Valentina Tosoni
la Repubblica, 26 aprile 2013
Eccole una vicina all'altra entrambe sdraiate e rilassate, ma con lo
sguardo vigile, attento nel fissarti dritto negli occhi, senza indugio.
Basta solo questa visione a decretare l'eccezionalità della mostra che
ha ''invitato'' a Palazzo Ducale di Venezia ''l'Olympia '' di Manet, che
per la prima volta lascia la Francia e la ''Venere di Urbino'' del
Tiziano (prestito eccezionale dalla Galleria degli Uffizi), due
cortigiane, donne emancipate e fuori dagli schemi. Entrambe arrivate
per presenziare nell'esposizione ''Manet, ritorno a Venezia'', che si
candida a essere una delle principali attrattive della Serenissima,
proprio ora che si appresta a essere invasa anche dall'arte
contemporanea; tra meno di un mese la prossima Biennale conquisterà i
Giardini, l'Arsenale e non solo.
Come
si sa, tornando ai capolavori di prima, la più antica fanciulla ispirò
la più recente, non per questo, però riuscì a evitarle tutta una serie
di scandali che segnarono il suo destino. ''L'Olympia'', dipinta da
Manet nel 1863, fu rifiutata al Salon del '65, da allora quello spirito
di sconvenienza e di difficile accettazione l'accompagnò sempre, come
quel malizioso nastrino che le cinge il collo, d'un nero ''ineludibile e
poco impressionistico'', come scrive nel testo in catalogo Skira,
Roberto Calasso. Manet venne in Italia a studiare l'arte antica e in
particolare apprezzò la pittura di Tiziano, la descrizione delle forme così vivide
e naturali, sempre accompagnate da un peso psicologico intrinseco,
valori che trovò manifesti e perfettamente interpretati nella splendida
Venere, che lo colpì a tal punto da volerne reiterare l'intensità,
trasportandola nella sua contemporaneità. C'è chi sostiene che in realtà
Manet si formò principalmente in Spagna, dove pure si recò da giovane, e
si abbeverò davanti a Goya, El Greco e Velasquez. Sicuramente
quell'educazione pose le sue fondamenta e lo strutturò, ma la mostra
veneziana con le sue 80 tele straordinarie, fa capire quanto
quell'imprinting dovette poi fondersi con altri influssi.
Manet
per ben tre volte soggiornò a Venezia, assimilò Giorgione, Veronese e
Guardi, come da Firenze portò con sé il tratto dolce dei ''manieristi'' e
fu ingordo del nostro Rinascimento. La prima volta che vide la laguna
fu nel settembre del 1853, poco più che ventenne, e nello stesso anno vi
ritornò per un secondo viaggio. L'ultimo fu invece nel 1874, stesso
anno della famosa mostra dell'Impressionismo a Parigi. Esposizione a cui
non partecipò, si lasciò invece cullare dalla fantastica luce italiana e
realizzò varie vedute del Canal Grande.
La mostra,
sapientemente congegnata da Stéphane Guéguan e voluta da Gabriella
Belli, direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia, riserva
grandi emozioni: sono molti i capolavori prestati dal Museo D'Orsay, dal
''Balcon'' realizzato tra il 1868 e il 1869, opera importante che
accenna e anticipa quella modernità che poi sarebbe esplosa senza mezzi
termini, il celeberrimo pifferaio ''Le fifre'' del 1866 e ancora una
copia dell'epocale ''Déujeuner sur l'herbe'' del 1863, che nonostante
l'impianto compositivo classico, fece gridare allo scandalo per
l'utilizzo di abiti moderni e per le proporzioni della donna nuda in
primo piano; ci pensò la storia a tramutare il dipinto dai morbidi
contrasti cromatici, in uno dei più significativi capolavori del XIX
secolo.
L'impianto critico della mostra è volto a sostenere che
non solo la pittura spagnola influenzò l'arte di Manet, ma in buona
parte fu proprio l'arte italiana a plasmare l'impianto linguistico del
grande artista francese. Oltre a ciò, però è stato realizzato: ''Un
grande sogno, che ha comportato un anno e mezzo di lavoro'', ha
dichiarato Gabriella Belli in conferenza stampa, e ha poi aggiunto ''Si è
concretizzato un desiderio che tutti i direttori di museo, storici
dell'arte come me, hanno: riunire nella stessa sala due capolavori,
l'uno nato di conseguenza all'altro, siamo riusciti a mettere finalmente
a confronto 'Olympia e la 'Venere di Urbino''. Due immensi dipinti che
nonostante i 300 anni di distanza, dialogano con estrema modernità.
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