Michele
Smargiassi
“Noi Wu Ming diciamo
addio alla Storia”
Il
collettivo di autori si congeda dal genere con “L’invisibile
ovunque” sulla Grande guerra
la
Repubblica, 27 novembre 2015
BOLOGNA In un chiostro del
mistico labirinto delle sette chiese di Santo Stefano, la nebbia di
novembre inumidisce l’anagrafe di marmo del grande macello di un
secolo fa. Assieme ai Wu Ming, i quattro autori “senza nome” del
collettivo di scrittura bolognese che vent’anni fa rivoluzionò il
romanzo storico in Italia, passeggiamo in laica meditazione fra le
lapidi ai caduti della Prima guerra mondiale. Ossia l’epoca in cui
si svolgono i quattro racconti di “L’invisibile ovunque”
(Einaudi). Il libro che per loro, Wu Ming, segna l’evasione dalla
loro stessa storia, verso terreni nuovi della narrazione.
Neppure voi avete resistito alla tentazione del centenario, quindi?
«Le librerie sono piene di rievocazioni, in montagna si imbellettano i camminamenti e si lucidano i fili spinati per i pacchetti turistici, ma l’occasione l’hanno colta in pochi. L’occasione di riflettere su quanto quella guerra abbia condizionato pesantemente il nostro presente. Si è preferito un anniversario di retorica della conciliazione. La cultura italiana è tornata indietro anche rispetto all’antiretorica pacifista di Uomini contro, si è recuperato perfino l’interventismo democratico. Una volta prestato l’omaggio rituale al cliché della “inutile strage”, si è archiviata la grande guerra come una sorta di catastrofe naturale, deprecabile, inevitabile. Si è come ricucito chirurgicamente un trauma storico e politico. Ma il filo è marcito sulle ferite...».
È un libro-verità, il vostro, allora?
«No. Non è “il grande romanzo dei Wu Ming sulla guerra”, qualcuno forse si aspettava le ottocento pagine epiche, forse è il libro più sottile che abbiamo mai scritto (ma solo in apparenza, perché è denso come un file zippato…). Per noi il modo di chiudere quel percorso ventennale attraverso il romanzo storico che iniziò nel ‘95 con Q e che è finito con L’armata dei sonnambuli ».
Un genere che avete reinventato, il neoromanzo storico italiano, che ha avuto fortuna ed epigoni: rinnegate tutto?
«Niente affatto, né possiamo giurare che non ci torneremo mai. Ma dopo averlo esplorato, deformato, forzato, abbiamo piegato le sbarre della finestra e ce ne siamo andati. Questo libro è un po’ la mappa della nostra evasione da un genere che almeno a noi ha dato tutto ciò che poteva dare».
Verso quale destinazione?
«Qui ci sono quattro racconti, che sono poi quattro spostamenti progressivi della forma narrativa. Il primo è nello stile del romanzo storico classico: un individuo alle prese con la grande storia, un racconto immaginario ispirato a racconti familiari e storie orali. Il secondo è una sorta di docufiction che fonde in una storia virtuale vicende reali tratte da diari e memorie di persone reali. Il terzo è un anti-romanzo di taglio surrealista, del resto il suo protagonista è André Breton. Il quarto è quello che gli anglosassoni hanno chiamato mockumentary, e funziona al contrario del secondo: vicende largamente immaginarie vengono proposte nello stile del saggio storico. Nell’insieme, è un po’ come offrire ai lettori la tastiera più vasta delle cose che ci piace scrivere ora».
Anche la tecnica di scrittura è cambiata?
«Anche quella ha preso una forma più individuale. Per la prima volta, anche se il progetto è stato deciso in comune, anziché editare assieme il testo, ciascuno di noi quattro ha scritto un racconto che è stato semplicemente riletto dagli altri».
Perché la prima guerra mondiale? Si prestava bene all’esperimento?
«Non è in realtà neppure un libro sulla grande guerra: la attraversa, in qualche modo la evade. È precisamente un libro sull’evasione. Per quello che racconta, e per come lo fa».
Cosa intendete per evasione?
«Una strategia umana molecolare di fuga dall’orrore, una forma di resistenza individuale alla stretta del potere, di cui la guerra è solo l’espressione più evidente. Da un punto di vista puramente narrativo, sono quattro storie di uomini che eludono la paura della guerra in modi diversi».
La storia quasi-vera della “brigata camaleonte” è una delle più avvincenti del libro. Ma alla luce della cronaca recente, è anche inquietante. I guerrieri mimetizzati nell’ambiente, che sbucano dal nulla, non sono in fondo i commando stragisti del Daesh nascosti nelle nostre città?
“La tuta mimetica nacque per salvare la vita, non per aggredirla meglio. Per rendere il corpo del soldato invisibile al nemico, per proteggerlo. Poi il suo scopo è cambiato, è diventato il mascheramento del cecchino che colpisce senza essere visto. Ma nella teoria della mimetizzazione è rimasta la traccia di una domanda ancora aperta: può esistere un modo per nascondersi completamente agli occhi della guerra? Farsi questa domanda è già un atto di resistenza, anche ai terrori di oggi».
Quelle raccontate nel libro sono fughe individuali. Un po’ sorprendente da parte vostra: affezionati al romanzo corale come scrittori, sostenitori dell’azione collettiva nel vostro impegno politico...
«Qualcuno magari si aspettava da noi il racconto di una diserzione di massa, di una brigata intera che si ribella contro i comandi militari, cose che peraltro non ci furono... Magari le avremmo inventate se fossimo, come qualcuno continua a pensare, scrittori di manuali di istruzioni sovversive in forma di romanzi. Certo, la coralità dei nostri romanzi precedenti era voluta, programmatica, ma non era ideologicamente obbligatoria. Continuiamo a credere che senza l’organizzazione e l’azione comune non si va da nessuna parte, ma non sempre è possibile salvarsi collettivamente, ci sono momenti in cui sei da solo, e sono quei momenti che abbiamo sentito il bisogno di esplorare».
Un elogio della fuga, del si salvi chi può, del ciascuno per sé?
«Intendiamoci, l’evasione non è una diserzione. Disertare è abbandonare una causa comune che potrebbe anche avere un senso. Evadere è sottrarsi con uno scarto geniale al vicolo cieco, per ricostruirsi altrove. George Jackson, uno dei fratelli di Soledad, dice: prima fuggo, poi cerco un’arma. La diserzione è istinto di sopravvivenza, l’evasione è offensiva. Ma non c’è intento morale o pedagogico nelle intenzioni del libro. Il nostro impegno, quando scriviamo, è prima di tutto liberare la narrazione. Questa volta il nostro punto di partenza era: come si possa mentire alla guerra, per
detournarne la logica, per fregarla, per ingannarla. L’esito narrativo dell’individualità non era in programma, è esploso da solo nelle narrazioni, ha stupito un po’ anche noi ma l’abbiamo accettato. È vero però che nessuna delle quattro storie di evasione individuale è vincente, tutte finiscono in tragedia o fallimento. Ma ci sono storie per quando lotti con gli altri, e storie per il momento in cui vacilli da solo sull’orlo di un dirupo. L’invisibile ovunque l’abbiamo scritto per momenti come questo».
Neppure voi avete resistito alla tentazione del centenario, quindi?
«Le librerie sono piene di rievocazioni, in montagna si imbellettano i camminamenti e si lucidano i fili spinati per i pacchetti turistici, ma l’occasione l’hanno colta in pochi. L’occasione di riflettere su quanto quella guerra abbia condizionato pesantemente il nostro presente. Si è preferito un anniversario di retorica della conciliazione. La cultura italiana è tornata indietro anche rispetto all’antiretorica pacifista di Uomini contro, si è recuperato perfino l’interventismo democratico. Una volta prestato l’omaggio rituale al cliché della “inutile strage”, si è archiviata la grande guerra come una sorta di catastrofe naturale, deprecabile, inevitabile. Si è come ricucito chirurgicamente un trauma storico e politico. Ma il filo è marcito sulle ferite...».
È un libro-verità, il vostro, allora?
«No. Non è “il grande romanzo dei Wu Ming sulla guerra”, qualcuno forse si aspettava le ottocento pagine epiche, forse è il libro più sottile che abbiamo mai scritto (ma solo in apparenza, perché è denso come un file zippato…). Per noi il modo di chiudere quel percorso ventennale attraverso il romanzo storico che iniziò nel ‘95 con Q e che è finito con L’armata dei sonnambuli ».
Un genere che avete reinventato, il neoromanzo storico italiano, che ha avuto fortuna ed epigoni: rinnegate tutto?
«Niente affatto, né possiamo giurare che non ci torneremo mai. Ma dopo averlo esplorato, deformato, forzato, abbiamo piegato le sbarre della finestra e ce ne siamo andati. Questo libro è un po’ la mappa della nostra evasione da un genere che almeno a noi ha dato tutto ciò che poteva dare».
Verso quale destinazione?
«Qui ci sono quattro racconti, che sono poi quattro spostamenti progressivi della forma narrativa. Il primo è nello stile del romanzo storico classico: un individuo alle prese con la grande storia, un racconto immaginario ispirato a racconti familiari e storie orali. Il secondo è una sorta di docufiction che fonde in una storia virtuale vicende reali tratte da diari e memorie di persone reali. Il terzo è un anti-romanzo di taglio surrealista, del resto il suo protagonista è André Breton. Il quarto è quello che gli anglosassoni hanno chiamato mockumentary, e funziona al contrario del secondo: vicende largamente immaginarie vengono proposte nello stile del saggio storico. Nell’insieme, è un po’ come offrire ai lettori la tastiera più vasta delle cose che ci piace scrivere ora».
Anche la tecnica di scrittura è cambiata?
«Anche quella ha preso una forma più individuale. Per la prima volta, anche se il progetto è stato deciso in comune, anziché editare assieme il testo, ciascuno di noi quattro ha scritto un racconto che è stato semplicemente riletto dagli altri».
Perché la prima guerra mondiale? Si prestava bene all’esperimento?
«Non è in realtà neppure un libro sulla grande guerra: la attraversa, in qualche modo la evade. È precisamente un libro sull’evasione. Per quello che racconta, e per come lo fa».
Cosa intendete per evasione?
«Una strategia umana molecolare di fuga dall’orrore, una forma di resistenza individuale alla stretta del potere, di cui la guerra è solo l’espressione più evidente. Da un punto di vista puramente narrativo, sono quattro storie di uomini che eludono la paura della guerra in modi diversi».
La storia quasi-vera della “brigata camaleonte” è una delle più avvincenti del libro. Ma alla luce della cronaca recente, è anche inquietante. I guerrieri mimetizzati nell’ambiente, che sbucano dal nulla, non sono in fondo i commando stragisti del Daesh nascosti nelle nostre città?
“La tuta mimetica nacque per salvare la vita, non per aggredirla meglio. Per rendere il corpo del soldato invisibile al nemico, per proteggerlo. Poi il suo scopo è cambiato, è diventato il mascheramento del cecchino che colpisce senza essere visto. Ma nella teoria della mimetizzazione è rimasta la traccia di una domanda ancora aperta: può esistere un modo per nascondersi completamente agli occhi della guerra? Farsi questa domanda è già un atto di resistenza, anche ai terrori di oggi».
Quelle raccontate nel libro sono fughe individuali. Un po’ sorprendente da parte vostra: affezionati al romanzo corale come scrittori, sostenitori dell’azione collettiva nel vostro impegno politico...
«Qualcuno magari si aspettava da noi il racconto di una diserzione di massa, di una brigata intera che si ribella contro i comandi militari, cose che peraltro non ci furono... Magari le avremmo inventate se fossimo, come qualcuno continua a pensare, scrittori di manuali di istruzioni sovversive in forma di romanzi. Certo, la coralità dei nostri romanzi precedenti era voluta, programmatica, ma non era ideologicamente obbligatoria. Continuiamo a credere che senza l’organizzazione e l’azione comune non si va da nessuna parte, ma non sempre è possibile salvarsi collettivamente, ci sono momenti in cui sei da solo, e sono quei momenti che abbiamo sentito il bisogno di esplorare».
Un elogio della fuga, del si salvi chi può, del ciascuno per sé?
«Intendiamoci, l’evasione non è una diserzione. Disertare è abbandonare una causa comune che potrebbe anche avere un senso. Evadere è sottrarsi con uno scarto geniale al vicolo cieco, per ricostruirsi altrove. George Jackson, uno dei fratelli di Soledad, dice: prima fuggo, poi cerco un’arma. La diserzione è istinto di sopravvivenza, l’evasione è offensiva. Ma non c’è intento morale o pedagogico nelle intenzioni del libro. Il nostro impegno, quando scriviamo, è prima di tutto liberare la narrazione. Questa volta il nostro punto di partenza era: come si possa mentire alla guerra, per
detournarne la logica, per fregarla, per ingannarla. L’esito narrativo dell’individualità non era in programma, è esploso da solo nelle narrazioni, ha stupito un po’ anche noi ma l’abbiamo accettato. È vero però che nessuna delle quattro storie di evasione individuale è vincente, tutte finiscono in tragedia o fallimento. Ma ci sono storie per quando lotti con gli altri, e storie per il momento in cui vacilli da solo sull’orlo di un dirupo. L’invisibile ovunque l’abbiamo scritto per momenti come questo».
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