« Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura Esta selva selvaggia e aspra e forte Che nel pensier rinova la paura ! » Dante, La Divina Commedia, incipit |
|
Au milieu du chemin de notre vie
je me retrouvai par une forêt obscure
car la voie droite était perdue.
Ah dire ce qu'elle était est chose dure
cette forêt féroce et âpre et forte
qui ranime la peur dans la pensée !
Traduction Jacqueline Risset
|
Au milieu du chemin de notre vie,
je me retrouvai dans une forêt sombre,
la juste direction étant perdue.
Ah ! si rude est l'effort pour la décrire,
cette forte forêt, farouche et âpre,
qui ravive la peur dès qu'on l'évoque !
Traduction Marc Scialom
|
A mi-chemin de notre vie
me retrouvai par une sylve obscure
car la voie droite était perdue.
Ah qu'il est dur de dire qu'elle était
cette forêt sauvage et âpre et forte
qui renouvelle la peur dans la pensée !
Traduction Didier Marc Garin
|
Au milieu du chemin de notre vie
je me trouvai par une selve obscure
et vis perdue la droiturière voie.
Ha, comme la décrire est dure chose
cette forêt sauvage et âpre et forte,
qui, en pensant, renouvelle ma peur !
Traduction André Pézard
|
A la moitié du chemin de notre vie
je me retrouvai par une sylve obscure,
où la voie droite avait été perdue.
Ah, qu'il est dur de dire ce qu'était
cette forêt âpre et sauvage et violente
qui dans ma pensée renouvelle la peur !
Traduction Jean-Charles Vegliante
|
Au milieu du chemin de notre vie, je me trouvai dans une forêt obscure, car j'avais perdu la voie droite. Ah ! Qu'il est dur de dire ce qu'elle était, cette forêt sauvage, âpre et rude, dont le souvenir renouvelle ma peur ! Traduction Alexandre Masseron |
venerdì 28 febbraio 2014
Traduzioni francesi di Dante
giovedì 27 febbraio 2014
Ancora sulla Cina: Davide Lajolo (1967)
Venti quattro anni, Rizzoli, Milano 1981
26 luglio [1967]
In Cina siamo allo scontro finale tra Mao e Liu Sciao Ci.
Se ricordo il fascino che la figura di Mao emanava durante quel lungo colloquio, tuttora vivissimo a distanza di tanti anni, mi pare davvero impossibile che in un uomo che ha avuto tanta saggezza e guidato verso la libertà un miliardo di uomini, possa nascere un odio così accecante, una sete di distruzione di tutto quanto ha costruito assieme al suo popolo. Mao quando parlava di popolo pareva diverso dagli altri uomini. Dava la sensazione di essere popolo col popolo, come se fosse ancora con i contadini nelle caverne a sfamarsi col pane di soia e un pugno di riso e la sua esistenza valesse solo in quella consapevolezza. Ora le notizie dicono che tutto il caos in cui sta precipitando la Cina, le persecuzioni, le irrisioni contro i combattenti della Lunga Marcia con al collo cartelli infamanti, messi alla gogna dai codardi che diventano crudeli quando sono sicuri dell'incolumità, è voluto da Mao. Quello stesso popolo che si è liberato torna a scontrarsi nella guerra civile. Anche Mao agisce come Stalin. In Cina si uccide senza la finzione di processi e di sentenze infami.
Evidentemente Mao non ha sopportato di vedere eletto a presidente della Repubblica Liu Sciao Ci, anche se è stato sempre al suo fianco. Mao lotta contro il Comitato Centrale, contro il partito. Sui giornali murali si insulta anche Ciu En Lai, il collaboratore più fedele di Mao. La fraterna, incrollabile amicizia con l'URSS è crollata tra gli spari sul confine dell'Ussuri. Il socialismo non estirpa la guerra, l'odio fratricida. Allora di che socialismo si tratta? Perché tanti sacrifici nella certezza di mutare volto al mondo? Penso ai miei ragazzi partigiani che morivano inneggiando alla libertà e nel nome di Stalin, penso agli studenti che cadono oggi sotto il piombo della polizia gridando i nomi di Che Guevara e di Mao. Certe illusioni ti cadono sulla testa come mazzate. Come resistere? Come insistere nella lotta? Quali valori, quali esempi, quali certezze per un mondo migliore da insegnare ai giovani?
----------------------------------------------------------------------------------------------------------
RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE
(settembre 1965 - estate 1967). Tentativo di mobilitazione politica condotto da Mao Zedong negli anni sessanta con l'obiettivo di evitare alla rivoluzione cinese il processo di involuzione sociale che egli ravvisava nell'Unione sovietica. Secondo un'interpretazione, l'iniziativa fu probabilmente collegata allo scontro di vertice tra Mao, appoggiato dall'esercito popolare guidato da Lin Biao e da pochi ideologi rivoluzionari come Chen Boda, e l'apparato istituzionale del partito e dei sindacati diretto da Liu Shaoqii e da Deng Xiaoping. I diversi gruppi dirigenti strumentalizzarono ai loro fini le forze presenti nella società civile provocando a più riprese la rimozione e la persecuzione di interi settori di militanti di partito, la crisi di importanti strumenti culturali e amministrativi e un danno generale all'apparato produttivo del paese e soprattutto al processo di formazione delle nuove generazioni. Un'altra linea interpretativa accentua invece il carattere eversivo degli appelli di Mao ai giovani contro il consolidamento delle strutture burocratiche immobilistiche e parassitarie, dovuto all'intreccio tra la tradizione confuciana e l'adesione ai modelli staliniani. La sconfitta della Grande rivoluzione culturale proletaria si consumò nell'estate 1967, quando Mao dovette accettare la logica di un ritorno all'ordine, sostenuto tra l'altro dai quadri rurali di formazione militare a lui fedeli, dall'esercito e dall'amministrazione capeggiata da Zhou Enlai. Le successive vicende (dalla condanna dei gruppi giovanili, a quella degli ideologi e poi di Lin Biao fino all'arresto di Jiang Qing e della cosiddetta "banda dei quattro" dopo la morte di Mao) sarebbero state solo tappe della rimozione dell'esperienza.
Dizionario di storia moderna e contemporanea, Paravia Bruno Mondadori
26 luglio [1967]
In Cina siamo allo scontro finale tra Mao e Liu Sciao Ci.
Se ricordo il fascino che la figura di Mao emanava durante quel lungo colloquio, tuttora vivissimo a distanza di tanti anni, mi pare davvero impossibile che in un uomo che ha avuto tanta saggezza e guidato verso la libertà un miliardo di uomini, possa nascere un odio così accecante, una sete di distruzione di tutto quanto ha costruito assieme al suo popolo. Mao quando parlava di popolo pareva diverso dagli altri uomini. Dava la sensazione di essere popolo col popolo, come se fosse ancora con i contadini nelle caverne a sfamarsi col pane di soia e un pugno di riso e la sua esistenza valesse solo in quella consapevolezza. Ora le notizie dicono che tutto il caos in cui sta precipitando la Cina, le persecuzioni, le irrisioni contro i combattenti della Lunga Marcia con al collo cartelli infamanti, messi alla gogna dai codardi che diventano crudeli quando sono sicuri dell'incolumità, è voluto da Mao. Quello stesso popolo che si è liberato torna a scontrarsi nella guerra civile. Anche Mao agisce come Stalin. In Cina si uccide senza la finzione di processi e di sentenze infami.
Evidentemente Mao non ha sopportato di vedere eletto a presidente della Repubblica Liu Sciao Ci, anche se è stato sempre al suo fianco. Mao lotta contro il Comitato Centrale, contro il partito. Sui giornali murali si insulta anche Ciu En Lai, il collaboratore più fedele di Mao. La fraterna, incrollabile amicizia con l'URSS è crollata tra gli spari sul confine dell'Ussuri. Il socialismo non estirpa la guerra, l'odio fratricida. Allora di che socialismo si tratta? Perché tanti sacrifici nella certezza di mutare volto al mondo? Penso ai miei ragazzi partigiani che morivano inneggiando alla libertà e nel nome di Stalin, penso agli studenti che cadono oggi sotto il piombo della polizia gridando i nomi di Che Guevara e di Mao. Certe illusioni ti cadono sulla testa come mazzate. Come resistere? Come insistere nella lotta? Quali valori, quali esempi, quali certezze per un mondo migliore da insegnare ai giovani?
----------------------------------------------------------------------------------------------------------
RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE
(settembre 1965 - estate 1967). Tentativo di mobilitazione politica condotto da Mao Zedong negli anni sessanta con l'obiettivo di evitare alla rivoluzione cinese il processo di involuzione sociale che egli ravvisava nell'Unione sovietica. Secondo un'interpretazione, l'iniziativa fu probabilmente collegata allo scontro di vertice tra Mao, appoggiato dall'esercito popolare guidato da Lin Biao e da pochi ideologi rivoluzionari come Chen Boda, e l'apparato istituzionale del partito e dei sindacati diretto da Liu Shaoqii e da Deng Xiaoping. I diversi gruppi dirigenti strumentalizzarono ai loro fini le forze presenti nella società civile provocando a più riprese la rimozione e la persecuzione di interi settori di militanti di partito, la crisi di importanti strumenti culturali e amministrativi e un danno generale all'apparato produttivo del paese e soprattutto al processo di formazione delle nuove generazioni. Un'altra linea interpretativa accentua invece il carattere eversivo degli appelli di Mao ai giovani contro il consolidamento delle strutture burocratiche immobilistiche e parassitarie, dovuto all'intreccio tra la tradizione confuciana e l'adesione ai modelli staliniani. La sconfitta della Grande rivoluzione culturale proletaria si consumò nell'estate 1967, quando Mao dovette accettare la logica di un ritorno all'ordine, sostenuto tra l'altro dai quadri rurali di formazione militare a lui fedeli, dall'esercito e dall'amministrazione capeggiata da Zhou Enlai. Le successive vicende (dalla condanna dei gruppi giovanili, a quella degli ideologi e poi di Lin Biao fino all'arresto di Jiang Qing e della cosiddetta "banda dei quattro" dopo la morte di Mao) sarebbero state solo tappe della rimozione dell'esperienza.
Dizionario di storia moderna e contemporanea, Paravia Bruno Mondadori
Etichette:
Cina,
Ciu En Lai,
Lajolo,
Mao,
socialismo
lunedì 24 febbraio 2014
Luciano Vasconi, I cinesi (1964)
Brevi profili politici dei vari protagonisti (pp. 213-223)
Mao Tse-Tung
... Tale fede messianica nell'uomo è la forza e insieme la debolezza di Mao: attrae le masse dache "non hanno nulla da perdere" se non la loro secolare miseria ma le espone a perdere l'unico bene posseduto, la vita stessa. Lo accusano, per questa sua visione idealistica, di mettere a repentaglio l'intero suo popolo e l'umanità tutta quanta; ma, secondo il suo detto, rinfacciato a Kruscev all'epoca della crisi cubana, se bisogna essere "audaci nella strategia" (per sgretolare l'imperialismo pezzo a pezzo fino a renderlo inoffensivo), occorre essere "prudenti nella tattica", non sottovalutando le capacità di reazioni immediate del nemico di classe.
... Il giorno in cui Mao dovesse scomparire, la Cina perderebbe, insieme a una di grande rilievo e prestigio, forse anche l'uomo che ha fatto da cemento di posizioni politiche contrastanti.
Ciu En-lai
In senso molto relativo è il Bukharin cinese, come espressione della corrente moderata, o per lo meno come l 'uomo sul quale confluiscono le speranze dei fautori di una distensione interna. Ad ogni rettifica per gli eccessi delle "Comuni", Ciu è apparso come l'uomo in ascesa, il quale, sebbene difendesse in proprio la "linea generale" del partito, l'adattava alle circostanze (senza essersi esposto nella fase iniziale dell'esperimento).
...
Teng Hsiao-ping
Benché braccio destro di Liu Sciao-ci, come secondo rappresentante in ordine gerarchico dei "dottrinari", è forse l'uomo più enigmatico al vertice della leadership cinese. Se alla scomparsa di Mao dovessero elidersi i Liu Sciao-ci e i Ciu En-lai (per quanto l'ipotesi sia vaga), Teng potrebbe dalla carica che attualmente ricopre, di segretario generale del partito, e quindi capo della burocrazia, diventare addirittura una specie di Stalin cinese. Per quanto improbabile una ripetizione meccanica, in Cina, di quanto si produsse in URSS alla scomparsa di Lenin, l'uomo di secondo piano, ma potente per il controllo delle leve organizzative del partito, che potrebbe liquidare i Trotzki e i Bukharin di Pechino, se si frantumasse la loro alleanza, sarebbe questo.
...
Come andarono poi le cose
Largely due to his expertise, Zhou was able to survive the purges of other top officials during the Cultural Revolution of the 1960s. His attempts at mitigating the Red Guards' damage and his efforts to protect others from their wrath made him immensely popular in the Revolution's later stages. As Mao Zedong's health began to decline in 1971 and 1972, Zhou and the Gang of the Four struggled internally over leadership of China. Zhou's health was also failing, however, and he died eight months before Mao on 8 January 1976. The massive public outpouring of grief in Beijing turned to anger towards the Gang of Four, leading to the Tiananmen Incident. Although succeeded by Hua Guofeng, it was Deng Xiaoping, Zhou's ally, who was able to outmaneuver the Gang of Four politically and eventually take Mao's place as Paramount leader by 1977. (Wikipedia)
Mao Tse-Tung
... Tale fede messianica nell'uomo è la forza e insieme la debolezza di Mao: attrae le masse dache "non hanno nulla da perdere" se non la loro secolare miseria ma le espone a perdere l'unico bene posseduto, la vita stessa. Lo accusano, per questa sua visione idealistica, di mettere a repentaglio l'intero suo popolo e l'umanità tutta quanta; ma, secondo il suo detto, rinfacciato a Kruscev all'epoca della crisi cubana, se bisogna essere "audaci nella strategia" (per sgretolare l'imperialismo pezzo a pezzo fino a renderlo inoffensivo), occorre essere "prudenti nella tattica", non sottovalutando le capacità di reazioni immediate del nemico di classe.
... Il giorno in cui Mao dovesse scomparire, la Cina perderebbe, insieme a una di grande rilievo e prestigio, forse anche l'uomo che ha fatto da cemento di posizioni politiche contrastanti.
Ciu En-lai
In senso molto relativo è il Bukharin cinese, come espressione della corrente moderata, o per lo meno come l 'uomo sul quale confluiscono le speranze dei fautori di una distensione interna. Ad ogni rettifica per gli eccessi delle "Comuni", Ciu è apparso come l'uomo in ascesa, il quale, sebbene difendesse in proprio la "linea generale" del partito, l'adattava alle circostanze (senza essersi esposto nella fase iniziale dell'esperimento).
...
Teng Hsiao-ping
Benché braccio destro di Liu Sciao-ci, come secondo rappresentante in ordine gerarchico dei "dottrinari", è forse l'uomo più enigmatico al vertice della leadership cinese. Se alla scomparsa di Mao dovessero elidersi i Liu Sciao-ci e i Ciu En-lai (per quanto l'ipotesi sia vaga), Teng potrebbe dalla carica che attualmente ricopre, di segretario generale del partito, e quindi capo della burocrazia, diventare addirittura una specie di Stalin cinese. Per quanto improbabile una ripetizione meccanica, in Cina, di quanto si produsse in URSS alla scomparsa di Lenin, l'uomo di secondo piano, ma potente per il controllo delle leve organizzative del partito, che potrebbe liquidare i Trotzki e i Bukharin di Pechino, se si frantumasse la loro alleanza, sarebbe questo.
...
Come andarono poi le cose
Largely due to his expertise, Zhou was able to survive the purges of other top officials during the Cultural Revolution of the 1960s. His attempts at mitigating the Red Guards' damage and his efforts to protect others from their wrath made him immensely popular in the Revolution's later stages. As Mao Zedong's health began to decline in 1971 and 1972, Zhou and the Gang of the Four struggled internally over leadership of China. Zhou's health was also failing, however, and he died eight months before Mao on 8 January 1976. The massive public outpouring of grief in Beijing turned to anger towards the Gang of Four, leading to the Tiananmen Incident. Although succeeded by Hua Guofeng, it was Deng Xiaoping, Zhou's ally, who was able to outmaneuver the Gang of Four politically and eventually take Mao's place as Paramount leader by 1977. (Wikipedia)
sabato 22 febbraio 2014
Due generazioni allo streaming
Massimo Recalcati
Due generazioni allo streaming
la Repubblica, 22 febbraio 2014
La diretta streaming Renzi–Grillo è
materia ghiotta per l’analisi non solo politica ma anche
psicopatologica. Per il M5S è stata un’altra occasione persa per fare
pesare la propria forza elettorale. Ma, nel tradimento da parte di
Grillo del mandato popolare che aveva ricevuto dal suo popolo, dobbiamo
leggere qualcosa di più sottile che ci consente di introdurre la lente
di ingrandimento della psicoanalisi. Si tratta ancora una volta del
rapporto tra le generazioni che è divenuto un tema politico e
antropologico centrale del nostro paese. Rispetto alla prima diretta
streaming Bersani-M5S la rappresentanza generazionale appare in questo
caso invertita: ora è il figlio ad essere presidente incaricato ed è il
padre a rappresentare le ragioni dell’opposizione. Anche i turni
conversazionali appaiono totalmente invertiti: al monologo disperato e
paterno di Bersani si è sostituito quello iracondo e provocatorio di
Grillo, Ma in un caso e nell’altro i figli tacciono o sono costretti,
come in quest’ultimo caso, a tacere. Sono solo i padri che parlano.
Ma con una differenza sostanziale. Nel
caso di Bersani si poteva apprezzare tutto lo sforzo di un buon padre di
famiglia per convincere i figli adolescenti e oppositivi per principio
che la crisi obbligava a ragionare insieme e a congiungere le forze.
Avevo a suo tempo paragonato questo tentativo a quello dello Svedese,
mitico protagonista di Pastorale americana di Philip Roth di
fronte al fondamentalismo adolescente della figlia ex terrorista e
membro fanatico di una setta religiosa**. Con Grillo invece la paternità
assume tutt’altra connotazione. La sua voce non cerca dialogo, non
riconosce alcuna dignità al suo interlocutore, non parla, ma accusa. Non
intende ragionare sui contenuti ma definisce con sdegno l’impurità
dell’avversario di cui si dichiara un ‘nemico fisico”.
In questo contesto di ribaltamento dei
ruoli generazionali (il figlio fa la parte del padre, mentre il padre fa
la parte del figlio), l’attimo che costituisce il focus di tutta la
scena è quando Grillo dà del “ragazzo” al Presidente incaricato.
Soffermiamoci un momento su questo passaggio ai miei occhi decisivo.
«Sei solo un ragazzo, certe cose non le sai, lascia fare a me che ho
quarant’anni di esperienza». Questo, più che la dichiarazione di non
essere democratico, che non ha stupito nessuno, deve davvero colpire. Ma
come? Un leader che ha saputo mobilitare con forza i giovani
restituendo a loro il sogno del cambiamento, si rivolge al Presidente
incaricato definendolo con tono chiaramente paternalistico e, insieme,
come spesso accade a chi assume toni paternalistici, dispregiativo.
Questo è un punto di grande interesse clinico nel dialogo tra i due, o,
meglio, nel monologo soverchiante di Grillo. Chi viene chiamato ragazzo è
un uomo di 39 anni, padre di tre figli, capace di assumersi
responsabilità istituzionali enormi, di guidare una grande città e un
grande partito. Chiamarlo “ragazzo” non svela solo una megalomania di
fondo del leader del MSS, ma manifesta Inconsciamente il fantasma
padronale che lo anima profondamente. Questo padre dichiara che non ha
tempo da perdere per discutere coi figli. Non solo coi figli d’altri -
tale è Matteo Renzi -, il che potrebbe anche essere plausibile, ma
nemmeno con i propri. Per questo usa il mandato ricevuto
democraticamente dal suo popolo per fare uno show che sarebbe
semplicemente fuori luogo se non avesse una ricaduta politica che
coinvolge fatalmente le sorti del nostro paese. «Sei solo un ragazzo!»,
urla il padre orco a chi immagina non sia degno di interloquire con lui.
«Sei solo un ragazzo, taci! Lascia che parli lo!». Quante volte abbiamo
ascoltato dai nostri pazienti questa rappresentazione sadicamente
autoritaria della paternità “Sei solo un ragazzo!” è sempre il pensiero
inconscio (o conscio?) del padre-padrone che nutre nel profondo di sé
stesso un odio radicale della giovinezza e che mostra con orgoglio di
fronte all’entusiasmo di chi comincia una nuova avventura («ti spiego
cosa vorremmo fare» prova a dire Matteo Renzi) le medaglie che gli danno
il diritto di oscurare la parola del suo giovane interlocutore («Taci!
Ho quarant’anni di esperienza più di te!»). Non è questo lo schema che
la Scuola di Francoforte ha reperito come fondamento di ogni famiglia
autoritaria? Quante volte ci siamo trovati nella nostra vita privata e
pubblica di fronte a padri così? Quante volte la forza e l’entusiasmo
della giovinezza deve subire l’ostracismo di chi vuole metterli a
tacere. Lo ha mostrato bene Michele Serra nel suo ultimo libro Gli sdraiati:
il dono più grande che un padre possa dare ai suoi figli è non odiare
la giovinezza, è avere fede nella sua forza generativa. Nel caso
dell’incontro Renzi-Grillo le parti si invertono bruscamente come accade
sempre più frequentemente anche nella nostra società: il figlio si
mostra più responsabile del padre che, come ha commentato un
simpatizzante del MSS, gioca a fare il bambino in un momento
istituzionale che avrebbe richiesto la massima serietà.
Da buon padre-padrone travestito da
adolescente rivoltoso, Grillo ha rivelato pubblicamente non solo la sua
estraneità nei confronti delle consuetudini e delle regole democratiche,
ma il fatto che può fare quello che vuole della volontà del suo stesso
popolo costituito, in gran parte, di “ragazzi”. Vogliono che vada a
discutere di politica e di programmi con Renzi per provare a dare una
mano per salvare il nostro paese? Sono solo dei ragazzi, non hanno
quarant’anni di esperienza. Lasciate fare a me. Lasciate che sia io a
mostrarvi come me ne fotto della democrazia. La pazienza dolce e
frustrata dello Svedese-Bersani lascia qui bruscamente il testimone al
padre freudiano dell’orda che nel nome della sua propria Legge si arroga
il diritto di fare quello che vuole al di là della Legge. Abbiamo già
visto in diverse occasioni questo genere di padri prendere il potere. E
allora che la maschera del giustiziere cade rivelando la smorfia orrida
del tiranno che paternalisticamente considera i suoi sudditi solo dei
ragazzi da disciplinare e da rieducare.
lunedì 17 febbraio 2014
Lettera a mio nonno
Caro nonno,
il 25 aprile si avvicina, e come ogni anno ripenso alla tua
storia di operaio comunista, ai tuoi libri con il visto della censura
carceraria che ancora abbiamo in casa, e a quello che è capitato poi
nelle Valli di Lanzo. Mentre molti scappavano, tu sei andato lassù
perché volevi fare "qualcosa di buono nella vita”, come hai scritto in
una bellissima lettera alla nonna. E ci sei riuscito, perché per qualche
mese quelle valli sono state un piccolo pezzo di libertà nell’Italia
devastata dai tedeschi e dai fascisti, e qualcuno ancora si ricorda di
te e della tua speranza di tornare un giorno a Torino per costruire un
mondo nuovo.
Dicevi
ai giovani garibaldini che sareste scesi in città di sabato. Ma quel
sabato non l’hai visto, nonno, perché ti hanno fucilato prima. E oggi io
sono qui a chiedermi che ne è stato del paese libero che tu e tanti
altri ci avete regalato, e che avremmo dovuto conservare con la cura
che si riserva alle cose preziose.
La
nostalgia non c’entra. Oggi sappiamo che la realizzazione pratica del
socialismo in un solo paese era costata troppe lacrime e troppo sangue
per poterla considerare un valido modello. Ci consideriamo fortunati per
essere nati al di qua del muro. Possiamo permetterci di rileggere la
storia ad uso e consumo delle nostre ben pasciute esistenze, con quel
senno di poi che è un lusso permesso soltanto ai ricchi della Terra. A
me piace pensare che già allora tu avessi qualche dubbio, visto che un
solerte burocrate dell’apparato comunista aveva provveduto ad annotare
sulla tua scheda, accanto agli elogi per l’ attività di comandante
partigiano, un velenoso appunto sulla tua simpatia per Trotsky, l’uomo
che, dopo aver fatto la rivoluzione, era stato anche capace di vederne i
limiti e i pericoli. Ma la sostanza non cambia, nonno. E la sostanza è
che nel momento decisivo, quando si trattava di scegliere da che parte
stare, tu hai scelto, e hai scelto bene, perché dall’altra parte c’erano
Hitler, Mussolini e quei “ragazzi di Salò” che piacciono tanto ad
alcuni presunti saggi dell’attuale sinistra, ma non per questo erano
meno efferati nel deportare, nel torturare e nell’uccidere.
A
volte mi chiedo che cosa avrei fatto io al tuo posto. Se avrei avuto il
tuo stesso coraggio. Se me la sarei sentita di abbandonare casa e
famiglia per salire in montagna a combattere. E la risposta è sempre
la stessa: non lo so, un po’ per colpa mia, e molto perché sono figlio
di questa società, dove le alternative sembrano meno radicali e i
contrasti, che pure esistono, meno violenti. Un paese dove la
irresponsabilità è diventata sistema e nessuno paga per le sue scelte,
anche quando sono ignobili. Un paese dove tutto è diventato spettacolo, i
comportamenti non contano e le parole hanno perso il loro significato,
tanto che siamo arrivati a chiamare la guerra “missione umanitaria”.
Dunque non c’e’ da stupirsi se il palcoscenico appartiene ai guitti, a
chi è in grado di ammaliare una opinione pubblica sempre più
frastornata e incapace di distinguere il bene dal male.
Non
eri andato oltre la scuola elementare, nonno, ma da autodidatta avevi
scoperto i classici della letteratura, l’astronomia, la musica.
L’avresti detto che nell’Italia del ventunesimo secolo due terzi dei
cittadini non sarebbero stati in grado di capire un semplice testo
scritto? Ai tuoi tempi era anche peggio, però nella classe dirigente
uscita dalla guerra, forgiata da anni di opposizione al fascismo e dai
pericoli della clandestinità, non c’erano nani e ballerine. Lo sappiamo:
qualcuno usava i dollari degli americani, qualche altro l’oro di
Mosca. Ma alla fine tutti insieme, comunisti, democristiani, socialisti,
azionisti, liberali, con la forza della passione e delle idee, seppero
costruire un edificio comune che adesso sta andando in frantumi sotto
il peso degli interessi individuali, delle ambizioni personali, della
volgarità e del profitto fine a se stesso.
Per ricostruire quell’edificio, nonno, ci vorrebbe gente come te. Ma oggi, forse, non saresti persona gradita.
Battista, che porta con orgoglio il tuo nome.
Battista Gardoncini
Giornalista. Si occupa di scienza e di montagna. Ama i cani, la vela e
gli scacchi. Gli piacciono le vecchie macchine fotografiche, e ha una
passione non corrisposta per la politica
venerdì 14 febbraio 2014
Il sorpasso
Claudio Cerasa
Ascesa del bamboccio di talento
Il Foglio quotidiano, 14 febbraio 2014
Ciao Enrico. Sono le quindici e quaranta quando Matteo Renzi sale sul palchetto montato a Roma al terzo piano di largo del Nazareno, scruta con sguardo insieme severo e infiammato i compagni della direzione, avvicina veloce la bocca al microfono e dopo due mesi passati a sfanalare con gli abbaglianti della Smart nello specchietto retrovisore della Panda di Enrico Letta decide di premere la frizione, di cambiare marcia, di mettersi in scia, di azionare la freccia e di tentare finalmente il sorpasso. Il sorpasso, il sorpasso a Enrico, il sorpasso a quelle fragili intese che il segretario del Pd tenta di rottamare ben prima del suo arrivo alla guida del partito, coincide con un freddo documento che alle diciotto e quindici minuti viene approvato dalla direzione (136 voti favorevoli, 16 astenuti, 2 voti contrari) con un messaggio chiaro: “La direzione rileva la necessità e l’urgenza di aprire una fase nuova, con un nuovo esecutivo che abbia la forza politica per affrontare i problemi del paese con un orizzonte di legislatura”. Detto, fatto: nel giro di due ore la direzione si stringe attorno al segretario, accetta di lasciare le proprie impronte digitali sulla rottamazione del governo, decide di sfiduciare in diretta streaming il suo presidente del Consiglio e presenta a Enrico Letta (che in direzione non c’era) un segnale composto da due parole: ciao, Enrico.
Tre minuti dopo arrivano le cinque righe di comunicato con cui Letta annuncia le dimissioni – le presenterà formalmente questa mattina al Quirinale. Dopo di che partirà la giostra: le consultazioni saranno brevi, entro lunedì Renzi riceverà l’incarico, a metà settimana il segretario presenterà la squadra (gli unici certi sono Delrio, sarà il Gianni Letta di Renzi al governo, Boschi, dovrebbe prendere il posto di Quagliariello alle Riforme, Tito Boeri, che dovrebbe andare al Lavoro, mentre Lucrezia Reichlin all’Economia è una soluzione che Renzi aveva già studiato nel settembre del 2012, ai tempi delle primarie con Bersani) e nel giro di pochi giorni nascerà il governo Leopolda: con qualche grillino alla Camera e al Senato (non casuale ieri l’arrivo di Casaleggio a Roma), qualche vendoliano (tendenza Gennaro Migliore) e una maggioranza a Palazzo Madama che si trova tra i 194 e 198 senatori. Ecco. Queste le notizie. Ma accanto alle notizie bisogna affiancare una storia particolare, cioè il percorso che ha portato il sindaco a rottamare il governo del caro amico Enrico. La prima ragione è legata all’inerzia, e all’inevitabile percorso della Smart: per un leader che intende praticare fino in fondo l’espressione “vocazione maggioritaria”, è ovvio far coincidere il ruolo di segretario con quello di candidato premier, e i modi che Renzi aveva per farli coincidere erano due: o far cadere il governo e andare subito alle elezioni oppure, per non restare ostaggio di questo esecutivo fiacco, prendere il governo e usare poi la minaccia delle elezioni per farlo trottare. Ma la storia dei continui colpi di clacson con cui Renzi invita da mesi Letta a togliersi di mezzo non è frutto di una decisione presa d’istinto, è invece il finale di un romanzo che il sindaco ha cominciato a scrivere un anno fa.
Il nastro della corsa di Renzi va riavvolto al 22 aprile 2013, quando, dopo la rielezione di Napolitano, Renzi capisce che il capo dello stato cerca un premier che abbia anche le caratteristiche per mettere al riparo il governo dai tuoni dell’antipolitica grillina. Renzi si fa avanti, trova consensi all’interno del partito, capisce che di fronte alla possibilità di andare a Palazzo Chigi il Pd gli avrebbe detto di sì, e prova a giocare la sua partita. Una partita che Renzi perde ma che sarà decisiva per convincere il sindaco che per conquistare il paese bisogna prima conquistare il Pd. Passano i mesi, arriva il governo Letta, arrivano le prime difficoltà e i primi pasticci e durante l’estate comincia la marcia del rottamatore: il sindaco decide – lo annuncerà più avanti – di candidarsi alla segreteria e inizia a costruire attorno a sé una rete di contatti extra politici che nel corso dei mesi darà i suoi frutti – e che presto si trasformerà in un’onda capace di travolgere il governo e far viaggiare Renzi come un surfista sul cavallone. E così, 13 luglio, Renzi, guidato dall’amico Marco Carrai, dà il là al suo tour da presidente del Consiglio ombra: arriva l’incontro con Merkel, arrivano i contatti con i poteri che contano e arriva la consapevolezza che il suo rapporto con Letta sarebbe stato identico a quello che aveva avuto nel passato Veltroni con Prodi. E’ il 26 agosto e Renzi racconta a un amico al telefono quello che pochi mesi dopo sarebbe successo: “Quando sarò segretario con Enrico non potrò andare d’accordo e credo proprio che sarò costretto a far cadere il governo”. I mesi passano, Renzi si candida, si prepara a vincere le primarie, si convince che per togliere di mezzo il governo sarebbe stato necessario votare con il Porcellum ma poi si arriva al 5 dicembre del 2013 e cambia tutto: la Consulta dichiara il Porcellum incostituzionale e per la prima volta Renzi confessa a un suo collaboratore a Palazzo Vecchio che il piano B è quello: se non si riesce a fare la legge elettorale si rottama Enrico e si va a Palazzo Chigi. Detto, fatto.
Così, nei mesi successivi, Renzi proverà a negarlo, proverà comunque a ricucire con Letta, a farsi fotografare sorridente con il presidente del Consiglio (nota: non esiste una sola foto in cui Letta e Renzi si stringano la mano guardandosi negli occhi) ma tutto precipita quando, all’improvviso, il governo si infila una fascetta in testa e si trasforma in un esecutivo kamikaze: arriva la storia degli aumenti degli insegnanti da restituire, arriva il Salva Roma (qui si incrina il rapporto tra Letta e Napolitano), arriva la legge di stabilità che diventata “un marchettificio”, arriva il giro dell’oca dell’Imu, arriva il caos dei versamenti Tares, arrivano le telefonate della Cancellieri (dovrebbe essere sostituita da Michele Vietti alla Giustizia), arrivano i pasticci di Zanonato. E allora Renzi si prepara all’attacco. E dalla sua – oltre a Napolitano, sedotto lunedì durante la cena al Quirinale – trova alleati pesanti: Franceschini (che il 2 settembre passa dalla parte di Renzi pur rimanendo formalmente dalla parte di Letta), Alfano (che Renzi porta dalla sua parte il 15 gennaio in un albergo romano) e la maggioranza della minoranza del Pd (da Orfini a Orlando). E proprio come successo un anno fa, dopo la non vittoria di Bersani, è ancora la minoranza del Pd (6 febbraio) a chiedere una discontinuità al governo. La discontinuità ora c’è. Arriva dalla direzione, arriva da un Pd che paradossalmente non è mai stato così compatto come ieri (anche se non tutti hanno spinto Renzi a Palazzo Chigi per fare il bene di Renzi, diciamo). Ovvio: adesso bisognerà fare i conti anche con i Vendola, gli Alfano, i Lupi e i Quagliariello e occorrerà dimostrare che non è una contraddizione portare l’Italia dalla Seconda alla Terza Repubblica con i metodi della Prima. Renzi ieri ha ottenuto la sua vittoria e si è messo in corsia di sorpasso. La sfida è difficile, non impossibile. Ma per trasformarsi da rottamatore in costruttore, per diventare l’Angela Merkel del Pd, e arrivare a guidare il semestre europeo senza farsi prima rottamare da Grillo, il segretario dovrà ricordarsi di fare una cosa semplice: da oggi il bamboccione di talento non è più solo un bamboccione ma è quasi un presidente del Consiglio, e dunque quando andrà via da Firenze sarà meglio lasciare nell’armadio i pantaloni corti.
Ascesa del bamboccio di talento
Il Foglio quotidiano, 14 febbraio 2014
Ciao Enrico. Sono le quindici e quaranta quando Matteo Renzi sale sul palchetto montato a Roma al terzo piano di largo del Nazareno, scruta con sguardo insieme severo e infiammato i compagni della direzione, avvicina veloce la bocca al microfono e dopo due mesi passati a sfanalare con gli abbaglianti della Smart nello specchietto retrovisore della Panda di Enrico Letta decide di premere la frizione, di cambiare marcia, di mettersi in scia, di azionare la freccia e di tentare finalmente il sorpasso. Il sorpasso, il sorpasso a Enrico, il sorpasso a quelle fragili intese che il segretario del Pd tenta di rottamare ben prima del suo arrivo alla guida del partito, coincide con un freddo documento che alle diciotto e quindici minuti viene approvato dalla direzione (136 voti favorevoli, 16 astenuti, 2 voti contrari) con un messaggio chiaro: “La direzione rileva la necessità e l’urgenza di aprire una fase nuova, con un nuovo esecutivo che abbia la forza politica per affrontare i problemi del paese con un orizzonte di legislatura”. Detto, fatto: nel giro di due ore la direzione si stringe attorno al segretario, accetta di lasciare le proprie impronte digitali sulla rottamazione del governo, decide di sfiduciare in diretta streaming il suo presidente del Consiglio e presenta a Enrico Letta (che in direzione non c’era) un segnale composto da due parole: ciao, Enrico.
Tre minuti dopo arrivano le cinque righe di comunicato con cui Letta annuncia le dimissioni – le presenterà formalmente questa mattina al Quirinale. Dopo di che partirà la giostra: le consultazioni saranno brevi, entro lunedì Renzi riceverà l’incarico, a metà settimana il segretario presenterà la squadra (gli unici certi sono Delrio, sarà il Gianni Letta di Renzi al governo, Boschi, dovrebbe prendere il posto di Quagliariello alle Riforme, Tito Boeri, che dovrebbe andare al Lavoro, mentre Lucrezia Reichlin all’Economia è una soluzione che Renzi aveva già studiato nel settembre del 2012, ai tempi delle primarie con Bersani) e nel giro di pochi giorni nascerà il governo Leopolda: con qualche grillino alla Camera e al Senato (non casuale ieri l’arrivo di Casaleggio a Roma), qualche vendoliano (tendenza Gennaro Migliore) e una maggioranza a Palazzo Madama che si trova tra i 194 e 198 senatori. Ecco. Queste le notizie. Ma accanto alle notizie bisogna affiancare una storia particolare, cioè il percorso che ha portato il sindaco a rottamare il governo del caro amico Enrico. La prima ragione è legata all’inerzia, e all’inevitabile percorso della Smart: per un leader che intende praticare fino in fondo l’espressione “vocazione maggioritaria”, è ovvio far coincidere il ruolo di segretario con quello di candidato premier, e i modi che Renzi aveva per farli coincidere erano due: o far cadere il governo e andare subito alle elezioni oppure, per non restare ostaggio di questo esecutivo fiacco, prendere il governo e usare poi la minaccia delle elezioni per farlo trottare. Ma la storia dei continui colpi di clacson con cui Renzi invita da mesi Letta a togliersi di mezzo non è frutto di una decisione presa d’istinto, è invece il finale di un romanzo che il sindaco ha cominciato a scrivere un anno fa.
Il nastro della corsa di Renzi va riavvolto al 22 aprile 2013, quando, dopo la rielezione di Napolitano, Renzi capisce che il capo dello stato cerca un premier che abbia anche le caratteristiche per mettere al riparo il governo dai tuoni dell’antipolitica grillina. Renzi si fa avanti, trova consensi all’interno del partito, capisce che di fronte alla possibilità di andare a Palazzo Chigi il Pd gli avrebbe detto di sì, e prova a giocare la sua partita. Una partita che Renzi perde ma che sarà decisiva per convincere il sindaco che per conquistare il paese bisogna prima conquistare il Pd. Passano i mesi, arriva il governo Letta, arrivano le prime difficoltà e i primi pasticci e durante l’estate comincia la marcia del rottamatore: il sindaco decide – lo annuncerà più avanti – di candidarsi alla segreteria e inizia a costruire attorno a sé una rete di contatti extra politici che nel corso dei mesi darà i suoi frutti – e che presto si trasformerà in un’onda capace di travolgere il governo e far viaggiare Renzi come un surfista sul cavallone. E così, 13 luglio, Renzi, guidato dall’amico Marco Carrai, dà il là al suo tour da presidente del Consiglio ombra: arriva l’incontro con Merkel, arrivano i contatti con i poteri che contano e arriva la consapevolezza che il suo rapporto con Letta sarebbe stato identico a quello che aveva avuto nel passato Veltroni con Prodi. E’ il 26 agosto e Renzi racconta a un amico al telefono quello che pochi mesi dopo sarebbe successo: “Quando sarò segretario con Enrico non potrò andare d’accordo e credo proprio che sarò costretto a far cadere il governo”. I mesi passano, Renzi si candida, si prepara a vincere le primarie, si convince che per togliere di mezzo il governo sarebbe stato necessario votare con il Porcellum ma poi si arriva al 5 dicembre del 2013 e cambia tutto: la Consulta dichiara il Porcellum incostituzionale e per la prima volta Renzi confessa a un suo collaboratore a Palazzo Vecchio che il piano B è quello: se non si riesce a fare la legge elettorale si rottama Enrico e si va a Palazzo Chigi. Detto, fatto.
Così, nei mesi successivi, Renzi proverà a negarlo, proverà comunque a ricucire con Letta, a farsi fotografare sorridente con il presidente del Consiglio (nota: non esiste una sola foto in cui Letta e Renzi si stringano la mano guardandosi negli occhi) ma tutto precipita quando, all’improvviso, il governo si infila una fascetta in testa e si trasforma in un esecutivo kamikaze: arriva la storia degli aumenti degli insegnanti da restituire, arriva il Salva Roma (qui si incrina il rapporto tra Letta e Napolitano), arriva la legge di stabilità che diventata “un marchettificio”, arriva il giro dell’oca dell’Imu, arriva il caos dei versamenti Tares, arrivano le telefonate della Cancellieri (dovrebbe essere sostituita da Michele Vietti alla Giustizia), arrivano i pasticci di Zanonato. E allora Renzi si prepara all’attacco. E dalla sua – oltre a Napolitano, sedotto lunedì durante la cena al Quirinale – trova alleati pesanti: Franceschini (che il 2 settembre passa dalla parte di Renzi pur rimanendo formalmente dalla parte di Letta), Alfano (che Renzi porta dalla sua parte il 15 gennaio in un albergo romano) e la maggioranza della minoranza del Pd (da Orfini a Orlando). E proprio come successo un anno fa, dopo la non vittoria di Bersani, è ancora la minoranza del Pd (6 febbraio) a chiedere una discontinuità al governo. La discontinuità ora c’è. Arriva dalla direzione, arriva da un Pd che paradossalmente non è mai stato così compatto come ieri (anche se non tutti hanno spinto Renzi a Palazzo Chigi per fare il bene di Renzi, diciamo). Ovvio: adesso bisognerà fare i conti anche con i Vendola, gli Alfano, i Lupi e i Quagliariello e occorrerà dimostrare che non è una contraddizione portare l’Italia dalla Seconda alla Terza Repubblica con i metodi della Prima. Renzi ieri ha ottenuto la sua vittoria e si è messo in corsia di sorpasso. La sfida è difficile, non impossibile. Ma per trasformarsi da rottamatore in costruttore, per diventare l’Angela Merkel del Pd, e arrivare a guidare il semestre europeo senza farsi prima rottamare da Grillo, il segretario dovrà ricordarsi di fare una cosa semplice: da oggi il bamboccione di talento non è più solo un bamboccione ma è quasi un presidente del Consiglio, e dunque quando andrà via da Firenze sarà meglio lasciare nell’armadio i pantaloni corti.
martedì 11 febbraio 2014
D'Annunzio poeta delle stagioni
Già, D'Annunzio. Poeta politico, poeta pubblico, che costruisce la sua immagine e la esibisce, ne moltiplica le forme, ne promuove i contenuti. Ma anche uomo avido di vita e capace come pochi altri di piegare il linguaggio alle proprie esigenze espressive. Se si va a vedere nella sua poesia l'attenzione riservata alle stagioni e a un mese in particolare, settembre, questo secondo aspetto rivela una forte presenza. Prendiamo il Poema paradisiaco:
Settembre (di': l'anima tua ascolta?)
ha ne l'odore suo, nel suo pallore,
non so, quasi l'odore ed il pallore
di qualche primavera dissepolta.
La primavera torna con l'estate e l'autunno in Maia:
Vesperi di primavera,
crepuscoli d'estate,
prime piogge d'autunno
croscianti su l'immondizia
polverosa che nera
fermenta sotto le suola
...
Più conformi all'immagine diffusa del poeta i versi di Undulna [nome di una cavalla a lui appartenuta]:
Il molle Settembre, il Tibìcine [flautista]
dei pomarii [frutteti], che ha violetti
gli occhi come il fiore del glìcine
tra i riccioli suoi giovinetti
...
C'è infine il settembre di una poesia famosa, spesso ripresa nelle antologie scolastiche, I Pastori:
Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare.
Settembre (di': l'anima tua ascolta?)
ha ne l'odore suo, nel suo pallore,
non so, quasi l'odore ed il pallore
di qualche primavera dissepolta.
La primavera torna con l'estate e l'autunno in Maia:
Vesperi di primavera,
crepuscoli d'estate,
prime piogge d'autunno
croscianti su l'immondizia
polverosa che nera
fermenta sotto le suola
...
Più conformi all'immagine diffusa del poeta i versi di Undulna [nome di una cavalla a lui appartenuta]:
Il molle Settembre, il Tibìcine [flautista]
dei pomarii [frutteti], che ha violetti
gli occhi come il fiore del glìcine
tra i riccioli suoi giovinetti
...
C'è infine il settembre di una poesia famosa, spesso ripresa nelle antologie scolastiche, I Pastori:
Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei
pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il
mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
...
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora
lungh’esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l’aria.
il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquío, calpestío, dolci romori.
la greggia. Senza mutamento è l’aria.
il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquío, calpestío, dolci romori.
...
Tracce dannunziane si ritrovano in Montale e Pavese. Forse la lettura dei versi che abbiamo proposto aiuta a capire come la letteratura (e la poesia) tendano a formare un discorso dotato di forti connessioni interne, al di là della pur ovvia distinzione tra le epoche e tra gli autori.
domenica 9 febbraio 2014
Mafalda contestataria desaparecida (1964-1973)
Giulio Giorello
Guevarista, no global e (molto) delusa. Il manicomio sferico di Mafalda
Nasceva
nel 1964 la bambina pestifera dell’argentino Quino. Il mondo visto dai
più piccoli fu una lezione disarmante per gli adulti
Corriere della Sera, 2 febbraio 2014
«Oh, Mafalda! Che bella culla hai fatto alla tua bambola!». E lei, quasi seccata: «Non essere ignorante, mamma! È un divano da psicoanalista». Poi, messa a letto, così la piccola si rivolge all’altro genitore: «Papà… non posso dormire». E il padre: «Cosa fai qui? Torna a letto e conta le pecore!». Mafalda: «Ma sei matto? Ho dato una guardatina, e ce ne saranno circa settemila». Si tratti di complessi freudiani o di grandi numeri, la logica di questa bimba argentina rovescia gli stereotipi di cui è intessuto il mondo degli adulti. Le sue sono tipiche «domande dei bambini», come le chiamava il regista Wim Wenders, quelle stesse che, sbriciolando le facili sicurezze del conformismo, finiscono per riportarci alla nostra umana fragilità. In un piccolo monologo, degno quasi di Amleto, sempre lei dichiara di volersi congratulare con i Paesi che guidano la politica mondiale, ma subito dopo aggiunge di sperare che un giorno ci siano davvero i motivi per farlo!
Mafalda «la contestataria» — come è stata chiamata (il cognome non importa) — ama la democrazia, la pace, i diritti umani, in particolare quelli dei bambini; odia la minestra, simbolo del dispotismo casalingo, e — senza alcuna esitazione — le armi e la guerra. E poi, della cultura della Gran Bretagna, il Paese tradizionalmente «nemico» (occupa le isole Malvinas, che gli inglesi chiamano Falkland), salva i Beatles e detesta l’inossidabile James Bond.
Mafalda è stata concepita da Joaquín Salvador Lavado Tejón. Un nome «sonoro», già dalla nascita sostituito da un ben più semplice Quino, per distinguerlo da uno zio omonimo, pittore e disegnatore pubblicitario. Da cui avrebbe ereditato, peraltro, il gusto per la battuta e il piacere del disegno. Aveva esordito nel campo dello humour grafico nel 1954. Del 1963 è il suo primo libro umoristico Mundo Quino (il titolo riecheggia ironicamente quello del film documentario italiano Mondo cane di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi). Nello stesso anno concepisce la sua bambina terribile, inizialmente per pubblicizzare una marca di elettrodomestici, la Mansfield, il cui logo conteneva una M e una A, da cui appunto Mafalda, che non si stanca mai di lottare per un mondo migliore (anche se troppo spesso «qualche deficiente ha smarrito i progetti»!).
Anche quell’idea non sarebbe andata in porto: restarono a Quino alcune strisce, che dovevano poi (1964) dare origine al fumetto inizialmente pubblicato sul supplemento umoristico della rivista «Leoplán». Poco dopo Mafalda, la sua famiglia e i suoi amici dovevano traslocare al settimanale «Primera Plana» di Buenos Aires. E l’anno successivo era la volta del quotidiano «El Mundo», fino alla chiusura di quel foglio nel dicembre 1967. Il 2 giugno 1968, infine, le strisce di Quino dovevano riapparire sul settimanale «Siete Días». Erano appunto gli anni della contestazione, anche nell’America Latina.
Non meno tormentata è la vicenda del suo autore. Nato a Mendoza nel 1932 da immigrati andalusi, doveva presto fare i conti — prima di Mafalda — con i mali del nostro Globo. Come racconta in una breve nota autobiografica, «all’età di quattro anni, nel 1936, il piccolo Quino scopre che sono saltati fuori degli spagnoli cattivissimi, che stanno uccidendo gli spagnoli buoni. Tedeschi, italiani, preti e suore… stanno dalla parte degli spagnoli cattivi». Tre anni dopo, «i cattivi hanno vinto» e le speranze sono tutte nel Nuovo Mondo. Salvo che, finito il secondo conflitto mondiale e delineatasi la guerra fredda tra Urss e Usa, Quino impara «che italiani e tedeschi non sono poi tanto cattivi», mentre quelli che un tempo gli apparivano buoni possono peccare di notevole malignità. La sua Mafalda passerà anni a «sciogliere il dilemma di chi è buono e chi è cattivo su questa Terra», fino alla sospensione delle strisce il 25 luglio 1973, «sentendosi l’autore a corto d’idee». Dichiarazione che va presa con cautela, visto che negli anni successivi Quino, messosi a viaggiare per il mondo e prediligendo varie città europee, tra cui la nostra Milano (ove lui e la moglie Alicia sono rimasti per sei anni), non smette di escogitare nuove vignette: «Dopo aver creato Mafalda, nipote di Che Guevara e mamma dei No Global, Quino è apparso sempre più degno allievo di Borges», notava, in una bella intervista («Corriere della Sera», 16 gennaio 2004), un estimatore dei fumetti come Cesare Medail (se mi è lecito aggiungere, per me maestro e amico).
Mafalda oggi all’anagrafe sarebbe una signora cinquantenne, forse dimentica dei suoi giovanili «eroici furori». Ma più probabilmente, ci fa sospettare Quino, potrebbe essere una desaparecida all’epoca della criminale dittatura di Jorge Rafael Videla e dei suoi complici. Comunque, in una occasionale «cartolina», Quino la ritrae ancora una volta di fronte al mappamondo, simbolo del nostro Globo, che contiene tanta sofferenza, oggi come ieri, anche se cambiano modi e forme del dispotismo. E lei stessa non esita a porsi domande borgesiane: «Sarà stato Dio a brevettare questa idea del manicomio sferico?».
mercoledì 5 febbraio 2014
Il nuovo che avanza: la povertà
Bruno Simili
Più poveri
Il Mulino, 3 febbraio 2014
Sono trascorsi esattamente dieci anni da quando, all’inizio del 2004, pubblicammo sul numero 412 del “Mulino” un blocco di articoli che, significativamente, intitolammo “ceti medi e crisi nera”. Colpisce rileggere i titoli dei pezzi che componevano quella sezione monografica: “Quasi poveri e vulnerabili”, “Prezzi, redditi e impoverimento delle famiglie”, “Le mani vuote. Una società con più costi e meno sussidi”, “Il lavoro nascosto e i conti che non tornano”. In quelle pagine si evidenziava come i contratti sociali delle democrazie del secondo dopoguerra, orientati a migliorare le condizioni di vita e le possibilità di consumo alla ricerca di una distribuzione più equa dello sviluppo economico, fossero entrati in crisi. E come a risentirne fossero, soprattutto, le fasce di cittadinanza né troppo povere, né troppo ricche; ma sempre più vulnerabili. Quell’insieme di popolazione che nella seconda metà del secolo scorso ha visto crescere i propri consumi e le proprie possibilità di accumulazione patrimoniale.
Del resto, ci si era accorti già da tempo che il modello di stratificazione sociale che tendeva a restringere le differenze sociali e ad ampliare sensibilmente le categorie situate nel mezzo della scala sociale non reggeva più. Da allora, fette sempre più consistenti della popolazione italiana si sono trovate a dovere affrontare la insanabile contraddizione tra i costi da sostenere in tempi di crisi economica e un livello di qualità della vita considerato, a torto, irrinunciabile.
Dal quel numero del “Mulino” di dieci anni fa si sono rincorse interpretazioni che hanno addossato l’intero fardello delle responsabilità di volta in volta a questa o quella parte politica, all’euro, all’Europa, alla crisi internazionale. E sono state via via riformulate vecchie ricette politiche, in larga parte di stampo populista, volte a catturare il consenso di chi, anno dopo anno, percepiva il progressivo peggioramento della propria condizione sociale. Poi è arrivata la Grande Crisi, quella che hanno visto tutti, e ha reso ancora più impervie le strade su cui corre la vita di chi appartiene, o è convinto di appartenere, al ceto medio. Anche in questo caso è importante ragionare della percezione che ciascuno ha delle proprie condizioni di vita. Ci vengono utili i risultati di uno studio condotto da Demos, cui rimandiamo per i dettagli. Qui ci preme richiamare quanto Ilvo Diamanti sottolinea proprio oggi: vale a dire il progressivo e rapido peggioramento percepito da chi otto anni fa si sentiva “classe media” e oggi è invece convinto di avere sceso un gradino nella scala sociale. Una percezione, tra l’altro, che non vede forti differenze tra Nord e Sud, a dispetto dei dati che in molti altri ambiti indicano un Paese profondamente diviso in due.
Mentre la crisi economica dava le prime avvisaglie e poi esplodeva, che cosa è stato fatto dalla nostra classe dirigente che oggi si trova intrappolata nel circolo vizioso di un modello fallimentare? Quali responsabilità rispetto alle ridottissime previsioni di crescita per il 2014 deve accollarsi in proprio la classe imprenditoriale che oggi strepita e si lamenta? A chi, sul fronte del pubblico, vanno ascritte le responsabilità della nomina di Mastrapasqua a capo dell’Inps, l’ente che da solo assorbe un terzo dell’intera spesa pubblica italiana? E, infine, quali proposte politiche di stampo realmente riformatore sono arrivate al corpo elettorale in questi ultimi dieci anni?
Poniamo queste poche, semplici domande e leggiamo i dati della ricerca Demos. Una classe dirigente inadeguata, indisponibile a far crescere le generazioni più giovani e a lasciare loro il posto, imprenditori spesso non disposti a investire quando l’andamento dei conti e i profitti lo avrebbe consentito, una classe politica ancora oggi troppo spesso succube di logiche clientelari spiegano in buona parte la vera grande crisi italiana, quella del lavoro, il blocco di interi pezzi del cosiddetto sistema Paese, l’irrisolta questione della rappresentanza e la crisi della sfiducia nei confronti delle istituzioni e dei politici. E sono alla base di quella che è forse da considerarsi la conseguenza più grave dell’impoverimento di una larga parte del Paese: la sensazione di non essere politicamente più rappresentati da nessuna forza politica. Si tratta di un vero e proprio vulnus democratico, che non potrà risolversi a breve. Ma che, al tempo stesso e al di là delle giuste e ovvie critiche, non ci permette di limitarci a guardare alle bagarre parlamentari a 5 Stelle con occhio critico e scandalizzato ma ci obbliga a domandarci per quanto ancora ai grafici declinanti di questa Italia bloccata e impoverita potranno avere come conseguenza il brontolio e l’autodenuncia delle proprie crescenti, difficoltà. E se e quando, invece, sfoceranno in protesta e ribellione.
Più poveri
Il Mulino, 3 febbraio 2014
Sono trascorsi esattamente dieci anni da quando, all’inizio del 2004, pubblicammo sul numero 412 del “Mulino” un blocco di articoli che, significativamente, intitolammo “ceti medi e crisi nera”. Colpisce rileggere i titoli dei pezzi che componevano quella sezione monografica: “Quasi poveri e vulnerabili”, “Prezzi, redditi e impoverimento delle famiglie”, “Le mani vuote. Una società con più costi e meno sussidi”, “Il lavoro nascosto e i conti che non tornano”. In quelle pagine si evidenziava come i contratti sociali delle democrazie del secondo dopoguerra, orientati a migliorare le condizioni di vita e le possibilità di consumo alla ricerca di una distribuzione più equa dello sviluppo economico, fossero entrati in crisi. E come a risentirne fossero, soprattutto, le fasce di cittadinanza né troppo povere, né troppo ricche; ma sempre più vulnerabili. Quell’insieme di popolazione che nella seconda metà del secolo scorso ha visto crescere i propri consumi e le proprie possibilità di accumulazione patrimoniale.
Del resto, ci si era accorti già da tempo che il modello di stratificazione sociale che tendeva a restringere le differenze sociali e ad ampliare sensibilmente le categorie situate nel mezzo della scala sociale non reggeva più. Da allora, fette sempre più consistenti della popolazione italiana si sono trovate a dovere affrontare la insanabile contraddizione tra i costi da sostenere in tempi di crisi economica e un livello di qualità della vita considerato, a torto, irrinunciabile.
Dal quel numero del “Mulino” di dieci anni fa si sono rincorse interpretazioni che hanno addossato l’intero fardello delle responsabilità di volta in volta a questa o quella parte politica, all’euro, all’Europa, alla crisi internazionale. E sono state via via riformulate vecchie ricette politiche, in larga parte di stampo populista, volte a catturare il consenso di chi, anno dopo anno, percepiva il progressivo peggioramento della propria condizione sociale. Poi è arrivata la Grande Crisi, quella che hanno visto tutti, e ha reso ancora più impervie le strade su cui corre la vita di chi appartiene, o è convinto di appartenere, al ceto medio. Anche in questo caso è importante ragionare della percezione che ciascuno ha delle proprie condizioni di vita. Ci vengono utili i risultati di uno studio condotto da Demos, cui rimandiamo per i dettagli. Qui ci preme richiamare quanto Ilvo Diamanti sottolinea proprio oggi: vale a dire il progressivo e rapido peggioramento percepito da chi otto anni fa si sentiva “classe media” e oggi è invece convinto di avere sceso un gradino nella scala sociale. Una percezione, tra l’altro, che non vede forti differenze tra Nord e Sud, a dispetto dei dati che in molti altri ambiti indicano un Paese profondamente diviso in due.
Mentre la crisi economica dava le prime avvisaglie e poi esplodeva, che cosa è stato fatto dalla nostra classe dirigente che oggi si trova intrappolata nel circolo vizioso di un modello fallimentare? Quali responsabilità rispetto alle ridottissime previsioni di crescita per il 2014 deve accollarsi in proprio la classe imprenditoriale che oggi strepita e si lamenta? A chi, sul fronte del pubblico, vanno ascritte le responsabilità della nomina di Mastrapasqua a capo dell’Inps, l’ente che da solo assorbe un terzo dell’intera spesa pubblica italiana? E, infine, quali proposte politiche di stampo realmente riformatore sono arrivate al corpo elettorale in questi ultimi dieci anni?
Poniamo queste poche, semplici domande e leggiamo i dati della ricerca Demos. Una classe dirigente inadeguata, indisponibile a far crescere le generazioni più giovani e a lasciare loro il posto, imprenditori spesso non disposti a investire quando l’andamento dei conti e i profitti lo avrebbe consentito, una classe politica ancora oggi troppo spesso succube di logiche clientelari spiegano in buona parte la vera grande crisi italiana, quella del lavoro, il blocco di interi pezzi del cosiddetto sistema Paese, l’irrisolta questione della rappresentanza e la crisi della sfiducia nei confronti delle istituzioni e dei politici. E sono alla base di quella che è forse da considerarsi la conseguenza più grave dell’impoverimento di una larga parte del Paese: la sensazione di non essere politicamente più rappresentati da nessuna forza politica. Si tratta di un vero e proprio vulnus democratico, che non potrà risolversi a breve. Ma che, al tempo stesso e al di là delle giuste e ovvie critiche, non ci permette di limitarci a guardare alle bagarre parlamentari a 5 Stelle con occhio critico e scandalizzato ma ci obbliga a domandarci per quanto ancora ai grafici declinanti di questa Italia bloccata e impoverita potranno avere come conseguenza il brontolio e l’autodenuncia delle proprie crescenti, difficoltà. E se e quando, invece, sfoceranno in protesta e ribellione.
lunedì 3 febbraio 2014
Storia di Caterina che si faceva passare per Giovanni
Michele Smargiassi
Caterina e le donne. Storia della ragazza che nel Settecento viveva come un uomo
la Repubblica, 1 febbraio 2014
a proposito di Marzio Barbagli, Storia di Caterina, Il Mulino, Bologna 2014, pagg. 243
A dispetto dei suoi ingenui sedici anni di figlia d’un falegname delle borgate romane, Caterina sapeva bene quel che voleva: amare le donne come lei. Ebbe anche il coraggio di farlo, e del come farlo: vestendosi da uomo, cambiandosi nome in Giovanni. Le mancava solo una parola, la parola per dirlo, la parola per dirsi: gay, lesbica, omosessuale. Ma quelle parole, a metà del Settecento, nessuno le aveva ancora inventate, e Caterina-Giovanni morì così, a ventiquattr’anni, dopo otto di travestimenti, senza il conforto di un’identità, forse proprio perché non lo aveva mai avuto. Un uomo cercò di trovare per lei quelle parole, e ci andò molto vicino: un medico, un laico coraggioso, che se ne fregò dei pregiudizi e delle teorie “scientifiche” della sua epoca, ed ebbe pietà, forse anche simpatia, per quella giovane donna che non volle piegare la testa.
La Storia di Caterina (Il Mulino, pagg. 243, euro 16) che ci narra un analista attento e molto esperto della famiglia contemporanea, Marzio Barbagli, ha la forma di una classica case history della sociologia: prendi una vicenda individuale, ben documentata, e ne fai il centro focale di un affresco, in questo caso sulla considerazione sociale, morale e culturale dell’amore fra donne negli ultimi tre secoli. Ma nella storia che Barbagli ha scovato e scavato dagli archivi, quei due personaggi prendono di potenza la scena, non si fanno ridurre a simboli o esempi, e senza smettere di essere un saggio scientifico, ecco che il libro diventa il romanzo poetico di un incontro fra due esseri umani in contrasto col loro tempo, un incontro mancato in vita, ma realizzato nel pensiero.
Fu forse per il rimorso di non essere accorso subito al suo capezzale che Giovanni Bianchi, cattedratico illustre dell’Università di Siena, s’incuriosì della sorte di quel povero corpo di uomo, tale Giovanni Bordoni, maggiordomo, spirato il 16 giugno del 1743 sui pagliericci dell’ospedale di Santa Maria della Scala a Siena, che una volta spogliato dai becchini aveva rivelato, sorpresa, di essere il corpo d’una giovane donna. Qualche indagine svelò la sua storia: donna era nata, Caterina Vizzani, ma appena adolescente non lo volle più rimanere, fu quando s’innamorò della compagna di cucito Margherita, e dovette fuggire e travestirsi per scampare alle ire del padre di lei. Diventò così Giovanni, e si trovò un lavoro da cameriere, eccellente ed espertissimo cameriere, di cui gli aristocratici padroni furono sempre più che soddisfatti, tanto da perdonargli l’unico difetto, quel suo vizio di «donnajuolo » impenitente. Ma una delle dongiovannesche sue avventure, il rapimento della nipote del parroco di Montepulciano, alla fine gli (o le) fu fatale: fuga, inseguimento e un letale colpo di archibugio.
Una svelta benedizione, la vergogna seppellita assieme al corpo avrebbero potuto far finire tutto qui, e oggi nulla sapremmo di Caterina. Ma il professor Bianchi non s’accontentò. Dentro di lui lo scienziato proto-illuminista non riuscì a non cercare una risposta alla domanda: perché? Perché una donna ama le donne? Indagò. Si fece sociologo e antropologo ante-litteram. Esaminò il corpo. Lesse libri. Ebbe il coraggio di scartare una per una le risposte correnti della scienza e della morale del suo tempo.
Perché questo è assodato: che ci fossero donne che amavano vestirsi da uomo, per mille ragioni non solo sessuali, da Giovanna d’Arco a Moll Flanders, lo si sapeva da secoli. E anche che esistessero donne che amano le donne. Lo sapevano l’artista e il letterato, lo sapeva il moralista ecclesiastico, lo sapeva lo scienziato. Ma sul perché, le risposte erano diverse. Sostanzialmente due: l’errore della natura, la depravazione dell’animo. L’ermafroditismo, o comunque l’abnorme dimensione del clitoride, ritenuta produttrice (ma anche conseguenza) di famelici desideri proibiti nelle famigerate “tribadi”, mostruose nel corpo e prostitute per vocazione. Oppure la satanica e colpevole deformazione dell’immaginario e del desiderio (benché ritenuta, perfino dall’Inquisizione, inferiore per gravità alla sodomia maschile).
Ma Bianchi ebbe l’onestà di riconoscere che Caterina non era vittima né dell’«anatomia indiscreta» né della volontaria perversione, che il suo corpo era “normale”, che era cresciuta in un ambiente moralmente sano. Semplicemente: amava le donne, le aveva sempre amate, e amava solo loro. Caterina, riconobbe il professore tracciando una precoce, confusa ma modernissima distinzione fra sesso, genere e orientamento, apparteneva a un genere di esseri umani, di cui la poetessa Saffo fu la prima a osare quel che oggi chiameremmo un coming out.
E il libro che alla fine scrisse a suo rischio, sotto falso nome e «alla macchia», ma che suscitò interesse in tutta Europa, fu forse proibito per questa laica, inedita, pioniera. Caterina Vizzani «s’infingeva uomo», ma non voleva essere uomo. Spirando, chiese di essere seppellita in abiti femminili e ghirlande, da «pulcella» ancor vergine qual era. A chi le voleva bene aveva svelato il suo segreto. I genitori, dettaglio commovente, lo accettarono, e quando poterono la protessero e la aiutarono. Per l’univocità e il coraggio della sua scelta Caterina, osserva Barbagli senza riuscire a nascondere un sorriso di simpatia, somiglia in molti tratti alle lesbiche moderne, magari a quelle degli anni Cinquanta, quando adottare abbigliamento e atteggiamento mascolini erano la condizione di un mimino di accettabilità sociale. Ma non aveva parole per riconoscersi. Non conosciamo i suoi pensieri: probabilmente, come la Fiordispina dell’Ariosto innamorata della guerriera Bradamante, si sentiva unica al mondo: «Sola son io / che patisco da te sì duro scempio». Non lo era: ma dovevano passare almeno due secoli prima che le sue consorelle, con gran fatica, conquistassero il diritto di dare un nome alla libertà del loro amore.
Caterina e le donne. Storia della ragazza che nel Settecento viveva come un uomo
la Repubblica, 1 febbraio 2014
a proposito di Marzio Barbagli, Storia di Caterina, Il Mulino, Bologna 2014, pagg. 243
A dispetto dei suoi ingenui sedici anni di figlia d’un falegname delle borgate romane, Caterina sapeva bene quel che voleva: amare le donne come lei. Ebbe anche il coraggio di farlo, e del come farlo: vestendosi da uomo, cambiandosi nome in Giovanni. Le mancava solo una parola, la parola per dirlo, la parola per dirsi: gay, lesbica, omosessuale. Ma quelle parole, a metà del Settecento, nessuno le aveva ancora inventate, e Caterina-Giovanni morì così, a ventiquattr’anni, dopo otto di travestimenti, senza il conforto di un’identità, forse proprio perché non lo aveva mai avuto. Un uomo cercò di trovare per lei quelle parole, e ci andò molto vicino: un medico, un laico coraggioso, che se ne fregò dei pregiudizi e delle teorie “scientifiche” della sua epoca, ed ebbe pietà, forse anche simpatia, per quella giovane donna che non volle piegare la testa.
La Storia di Caterina (Il Mulino, pagg. 243, euro 16) che ci narra un analista attento e molto esperto della famiglia contemporanea, Marzio Barbagli, ha la forma di una classica case history della sociologia: prendi una vicenda individuale, ben documentata, e ne fai il centro focale di un affresco, in questo caso sulla considerazione sociale, morale e culturale dell’amore fra donne negli ultimi tre secoli. Ma nella storia che Barbagli ha scovato e scavato dagli archivi, quei due personaggi prendono di potenza la scena, non si fanno ridurre a simboli o esempi, e senza smettere di essere un saggio scientifico, ecco che il libro diventa il romanzo poetico di un incontro fra due esseri umani in contrasto col loro tempo, un incontro mancato in vita, ma realizzato nel pensiero.
Fu forse per il rimorso di non essere accorso subito al suo capezzale che Giovanni Bianchi, cattedratico illustre dell’Università di Siena, s’incuriosì della sorte di quel povero corpo di uomo, tale Giovanni Bordoni, maggiordomo, spirato il 16 giugno del 1743 sui pagliericci dell’ospedale di Santa Maria della Scala a Siena, che una volta spogliato dai becchini aveva rivelato, sorpresa, di essere il corpo d’una giovane donna. Qualche indagine svelò la sua storia: donna era nata, Caterina Vizzani, ma appena adolescente non lo volle più rimanere, fu quando s’innamorò della compagna di cucito Margherita, e dovette fuggire e travestirsi per scampare alle ire del padre di lei. Diventò così Giovanni, e si trovò un lavoro da cameriere, eccellente ed espertissimo cameriere, di cui gli aristocratici padroni furono sempre più che soddisfatti, tanto da perdonargli l’unico difetto, quel suo vizio di «donnajuolo » impenitente. Ma una delle dongiovannesche sue avventure, il rapimento della nipote del parroco di Montepulciano, alla fine gli (o le) fu fatale: fuga, inseguimento e un letale colpo di archibugio.
Una svelta benedizione, la vergogna seppellita assieme al corpo avrebbero potuto far finire tutto qui, e oggi nulla sapremmo di Caterina. Ma il professor Bianchi non s’accontentò. Dentro di lui lo scienziato proto-illuminista non riuscì a non cercare una risposta alla domanda: perché? Perché una donna ama le donne? Indagò. Si fece sociologo e antropologo ante-litteram. Esaminò il corpo. Lesse libri. Ebbe il coraggio di scartare una per una le risposte correnti della scienza e della morale del suo tempo.
Perché questo è assodato: che ci fossero donne che amavano vestirsi da uomo, per mille ragioni non solo sessuali, da Giovanna d’Arco a Moll Flanders, lo si sapeva da secoli. E anche che esistessero donne che amano le donne. Lo sapevano l’artista e il letterato, lo sapeva il moralista ecclesiastico, lo sapeva lo scienziato. Ma sul perché, le risposte erano diverse. Sostanzialmente due: l’errore della natura, la depravazione dell’animo. L’ermafroditismo, o comunque l’abnorme dimensione del clitoride, ritenuta produttrice (ma anche conseguenza) di famelici desideri proibiti nelle famigerate “tribadi”, mostruose nel corpo e prostitute per vocazione. Oppure la satanica e colpevole deformazione dell’immaginario e del desiderio (benché ritenuta, perfino dall’Inquisizione, inferiore per gravità alla sodomia maschile).
Ma Bianchi ebbe l’onestà di riconoscere che Caterina non era vittima né dell’«anatomia indiscreta» né della volontaria perversione, che il suo corpo era “normale”, che era cresciuta in un ambiente moralmente sano. Semplicemente: amava le donne, le aveva sempre amate, e amava solo loro. Caterina, riconobbe il professore tracciando una precoce, confusa ma modernissima distinzione fra sesso, genere e orientamento, apparteneva a un genere di esseri umani, di cui la poetessa Saffo fu la prima a osare quel che oggi chiameremmo un coming out.
E il libro che alla fine scrisse a suo rischio, sotto falso nome e «alla macchia», ma che suscitò interesse in tutta Europa, fu forse proibito per questa laica, inedita, pioniera. Caterina Vizzani «s’infingeva uomo», ma non voleva essere uomo. Spirando, chiese di essere seppellita in abiti femminili e ghirlande, da «pulcella» ancor vergine qual era. A chi le voleva bene aveva svelato il suo segreto. I genitori, dettaglio commovente, lo accettarono, e quando poterono la protessero e la aiutarono. Per l’univocità e il coraggio della sua scelta Caterina, osserva Barbagli senza riuscire a nascondere un sorriso di simpatia, somiglia in molti tratti alle lesbiche moderne, magari a quelle degli anni Cinquanta, quando adottare abbigliamento e atteggiamento mascolini erano la condizione di un mimino di accettabilità sociale. Ma non aveva parole per riconoscersi. Non conosciamo i suoi pensieri: probabilmente, come la Fiordispina dell’Ariosto innamorata della guerriera Bradamante, si sentiva unica al mondo: «Sola son io / che patisco da te sì duro scempio». Non lo era: ma dovevano passare almeno due secoli prima che le sue consorelle, con gran fatica, conquistassero il diritto di dare un nome alla libertà del loro amore.
Il lato violento di Woody
--------------------------------------
Francesco Bonami
Il lato violento di Woody
La Stampa, 3 febbraio 2014
Le accuse di molestie fatte dalla figlia adottiva a Woody Allen riportano alla ribalta una complicata, ma nemmeno troppo, questione. Può il successo creativo di una persona renderla immune e al di sopra di comportamenti infami? La logica vorrebbe che la risposta fosse una sola: no! Ma la realtà dei fatti ci dimostra che invece il genio artistico è spesso guardato con un occhio di riguardo.
Avolte addirittura assolto da accuse vere e terribili. Voglio fare un esempio paradossale prendendo un’opera d’arte di questi tempi sempre più famosa «La Ragazza con l’orecchino di perla» di Vermeer, che stiamo per vedere a Bologna. Mettiamo che salti fuori un documento che dimostra che l’autore dell’opera, il mitico pittore fiammingo, la ragazza con l’orecchino la trattava in modo perfido sottoponendola a violenze inaudite, non solo, un altro documento dell’epoca ci dice che Vermeer picchiava brutalmente anche la moglie. Come guarderemmo questo capolavoro? Cambierebbe la nostra percezione? E ancora. Saremmo disposti a rinunciare a questa opera d’arte, a questo capitolo della storia dell’arte se fosse possibile eliminare anche le violenze dell’autore?
Questa domanda è più pressante quando l’arte è più attuale come i film di un regista che andiamo a goderci al cinema la domenica pomeriggio. Come ci poniamo davanti alla sua opera una volta saputo che dietro alle risate che ci fa fare c’è un personaggio oscuro e violento? Questa domanda è molto difficile perché non è una domanda isolata nel mondo della cultura e dell’arte. È una domanda che continua a tornare a galla. Il grande poeta americano Walt Whitman fu al centro di un scandalo di pedofilia, eppure le sue poesie sono sublimi. Possiamo privarcene alla luce del suo comportamento? Picasso trattava le sue amanti e compagne in modo atroce. Mettiamo in cantina Guernica per punirlo? A Ezra Pound, altro grande poeta, piacevano Mussolini ed Hitler, anche se poi fece ammenda. Bruciamo i suoi «Cantos»? Per avere l’arte più grande dobbiamo per forza accettare il pacchetto completo fatto a volte di violenza, perdizione, morte, crudeltà, ingiustizia? Michael Jackson è finito in rovina per le accuse, anche per lui di pedofilia e molestie sessuali. La sua musica è diventata peggiore per questo? Gauguin mandò al manicomio sua moglie. Così come Rodin fece praticamente impazzire la sua amante e grande scultrice Camille Claudel. La lista è infinita e comprende anche grandi filosofi, psicanalisti, musicisti e scrittori. C’è chi dice che la luce dell’arte si porta dietro inevitabilmente anche il buio della mente e dell’anima. Insomma il genio è di fatto un malato. Sicuramente uno che molesta una bambina di sette anni, famoso o meno che sia, sano non è. Ma essere malato non è un salvacondotto per l’impunità. Tuttavia la domanda è quella dell’inizio e la rivolgiamo a noi stessi. Vogliamo rinunciare ai capolavori della cultura, alle grandi idee come gesto di condanna verso le bassezze di chi questi capolavori ha creato? Sarei un ipocrita se dicessi di sì, senza ombra di dubbio. Il dubbio profondo, doloroso e oscuro, rimane. La nostra posizione è come quella dell’amico scrittore al quale il perfido Orson Welles nel film «Il Terzo Uomo», in cima alla ruota del Prater di Vienna dice: «Sai cosa disse quel tizio. In Italia, per trenta anni sotto i Borgia avevano guerra, terrore, assassini e spargimento di sangue, ma produssero Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno e cinquecento anni di democrazia e pace, e cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù». L’orologio a cucù non è purtroppo la soluzione alla malvagità, ma se mettere un orologio a cucù al posto della Gioconda potesse servire ad impedire, anche solo per poco, la violenza degli uomini, credo che ci troveremmo tutti d’accordo, compreso il direttore del Louvre.
-----------------------------
La versione di Woody
Allen risponde alla figlia e alle accuse di pedofilia
Mattia Pasquini
l'Unità, 9 febbraio 2014
«OVVIAMENTE, NON HO MOLESTATO DYLAN. L’ho amata e spero che un giorno lei possa comprendere quanto sia stata defraudata dell'amore paterno e sfruttata da una madre più interessata alla propria rabbia incancrenita che al benessere di sua figlia». Woody Allen risponde alla lettera aperta che la figlia adottiva Dylan aveva pubblicato il 1 febbraio, accusandolo di molestie. Non propriamente sul New York Times, ma su un blog a esso collegato, quello di Nicholas Kristof - editorialista del giornale dal 2001 e Premio Pulitzer 1990 e 2006 - amico «stretto» di Mia Farrow con la quale ha condiviso piu di un viaggio, a partire da quello in Darfur. Nella settimana successiva la domanda con la quale la ragazza aveva aperto il suo scritto è rimbalzata da un lato all’altro del globo: Qual è il vostro film preferito di Woody Allen? E molti di noi si sono quasi vergognati di aver fatto il tifo per il piccolo jazzista di Manhattan, di avergli sorriso nelle interviste, di aver citato le sue battute più celebri o di aver avuto - nei suoi confronti - il solo dubbio di scegliere un film del cuore tra i tanti della sua carriera.
Una querelle del genere spinge, inevitabilmente, a scegliere una fazione. E in un argomento come questo, spesso, si finisce con lo sposare indignati la versione cui credere. Certo il fatto che nel 1997 Allen abbia sposato la venticinquenne Soon-Yi Previn, adottata nel 1991 (ma dalla sola Farrow), non è qualcosa che siamo abituati a vedere molto spesso, ma «il cuore vuole ciò che vuole; non c’è logica in queste cose», come disse lui nel 1992.
Se qualcuno ancora non avesse deciso da che parte stare, ecco quindi la lettera - altrettanto «aperta» (e pubblicata, non senza discussione, dall’editor dello stesso giornale Andrew Rosenthal, convinto che in questo caso «avremmo dovuto») - di Woody, e i suoi puntini sulle «i» di Mia.
A 21 anni dalla prima accusa di Mia Farrow, dalla quale si separò nel 1992, l’arringa difensiva del quattro volte Premio Oscar è una lunga ricostruzione dei fatti, ovviamente filtrati dalla propria lente, ma suffragati da una serie di «testimonanze» di non poco conto. In primis, anche se ultima in ordine cronologico, quella di Moshe, fratello di Dylan e oggi consulente familiare. «Mia madre mi inculcò l’odio per mio padre per aver distrutto la famiglia e aver molestato sessualmente mia sorella e io l’ho odiato per anni - ha dichiarato il 36enne alla rivista People - ma ora capisco che era un modo per vendicarsi di lui per essersi innamorato di Soon-Yi. Naturalmente Woody non molestò mia sorella. Lei lo amava e non vedeva l’ora di vederlo quando ci veniva a trovare; non si è mai nascosta da lui fino a che nostra madre non riuscì a creare una atmosfera di paura e odio verso di lui». Dichiarazioni che ha accompagnato a quelle di esser stato «spesso colpito» da bambino e di una figura materna facile a irrefrenabili scoppi di rabbia che gli hanno attirato la condanna definitiva («per me è morto») della sorella.
Purtroppo per lei, contro l'insistenza nel rifiutare ogni «indottrinamento» da parte della madre, gioca anche il referto degli esperti del Child Sexual Abuse Clinic of the Yale-New Haven Hospital, convocati dalla polizia del Connecticut che dichiararono la ragazza non abusata e più probabilmente vittima vulnerabile di una famiglia disturbata, stressata e coached, istruita, «da Mia Farrow». Anche Mia aveva consultato un esperto, racconta Allen nella sua lettera: «insistette che avevo abusato di Dylan e la portò immediatamente da un dottore perché la esaminasse, ma Dylan disse al dottore che non era stata molestata. Mia la portò fuori a prendere un gelato, e quando tornarono la bambina aveva cambiato la sua versione». Quello fu l’inizio dell’indagine, che costrinse anche il genitore a sottoporsi - comunque «molto volentieri», ci tiene a sottolineare - alla macchina della verità, con esito positivo. «Perché non avevo niente da nascondere - insiste, aggiungendo - Mia non volle».
Negli Stati Uniti, intanto, la domanda ricorrente è: cosa succederà agli Oscar? Perché la vicenda familiare della famiglia Allen non è un argomento nuovo, e perché l’attenzione non resterà a lungo sugli scambi di lettere tra celebrities. Ma soprattutto perché l’ultimo splendido Blue Jasmine attende dall’Academy Award il responso sulle tre nomination ottenute: per la miglior sceneggiatura originale (la sedicesima per Allen), la miglior attrice non protagonista e per la miglior attrice protagonista, ad una Cate Blanchett che fino ad oggi era la super favorita e che probabilmente inizia a temere che qualcuno possa farsi condizionare dalla vicenda e penalizzare lei per non premiare Woody. «È stata una situazione penosa per tanto tempo per la famiglia, spero che possano trovare una soluzione e la pace», aveva salomonicamente dichiarato domenica scorsa l’attrice, interpellata al party del Santa Barbara International Film Festival. Altro non sentiremo, dagli interessati almeno. Si spera. Questa è «l'ultima parola». Di certo, da parte del regista, che dichiara che «nessun altro risponderà per conto mio a qualsiasi ulteriore commento fatto da chiunque. Sono state ferite già abbastanza persone». E che ognuno decida cosa pensare …e quale sia il proprio film preferito di Woody Allen.
Etichette:
genio,
male,
violenza,
vita,
Woody Allen
Iscriviti a:
Post (Atom)