando si contrapponeva alla scuola gesuitica, cioè quando negava una filosofia ancora peggiore, ma oggi è altrettanto superato. Rinunziare a formare il bambino significa solo permettere che la sua personalità si sviluppi accogliendo caoticamente dall'ambiente generale tutti i motivi di vita». (Lettera 170, 30 dicembre 1929).
Questo accoglimento caotico dall'ambiente generale è ciò che il Franco Fortini chiamava il «rumore di fondo», cioè la pervasiva e molecolare penetrazione del capitale attraverso i media e le merci, con tutto il loro carico evocativo e educativo, nella formazione delle persone. E tale penetrazione, ricordava Fortini, accompagnata dalla rinuncia ad opporvisi da parte della maggioranza della sinistra italiana, ha contribuito alla gigantesca rivoluzione passiva che ha segnato la storia d'Italia degli ultimi venticinque anni.
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