Gianni Toniolo
Il Sole 24ore, 29 gennaio 2012
Daniel R. Headrick, Il predominio dell'Occidente. Tecnologia, ambiente, imperialismo, il Mulino, Bologna,pagg. 408, € 29,00
Ignazio Musu, La Cina contemporanea, il Mulino, Bologna, pagg. 204, € 13,00
L'evento che definisce la nostra epoca, gli ultimi vent'anni della
storia universale, è la fine della "grande divergenza" tra l'Occidente e
il resto del mondo, o - se si preferisce - tra le due estremità
dell'Eurasia origine delle civiltà che nei secoli sono state più capaci
di innovazione e sviluppo economico. La rivoluzione sottesa dalla
convergenza iniziata nell'ultimo quarto del secolo scorso è talmente
radicale che non stupisce il rinnovato interesse per l'origine e le
cause della precedente "grande divergenza". Sul piano meramente
quantitativo, non vi sono dubbi che, a partire dalla rivoluzione
industriale di fine del '700, Europa e America settentrionale abbiano
progressivamente ampliato il divario tra il proprio reddito per
abitante, in rapida crescita, e quello del resto del mondo bloccato (con
l'eccezione del Giappone) in una crescita nulla o molto modesta.
Altrettanto largo consenso esiste nel ritenere che ancora nel
quindicesimo secolo l'impero della dinastia Ming, con una popolazione
pari a un quarto di quella mondiale, godesse di un reddito pro capite
complessivamente pari o di poco inferiore a quello dell'Europa
Occidentale e che alcune sue regioni uguagliassero quelle europee più
sviluppate. Il disaccordo è, invece, sommo sui secoli compresi tra
l'irrompere delle potenze europee nei mari dell'Oriente e l'avvio della
rivoluzione industriale inglese. La scuola californiana, capeggiata da
Kenneth Pomeranz (The Great Divergence, 2000), sostiene che l'economia
cinese ha retto molto bene il confronto con quella europea sino,
appunto, al momento in cui la rivoluzione industriale diede
all'Occidente un (temporaneo) vantaggio sul resto del mondo. Di opinione
opposta sono altri studiosi (con moderazione Rosenthal e Wong, Before
and Beyond Divergence, 2011, più radicalmente alcuni storici
quantitativi). Nell'ultimo decennio, l'interesse per l'origine della
"grande divergenza" ha valicato il confine dei cultori di "storia
globale". Era inevitabile che la straordinaria crescita di grandi Paesi
di antica civiltà, a lungo emarginati nella dinamica dello "sviluppo
economico moderno", producesse una orgogliosa rivisitazione del proprio
passato, con toni più o meno velati di nazionalismo anti occidentale. Se
fosse provato che Cina e India godevano a fine settecento di livelli di
benessere paragonabili a quelli dell'Europa Occidentale, sarebbe assai
più facile sostenere che la successiva "grande divergenza" sia stata
frutto di un avido imperialismo. È questa, per esempio, la tesi
sostenuta ora da un importante studioso indiano (Parthasarathi, Why
Europe Grew Rich and Asia Did Not: Global Economic Divergence,
1600-1850, 2012).
Il contributo di Daniel Headrick a questo dibattito consiste nel
mostrare come la relazione tra tecnologia e imperialismo sia più
complessa di quanto comunemente si pensi. Non vi sono dubbi, per
Headrick, sul predominio tecnologico dell'Occidente dal XVI secolo in
avanti. Fino alla seconda metà del Quattrocento, la marina cinese era la
prima del mondo. Avrebbe potuto continuare a esserlo se, per una serie
di motivi, non si fosse deciso di tagliare le enormi spese necessarie a
mantenere la flotta militare, limitando drasticamente anche il commercio
oltremare. All'inizio del Cinquecento, la migliore tecnologia marittima
era ormai in mano ai portoghesi. Bastò, da allora in poi, il predominio
tecnico dell'Occidente a garantire anche un dominio "imperiale"? Non
sempre. Molto dipese dall'ambiente in cui le diverse tecniche furono
impegnate e dalla reazione-imitazione delle popolazioni locali,
soprattutto dalla loro capacità di adattare a proprio uso alcune delle
tecniche occidentali. La diffusione del vaiolo, da cui gli europei erano
immuni, aiutò la loro penetrazione nelle Americhe ma le malattie
autoctone africane agirano da potente freno alla penetrazione bianca nel
continente. Le "vele e i cannoni" di cui parla Cipolla consentivano di
dominare il mare aperto ma non di penetrare nelle acque interne
dell'Asia. I cavalli si trasformarono in America da strumento di
conquista ad arma di resistenza, una volta che le popolazioni locali
impararono ad allevarli e adattarli alle grandi praterie. Francesi,
americani e russi impararono a proprie spese in Vietnam e Afghanistan
che il predominio dell'aria, decisivo in Kosovo, può anche rivelarsi
controproducente. La conclusione di Headrick è che non sempre la
tecnologia di frontiera costituisce la migliore risposta a un
avversario: l'imperialismo ha avuto fortune altalenanti anche, forse
soprattutto, per questo motivo.
Mentre fiorisce il dibattito sull'origine della "grande divergenza", il
suo recente ribaltamento irrompe nella storia, nella nostra vita
quotidiana. Fatichiamo a orientarci sulle cause della nuova convergenza e
soprattutto capire se essa sia destinata a proseguire. L'Oriente, culla
del nuovo sviluppo, ci sembra per lo più misterioso e quindi un po'
minaccioso, come ai tempi di Marco Polo. Mezzo millennio di
eurocentrismo ci ha disabituato a guardare oltre l'orto di casa. Ignazio
Musu, da anni frequentatore e studioso della Cina, ci offre un'agile,
leggibilissima, introduzione all'economia e alla società cinesi, a
partire dalle riforme che stanno all'origine dell'incredibile rincorsa
dell'Occidente da parte di un quinto della popolazione mondiale. Mentre
discutiamo, anche su questo giornale, sulle debolezze e sul futuro del
capitalismo, con la mente quasi ossessivamente focalizzata su Wall
Street e dintorni, Musu ci introduce a un "capitalismo" che, malgrado
un' apparente somiglianza, è molto lontano dalla più recente
incarnazione occidentale. Si può ipotizzare, con tutti i necessari
distinguo, che Stato e mercato interagiscano nella società cinese, in
modi che assomigliano a quelli dell'Inghilterra del diciottesimo secolo?
O a quelli cinesi del quindicesimo secolo? La domanda è azzardata e non
piacerà a molti storici, economisti, politologi ma potrebbe aiutare a
chiudere il cerchio di mezzo millennio di storia globale e orientare
alcune riflessioni sulle opportunità, i rischi e le sfide che Musu vede
nel futuro della Cina e non solo.
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