lunedì 3 febbraio 2014

Il lato violento di Woody





Contrariamente a quanto l'articolo che segue lascia intravedere, non c'è nessun prezzo da pagare per la disumanità del genio, non si tratta di scegliere tra genio (malvagio) e piattezza (buona), l'una cosa può andare molto bene senza l'altra. Il genio e il male sono fenomeni distinti. La violenza è la violenza, punto. Non va vista come la contropartita del genio, ma come un abuso da condannare e da sanzionare, anche quando il suo autore sia un personaggio di grande qualità sul piano della creazione.


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Francesco Bonami
 Il lato violento di Woody
 La Stampa, 3 febbraio 2014

Le accuse di molestie fatte dalla figlia adottiva a Woody Allen riportano alla ribalta una complicata, ma nemmeno troppo, questione. Può il successo creativo di una persona renderla immune e al di sopra di comportamenti infami? La logica vorrebbe che la risposta fosse una sola: no! Ma la realtà dei fatti ci dimostra che invece il genio artistico è spesso guardato con un occhio di riguardo.
Avolte addirittura assolto da accuse vere e terribili. Voglio fare un esempio paradossale prendendo un’opera d’arte di questi tempi sempre più famosa «La Ragazza con l’orecchino di perla» di Vermeer, che stiamo per vedere a Bologna. Mettiamo che salti fuori un documento che dimostra che l’autore dell’opera, il mitico pittore fiammingo, la ragazza con l’orecchino la trattava in modo perfido sottoponendola a violenze inaudite, non solo, un altro documento dell’epoca ci dice che Vermeer picchiava brutalmente anche la moglie. Come guarderemmo questo capolavoro? Cambierebbe la nostra percezione? E ancora. Saremmo disposti a rinunciare a questa opera d’arte, a questo capitolo della storia dell’arte se fosse possibile eliminare anche le violenze dell’autore?
Questa domanda è più pressante quando l’arte è più attuale come i film di un regista che andiamo a goderci al cinema la domenica pomeriggio. Come ci poniamo davanti alla sua opera una volta saputo che dietro alle risate che ci fa fare c’è un personaggio oscuro e violento? Questa domanda è molto difficile perché non è una domanda isolata nel mondo della cultura e dell’arte. È una domanda che continua a tornare a galla. Il grande poeta americano Walt Whitman fu al centro di un scandalo di pedofilia, eppure le sue poesie sono sublimi. Possiamo privarcene alla luce del suo comportamento? Picasso trattava le sue amanti e compagne in modo atroce. Mettiamo in cantina Guernica per punirlo? A Ezra Pound, altro grande poeta, piacevano Mussolini ed Hitler, anche se poi fece ammenda. Bruciamo i suoi «Cantos»? Per avere l’arte più grande dobbiamo per forza accettare il pacchetto completo fatto a volte di violenza, perdizione, morte, crudeltà, ingiustizia? Michael Jackson è finito in rovina per le accuse, anche per lui di pedofilia e molestie sessuali. La sua musica è diventata peggiore per questo? Gauguin mandò al manicomio sua moglie. Così come Rodin fece praticamente impazzire la sua amante e grande scultrice Camille Claudel. La lista è infinita e comprende anche grandi filosofi, psicanalisti, musicisti e scrittori. C’è chi dice che la luce dell’arte si porta dietro inevitabilmente anche il buio della mente e dell’anima. Insomma il genio è di fatto un malato. Sicuramente uno che molesta una bambina di sette anni, famoso o meno che sia, sano non è. Ma essere malato non è un salvacondotto per l’impunità. Tuttavia la domanda è quella dell’inizio e la rivolgiamo a noi stessi. Vogliamo rinunciare ai capolavori della cultura, alle grandi idee come gesto di condanna verso le bassezze di chi questi capolavori ha creato? Sarei un ipocrita se dicessi di sì, senza ombra di dubbio. Il dubbio profondo, doloroso e oscuro, rimane. La nostra posizione è come quella dell’amico scrittore al quale il perfido Orson Welles nel film «Il Terzo Uomo», in cima alla ruota del Prater di Vienna dice: «Sai cosa disse quel tizio. In Italia, per trenta anni sotto i Borgia avevano guerra, terrore, assassini e spargimento di sangue, ma produssero Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno e cinquecento anni di democrazia e pace, e cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù». L’orologio a cucù non è purtroppo la soluzione alla malvagità, ma se mettere un orologio a cucù al posto della Gioconda potesse servire ad impedire, anche solo per poco, la violenza degli uomini, credo che ci troveremmo tutti d’accordo, compreso il direttore del Louvre.

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La versione di Woody
Allen risponde alla figlia e alle accuse di pedofilia
Mattia Pasquini

l'Unità, 9 febbraio 2014

«OVVIAMENTE, NON HO MOLESTATO DYLAN. L’ho amata e spero che un giorno lei possa comprendere quanto sia stata defraudata dell'amore paterno e sfruttata da una madre più interessata alla propria rabbia incancrenita che al benessere di sua figlia». Woody Allen risponde alla lettera aperta che la figlia adottiva Dylan aveva pubblicato il 1 febbraio, accusandolo di molestie. Non propriamente sul New York Times, ma su un blog a esso collegato, quello di Nicholas Kristof - editorialista del giornale dal 2001 e Premio Pulitzer 1990 e 2006 - amico «stretto» di Mia Farrow con la quale ha condiviso piu di un viaggio, a partire da quello in Darfur. Nella settimana successiva la domanda con la quale la ragazza aveva aperto il suo scritto è rimbalzata da un lato all’altro del globo: Qual è il vostro film preferito di Woody Allen? E molti di noi si sono quasi vergognati di aver fatto il tifo per il piccolo jazzista di Manhattan, di avergli sorriso nelle interviste, di aver citato le sue battute più celebri o di aver avuto - nei suoi confronti - il solo dubbio di scegliere un film del cuore tra i tanti della sua carriera.
Una querelle del genere spinge, inevitabilmente, a scegliere una fazione. E in un argomento come questo, spesso, si finisce con lo sposare indignati la versione cui credere. Certo il fatto che nel 1997 Allen abbia sposato la venticinquenne Soon-Yi Previn, adottata nel 1991 (ma dalla sola Farrow), non è qualcosa che siamo abituati a vedere molto spesso, ma «il cuore vuole ciò che vuole; non c’è logica in queste cose», come disse lui nel 1992.
Se qualcuno ancora non avesse deciso da che parte stare, ecco quindi la lettera - altrettanto «aperta» (e pubblicata, non senza discussione, dall’editor dello stesso giornale Andrew Rosenthal, convinto che in questo caso «avremmo dovuto») - di Woody, e i suoi puntini sulle «i» di Mia.
A 21 anni dalla prima accusa di Mia Farrow, dalla quale si separò nel 1992, l’arringa difensiva del quattro volte Premio Oscar è una lunga ricostruzione dei fatti, ovviamente filtrati dalla propria lente, ma suffragati da una serie di «testimonanze» di non poco conto. In primis, anche se ultima in ordine cronologico, quella di Moshe, fratello di Dylan e oggi consulente familiare. «Mia madre mi inculcò l’odio per mio padre per aver distrutto la famiglia e aver molestato sessualmente mia sorella e io l’ho odiato per anni - ha dichiarato il 36enne alla rivista People - ma ora capisco che era un modo per vendicarsi di lui per essersi innamorato di Soon-Yi. Naturalmente Woody non molestò mia sorella. Lei lo amava e non vedeva l’ora di vederlo quando ci veniva a trovare; non si è mai nascosta da lui fino a che nostra madre non riuscì a creare una atmosfera di paura e odio verso di lui». Dichiarazioni che ha accompagnato a quelle di esser stato «spesso colpito» da bambino e di una figura materna facile a irrefrenabili scoppi di rabbia che gli hanno attirato la condanna definitiva («per me è morto») della sorella.
Purtroppo per lei, contro l'insistenza nel rifiutare ogni «indottrinamento» da parte della madre, gioca anche il referto degli esperti del Child Sexual Abuse Clinic of the Yale-New Haven Hospital, convocati dalla polizia del Connecticut che dichiararono la ragazza non abusata e più probabilmente vittima vulnerabile di una famiglia disturbata, stressata e coached, istruita, «da Mia Farrow». Anche Mia aveva consultato un esperto, racconta Allen nella sua lettera: «insistette che avevo abusato di Dylan e la portò immediatamente da un dottore perché la esaminasse, ma Dylan disse al dottore che non era stata molestata. Mia la portò fuori a prendere un gelato, e quando tornarono la bambina aveva cambiato la sua versione». Quello fu l’inizio dell’indagine, che costrinse anche il genitore a sottoporsi - comunque «molto volentieri», ci tiene a sottolineare - alla macchina della verità, con esito positivo. «Perché non avevo niente da nascondere - insiste, aggiungendo - Mia non volle».
Negli Stati Uniti, intanto, la domanda ricorrente è: cosa succederà agli Oscar? Perché la vicenda familiare della famiglia Allen non è un argomento nuovo, e perché l’attenzione non resterà a lungo sugli scambi di lettere tra celebrities. Ma soprattutto perché l’ultimo splendido Blue Jasmine attende dall’Academy Award il responso sulle tre nomination ottenute: per la miglior sceneggiatura originale (la sedicesima per Allen), la miglior attrice non protagonista e per la miglior attrice protagonista, ad una Cate Blanchett che fino ad oggi era la super favorita e che probabilmente inizia a temere che qualcuno possa farsi condizionare dalla vicenda e penalizzare lei per non premiare Woody. «È stata una situazione penosa per tanto tempo per la famiglia, spero che possano trovare una soluzione e la pace», aveva salomonicamente dichiarato domenica scorsa l’attrice, interpellata al party del Santa Barbara International Film Festival. Altro non sentiremo, dagli interessati almeno. Si spera. Questa è «l'ultima parola». Di certo, da parte del regista, che dichiara che «nessun altro risponderà per conto mio a qualsiasi ulteriore commento fatto da chiunque. Sono state ferite già abbastanza persone». E che ognuno decida cosa pensare …e quale sia il proprio film preferito di Woody Allen.

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