foto di Stefano Bertolino
Torino, 4 maggio 2013. “Lei si chiama Zohra che significa fiore, mia figlia si chiama Alae che significa tutti i doni che dà il Creatore, lei si chiama Aya che significa miracolo e io mi chiamo Essadia che è la felicità infatti vedi come sono felice?”.
Essadia
mi introduce nel loro mondo con un sorriso sereno, come se questa
Italia le avesse portato via tutto, ma non quello che il suo nome ha
impresso nella sua carne. Sono seduta con loro, come un’amica e
mentre parliamo i bambini passano dalle braccia di una a quelle
dell’altra.
Finalmente
la pioggia ha dato un po’ di tregua e quel pallido raggio di sole
che ci illumina ci fa sentire ancora più vicine.
Da
lunedì vivono davanti al Municipio, in Piazza Palazzo di Città,
determinati a chiedere una risposta concreta al dramma che stanno
vivendo, attraverso una protesta pacifica, ma inesorabile. Sono una
comunità, mossa da un forte senso di solidarietà e accoglienza, “il
tuo problema è anche inevitabilmente il mio e allora non posso che
condividere con te tutto questo”. E anche noi veniamo accolti, come
se ci conoscessimo da sempre, quello che hanno ci viene offerto, che
sia una tazza di the, un caffè, un piatto di cuscus o una minestra
calda.
E
allora ti siedi con loro sotto i portici, su una coperta, a gambe
incrociate, e inizi ad ascoltare le loro storie. Gli uomini ti
raccontano che per vent’anni hanno lavorato la notte, ai mercati
generali, hanno faticato per risparmiare i soldi necessari per
l’acquisto della tanto sognata casa dove crescere i figli, ti
raccontano della facilità con cui la banca ha concesso loro il
mutuo, dell’arrivo della moglie e poi della nascita dei figli. Il
sogno di una stabilità economica che si realizza, con fatica e
onestà. Ti raccontano del permesso di soggiorno o dell’umiliazione
di essere considerato straniero anche quando hai la cittadinanza
italiana. Poi la crisi, il lavoro sempre più precario e sporadico,
la banca che con la stessa facilità con cui ti aveva dato una mano
ora ti chiede di pagare le rate del muto arretrate altrimenti… il
gesto di Mustafa è chiaro, altrimenti “smamma”, ti buttiamo
fuori di casa. Ma se non c’è lavoro come si può riuscire a pagare
ogni mese 500 euro di mutuo o di affitto?
Le
donne ti chiedono di sederti con loro, ti ringraziano perché
semplicemente sei lì, ti parlano dei loro figli, di quello che
fanno, ti spiegano il significato dei loro nomi che hanno scelto nel
Corano e si illuminano quando vedono che anche tu conosci (un
pochino) la loro religione.
Sono
15 famiglie, alcune attendono l’esecuzione dello sfratto, una non
ha più una casa. Sono una giovane coppia con due meravigliosi
bambini di 2 e 3 anni. I loro corpi sono segnati dalla stanchezza, i
loro occhi sono pieni di paura per l’insicurezza del domani, non
hanno più nulla, tutto è rimasto nella casa dalla quale sono stati
sfrattati, hanno solo una piccola valigia con qualche vestito di
ricambio. La notte Khadija e i bambini vengono ospitati a dormire
dagli amici, mentre il gruppo di uomini restano a dormire qui,
davanti al comune, in attesa che qualcuno si accorga di loro e decida
di fare qualcosa.
I
passanti quasi non li notano, nemmeno il sindaco sembra farlo, scappa
verso la macchina quando i bambini lo rincorrono gridandogli “basta
sfratti!”. Non riesce a trovare una soluzione o forse semplicemente
non la vuole trovare affatto.
Loro
restano qui, sono passati sei giorni, ma non mollano. Se chiedi cosa
puoi fare per loro, se hanno bisogno di qualcosa, ti sorrido e ti
dicono “Nulla, per noi se sei qui basta”.
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