giovedì 29 novembre 2018

Alle origini del neoliberismo

Ludwig von Mises

Paolo Di Motoli,
Neoliberalismo, tutto cominciò nella Camera di commercio a Vienna
il manifesto, 29 novembre 2018



Lo storico del Wellesley college (Massachussets) Quinn Slobodian ha pubblicato di recente un testo (Globalist. The End of Empire and the Birth of Neoliberalism, Harvard University Press) che intende raccontare la nascita del neoliberalismo da un punto di vista differente rispetto alla vulgata comune anche tra gli scienziati sociali.
Secondo l’autore uno degli ostacoli principali nel raccontare il neoliberalismo, ponendosi dal punto di vista dei suoi animatori, è l’eccessiva fiducia nelle categorie interpretative del celebre storico dell’economia e antropologo Karl Polanyi.
L’INFLUENZA RETROATTIVA della sua opera più importante dal titolo La grande trasformazione ha prodotto una narrazione del neoliberalismo (pur precedendolo) come di un movimento teorico volto a «liberare» dalla società il mercato interpretato come fatto naturale e realizzando l’utopia di un mercato che si regolamenta da solo. Questa narrazione si è di fatto sovrapposta alle reali intenzioni degli stessi autori ascrivibili al neoliberalismo che invece pensavano al mercato come intreccio di relazioni che deve fare affidamento sulle reti istituzionali.
Secondo Slobodian, fin dai suoi esordi, il neoliberalismo austriaco non avrebbe cercato di abbattere lo stato, ma di creare un ordine internazionale ben strutturato in grado di salvaguardare la proprietà privata dalle ingerenze dei singoli stati. Questo pensiero era il frutto di una reazione di stampo conservatore al crollo dell’impero asburgico.
LO STORICO FA INIZIARE il neoliberalismo non dall’autonarrazione eroica che ne fecero i membri della Mont Pèlerin society (otto premi Nobel al suo interno) del 1947 che nella pubblicistica si è sempre battuta per il liberalismo e per la società aperta, ma dall’edificio della Camera di commercio di Vienna dove Ludwig Von Mises cominciò a lavorare a partire dal 1909.
MISES RITENEVA il crollo asburgico come una minaccia per la proprietà privata poiché questa era garantita in passato dall’imperatore mentre con la democrazia poteva essere messa in discussione e controllata dallo stato. L’avvento del fascismo venne salutato da Mises con sollievo e l’ordoliberale tedesco Wilhelm Röpke gli fece eco con ancora maggiore convinzione. Il teorico tedesco scrisse nel 1964 che i neri del sud Africa appartenevano a un livello di civiltà inferiore e che l’apartheid non era oppressivo e assieme alla Rhodesia era uno dei bastioni della civiltà bianca attaccata dal nuovo ordine postcoloniale. William Hutt, economista inglese ascrivibile alla scuola austriaca che lavorò alla Cape Town University teorizzava la difesa dell’occidente bianco, cristiano e caucasico da quello che chiamava in epoca postcoloniale «imperialismo nero». Slobodian non ci parla di Milton Friedman e delle politiche reaganiane ma dei neoliberali che da Vienna passarono a Ginevra (sede della Società delle Nazioni dal 1920) focalizzando il loro pensiero sulla politica globale.
DOPO GLI ECONOMISTI, pronti a mettere in discussione lo statuto epistemologico stesso della loro disciplina – poiché la sua istituzionalizzazione rischiava di per sé di portare a pianificazione e redistribuzione – venne una nuova generazione di giuristi come Ernst-Ulrich Petersmann che lavorarono per costruire ordini internazionali e intergovernativi per il commercio e la protezione legale della proprietà privata. Von Hayek in una lettera al Times di Londra del 1978 sosteneva che le libertà personali erano più ampie sotto il regime di Pinochet piuttosto che sotto Allende, avendo in mente proprio la difesa della proprietà privata.


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