Gianpasquale
Santomassimo
Lo storico pop e globaleil manifesto, 2 ottobre 2012, p. 11
Abbiamo detto che si proclamò comunista per tutta la vita, e rimase anche dopo il 1956 nel piccolo partito comunista britannico: ma nel corso degli anni divenne in patria un consigliere ascoltato del Labour Party, fortemente critico tanto della rigidità «classista» dell’era di Kinnock, incapace di comprendere i mutamenti della società, quanto del New Labour di Tony Blair, null’altro che «un Thatcher con i pantaloni». Ma la svolta di Miliband è frutto anche in parte della sua critica, e di un rapporto personale e familiare (il padre fu valido storico e teorico marxista).
In realtà Hobsbawm dichiarò di essersi considerato a partire dal 1956 un «membro spirituale» del partito comunista italiano alle cui idee si sentiva particolarmente vicino. Le numerose pagine «italiane» testimoniano di un lungo rapporto che fu anche familiarità e condivisione di problematiche con una generazione di storici (Rosario Villari, Ernesto Ragionieri, Giuliano Procacci, Renato Zangheri) e anche di politici (Giorgio Napolitano, in modo particolare, che intervistò nel 1976, quando la breve fiammata dell’«eurocomunismo» aveva acceso interessi e speranze destinate a declinare).
C’è in rete una «videolettera» toccante registrata il 20 marzo 2007 in cui Hobsbawm si rivolge ad Antonio Gramsci, con gratitudine e ammirazione, che più di ogni altro documento attesta il legame «italiano», sentimentale e teorico, dello storico inglese verso una forma di comunismo che sentiva vicina alla sua sensibilità.
La sua popolarità presso il grande pubblico, come abbiamo ricordato, derivò in gran parte dal Secolo breve, titolo italiano di The Age Of Extremes, volume che brevemente e forse un po’ bruscamente concludeva il ciclo del «Lungo Ottocento» che era stato oggetto dei volumi di sintesi che lo avevano preceduto. È la sua opera più discussa, e forse la più discutibile, per tanti motivi. Di fatto, Hobsbawm passerà gli ultimi anni della sua vita a discutere, limare, correggere quelle interpretazioni, alla luce dei nuovi avvenimenti che cambiavano il quadro del mondo descritto nell’ultimo capitolo: la Frana, che seguiva improvvisamente all’Età dell’Oro dell’Occidente. Ora la frana si è approfondita, rischia di travolgere tutto, e l’Occidente che si sentiva trionfante nell’Ottantanove appare sempre più in declino. Il secolo americano, che Hobsbawm aveva visto nascere, sembra avviato a chiudersi al momento della sua scomparsa, come aveva previsto a conclusione della sua autobiografia dieci anni fa.
In quella che è una delle sue ultime interviste, nel maggio 2012, l’interlocutore gli chiedeva: Cosa rimane di Marx? Lei, in tutta questa conversazione non ha mai parlato né di socialismo né di comunismo… E Hobsbawm rispondeva: «Il fatto è che neanche Marx ha parlato molto né di socialismo né di comunismo, ma neanche di capitalismo. Scriveva della società borghese. Rimane la visione, la sua analisi della società. Resta la comprensione del fatto che il capitalismo opera generando le crisi. E poi, Marx ha fatto alcune previsioni giuste a medio termine. La principale: che i lavoratori devono organizzarsi in quanto partito di classe».
Quanto alla sinistra attuale, il giudizio era molto esplicito:
«Non ha più niente da dire, non ha un programma da proporre. Quel che ne rimane rappresenta gli interessi della classe media istruita, e non sono certo centrali nella società».
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