Domenico Scarpa
Franco Lucentini, orgoglioso disfattista d'Italia
Il Sole 24 ore, 22 maggio 2011
Come "uomo della strada", Franco Lucentini si sarebbe fermato molto
spesso ad arrotolarsi una sigaretta dopo aver infilato la mano in tasca
per recuperare tabacco e cartine, e poi un accendino da due soldi a
sigaretta confezionata. Era il suo gesto più solito, anche stando in
casa: gli serviva per dare ritmo al pensiero impegnando una parte di sé
in una cosa materiale: rimaneva in tua compagnia, ma si astraeva con le
sue mani. Lucentini era un anarchico vero, non tanto in senso politico
quanto in senso antropologico-percettivo; non credeva nel progresso così
come non credeva nell'universo, che secondo lui era solo un disguido
del Non-Essere. Non credeva nemmeno in Dio, naturalmente: benché fosse
nato a Roma la notte di Natale del 1920 e benché amasse San Luca
evangelista, inventore del presepio, Lucentini pubblicò nella primavera
1958 Perché non possiamo non dirci non cristiani, un breve saggio il cui
titolo si modella polemicamente su quello celebre di Benedetto Croce,
Perché non possiamo non dirci cristiani, due negazioni che nel pieno di
una guerra ormai avviata al disastro per l'Italia fascista (siamo
nell'estate del 42) si risolvevano in un'ostinata rivendicazione di
energia morale.
«Man of the street?», il breve articolo di Lucentini [...],
esce invece l'11 gennaio 1945, quando il disastro è ormai compiuto, in
una Roma sotto il controllo degli eserciti Alleati: il punto
interrogativo nel titolo ha il duplice scopo di correggere una
traduzione imprecisa («uomo comune», non «uomo della strada») e di
descrivere in modo attendibile il carattere del l'italiano comune. A
Lucentini le due cose stavano a cuore nella stessa misura perché era un
traduttore nato e perché con quel corsivo di cinquanta righe stava
proseguendo una sua battaglia politica. Man of the street? esce infatti
su un giornale intitolato «Democrazia internazionale», che comincia le
pubblicazioni clandestine nel 1943, quando Roma è occupata dall'esercito
nazista. Il direttore è Federico Valenzani, mentre dell'amministrazione
si occupa Peppino Pampiglione che è il migliore amico di Franco.
Insieme, all'università, avevano ideato la «beffa delle stelle filanti».
Siamo nel maggio 1941: gli studenti del Guf, Gruppo universitario
fascista, organizzano una manifestazione patriottica per sostenere la
guerra in corso, l'alleanza tra il Duce e il Führer e anche il loro
diritto al 18 politico. Sono giovani, sono entusiasti, si sono riuniti
per festeggiare e protestare; perciò, quando nel cortile dell'università
trovano alcuni pacchi di stelle filanti abbandonati da chissà chi, non
sanno resistere e soffiano: il cortile si copre di striscioline di carta
sul cui rovescio sono stampate frasi sovversive e battute goliardiche:
«Abbasso la guerra», «Viva l'Inghilterra», «Viva la fica», «Differenza
tra il duce e un sacco di merda: il sacco». Sono stati in quattro a
fabbricarle, usando un kit del «Piccolo tipografo» modificato da Franco:
lui, Pampiglione, il loro amico Riccardo Musatti e infine Antonio
Giolitti, nipote dello statista piemontese. Scoperti i responsabili,
Lucentini sconta sei mesi a Regina Coeli, castigo mite grazie al
coinvolgimento di Giolitti jr. e di una sentenza che stabilisce
l'insufficienza di prove al dolo, come a dire che quei quattro ragazzini
sono dei poveri deficienti e basta. Ma la sentenza parla anche di
«attività antinazionale», e di questo aggettivo Lucentini andrà
orgoglioso per tutta la vita, perché realmente lui e i suoi amici furono
dei disfattisti: sapevano che solo la sconfitta in guerra poteva
salvare l'Italia dal permanere in balìa di un regime fascista che si
sarebbe trovato a sua volta in balìa di Hitler.
E così, la domenica 25 febbraio 1945, sulla prima pagina di «Democrazia
internazionale» si poté leggere il seguente comunicato dal titolo Non ci
chiamate antifascisti: «La redazione di "Democrazia internazionale" e i
molti o pochi simpatizzanti del giornale e del movimento chiedono di
non essere più considerati "antifascisti": troppi Crisafulli, troppi
Curzio Malaparte, troppi "littori" di Mussolini, sono ormai
antifascisti, e per conseguenza patriotti e di conseguenza nazionalisti
(cioè come prima). Noi riprendiamo, umilmente, la vecchia qualifica, che
sempre ci ha onorati nel periodo nazional-fascista, quella poliziesca
di "antinazionali", che in Italia, significa democratici». «In Italia»,
puntualizza l'anonimo redattore che quasi certamente risponde al binomio
Lucentini-Pampiglione. Con parecchi anni di anticipo sulla ditta
costituita con Carlo Fruttero, Lucentini scrive in coppia per la prima
volta: per indicare che proprio qui in Italia occorre superare tanto il
fascismo quanto l'antifascismo se si vuole sconfiggere il male vero, il
nazionalismo – e, con quello –, lo spirito gregario preso di mira nel
corsivo Man of the street?.
Quando nel 1996 Ernesto Galli della Loggia pubblicò da Laterza il saggio
La morte della patria, Lucentini gli indirizzò (firmandola da solo) una
lettera aperta garbatamente polemica, intitolata Elogio del
disfattismo; rievocava quel trafiletto del '45 e rivendicava – con la
vecchia qualifica di «antinazionale» – l'onore di essere stato tra i
pochi italiani che fin dal principio si augurarono la sconfitta
dell'Italia fascista, razzista e guerrafondaia. A differenza
dell'italiano comune, Franco Lucentini era un anarchico che rispettava
le regole, in pubblico e in privato, ed era miscredente in religione
senza essere cinico nella morale. I poteri costituiti gli facevano
orrore perché ne aveva conosciuto la violenza, l'imbecillità e
l'arbitrio: per la stessa ragione detestava l'incapacità di autonomia
del suo popolo, il suo familismo, il disprezzo per le donne, il sentirsi
forti quando si è in molti. Lucentini sapeva di essere un animale raro
tra i suoi concittadini: un uomo libero, capace di governarsi. Nel '64
avrebbe disegnato il proprio autoritratto nel protagonista del suo
racconto più bello, Notizie degli scavi: il Professore, un giovane
minorato che lavora in una pensione di prostitute, a Roma. C'è in quel
racconto una frase che completa la morale della favola implicita in Man
of the street?. Siamo negli scavi di Villa Adriana, a Tivoli; il
Professore è solo, sotto una tettoia: sta aspettando una delle signorine
che ha accompagnato sul lavoro; piove. «Da una grotta in fondo veniva
un cane, a vedere che stavo lì, e dopo ne venivano pure altri due, più
grossi. Stavamo con questi cani a guardare che spioveva». Stavamo: lo
sguardo del Professore ha livellato se stesso e i cani – la compagnia
ideale per un uomo di strada – al medesimo grado di esistenza. (Chi la
possiede, vada a vedere la copertina della prima edizione di Notizie
degli scavi. È una foto in bianco e nero: l'immagine mostra Franco
Lucentini tra i ruderi di Villa Adriana, nel gesto di accendersi una
sigaretta. È solo).
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