Walter Porcedda
La Nuova Sardegna, 11 maggio 2013
«Tenente Camilleri! Cosa fa? Si defili». Chi dà quell'ordine nei
giorni della Grande Guerra fu Emilio Lussu comandante della Brigata
Sassari.E così salvò la vita a un ufficiale siciliano. A raccontarlo
dopo cento anni è il figlio, lo scrittore Andrea Camilleri. Rivela
l'episodio, come in un coup de théâtre, al termine dell’appassionante
lezione magistrale, ieri nell'aula magna del Rettorato, rigurgitante di
pubblico accorso ad ascoltare le parole del letterato che seguono quelle
della laudatio del docente Giuseppe Marci. E’ l’inizio della cerimonia
che si concluderà con la consegna allo scrittore, da parte del rettore
Giovanni Melis, della Laurea honoris causa in Lingue e letterature
moderne europee e americane.
L'aneddoto giunge alla fine di una avvincente analisi sul rapporto tra
genitori e figli che ha visto lo scrittore concentrarsi tra Giovanni
Verga, Luigi Pirandello, Grazia Deledda e Italo Svevo. E' in questo
contesto che emerge quel racconto. Dopo un rapporto contrastato come
spesso sono quelli tra un genitore e un figlio, giunge il momento tra i
due di dirsi tutto. Accade quando il padre di Camilleri sarà ricoverato
per una grave malattia. Lo scrittore allora ultraquarantenne, decide di
stargli accanto ogni sera.
Come quella notte. Verso l'alba «aveva aperto gli occhi e, alzatosi mi
fissava. A voce alta gridava: "Tenente Camilleri, tenente Camilleri". Io
non sapevo cosa rispondere. Continuò a chiamarmi con tono imperioso
"Tenente Camilleri". Capii allora che stava rivivendo un momento di
guerra e io ero lui. E lui era Lussu. "Signorsì" risposi. "Presto
tenente si defili, non vede che è sotto tiro?". Indugiai. Ero commosso,
emozionato. Allora lui insistette imperioso: "Si defiliii !".
Molti anni prima gli avevo domandato: "Babbo, ma tu quando andavi
all'attacco non provavi paura?" E lui: "Certo! Ma con quella gente lì,
se non ti dimostravi coraggioso…".
"Si defili", ripetè. Non sapevo più che cosa rispondere. Allora lui
disse: "Si defili, gli ho detto, o vuole insegnarci il coraggio,
coglione di un siciliano". "Signorsì”.
Prima di quella notte Camilleri come Zeno di Svevo sentì immediato il
bisogno di stare accanto al padre. «Non potevo lasciare che se ne
andasse senza avergli spiegato le ragioni di certe mie convinzioni che
l'avevano profondamente addolorato. Ero l'unico figlio che aveva, e
penso, di averlo deluso da ragazzo e nella prima giovinezza in tante
aspettative. Voleva che andassi con lui alle partite di calcio. E io mi
rifiutai. Voleva che lo accompagnassi a caccia, qualche volta ci andai
ma poi smisi. Voleva insegnarmi a giocare a biliardo, ma non riuscì mai a
farmi prendere in mano una stecca. L'amavo intensamente ma non mi
piacevano le cose che faceva. Al contrario amavo molto i libri che
leggeva. Non era un intellettuale ma un uomo di buone letture. Era stato
fascista della prima ora, squadrista, ma non facinoroso, né settario (e
infatti sugli ebrei disse che "quella della razza era una tragica
buffonata per fare piacere a Hitler"). Fu negli ultimi mesi del ’42 che
prese le distanze pubblicamente dal regime. Su per giù nello stesso
periodo io maturai segretamente la mia conversione al comunismo».
Adesso sentiva la necessità di un ultimo colloquio con lui che
chiudesse il discorso. «Prendendoci per mano ci parlammo. A cuore
aperto, sussurrando. Quasi una lunga confessione. Le parole ora
scorrevano fra di noi, senza intoppi. Non ci fu una domanda che non ebbe
una risposta». Ed è proprio in questo intimo racconto la chiave per
comprendere le relazioni tra giovani e vecchi. Camilleri prende le mosse
dal "Mastro Don Gesualdo" di Verga focalizzandosi sulla "roba", cioè il
patrimonio accumulato che andrà disperso. Sono quelle linee di
contrasto di tradizione rintracciabili anche in "L'incendio
nell'oliveto" di Deledda in cui viene fuori la paura del nuovo. Lo
scontro tra due mondi chiusi sulle proprie certezze, senza dialoghi che
possano aprire spiragli.
E solo con il passare dei tempi questa lacerazione muta. Non sta più
nell'avere ma nell'essere come in "I vecchi e i giovani" di Pirandello.
Ma è proprio in "La coscienza di Zeno", nel quarto capitolo che si legge
come questo conflitto sia collegato alla difficoltà di comunicare.
Entrambi, dice Camilleri, hanno difficoltà a farlo perché non hanno la
stessa età e non condividono le identiche esperienze. Il contatto può
avvenire solo se c'è la volontà reciproca di aprire un dialogo. Rendendo
omaggio alla memoria del padre, Camilleri ha dimostrato come la
letteratura sia il racconto del mondo. Di quello che siamo stati e
saremo.
Ed ecco gli ultimi attimi di quei momenti vissuti con il padre.
“Ricadde in un torpore quieto. Io invece ero profondamente scosso. Dopo
un po’ vidi alzare la mano all'altezza del viso e credetti che volesse
fare qualcosa che non gli riusciva. Pensando che gli dava fastidio il
boccaglio dell'ossigeno, gli presi la mano, ma lui a fatica se la portò
sulla fronte. Capii che si voleva fare il segno della croce. Aprì gli
occhi, mi guardò. Aveva uno sguardo lucidissimo. "Vai via", mi disse,
"vai via e torna dopo che ti sei fumato una sigaretta". Ubbidii. E
quando, dopo aver fumato, andai verso la sua camera, sapevo che non
l'avrei trovato più”.
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Il testo della lectio magistralis esce sul Sole24ore di oggi http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-05-11/camilleri-domani-domenicale-sole-170611.shtml?uuid=AbIdr4uH&fromSearch
Sullo stesso tema, qui, nel blog belfagor
http://machiave.blogspot.it/2013/05/in-mancanza-del-padre-psicologia-e.html
http://machiave.blogspot.it/2013/04/recalcati-la-pastorale-americana.html
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