domenica 8 settembre 2013

Franco Lucentini disfattista

Domenico Scarpa
Franco Lucentini, orgoglioso disfattista d'Italia
Il Sole 24 ore, 22 maggio 2011

Come "uomo della strada", Franco Lucentini si sarebbe fermato molto spesso ad arrotolarsi una sigaretta dopo aver infilato la mano in tasca per recuperare tabacco e cartine, e poi un accendino da due soldi a sigaretta confezionata. Era il suo gesto più solito, anche stando in casa: gli serviva per dare ritmo al pensiero impegnando una parte di sé in una cosa materiale: rimaneva in tua compagnia, ma si astraeva con le sue mani. Lucentini era un anarchico vero, non tanto in senso politico quanto in senso antropologico-percettivo; non credeva nel progresso così come non credeva nell'universo, che secondo lui era solo un disguido del Non-Essere. Non credeva nemmeno in Dio, naturalmente: benché fosse nato a Roma la notte di Natale del 1920 e benché amasse San Luca evangelista, inventore del presepio, Lucentini pubblicò nella primavera 1958 Perché non possiamo non dirci non cristiani, un breve saggio il cui titolo si modella polemicamente su quello celebre di Benedetto Croce, Perché non possiamo non dirci cristiani, due negazioni che nel pieno di una guerra ormai avviata al disastro per l'Italia fascista (siamo nell'estate del 42) si risolvevano in un'ostinata rivendicazione di energia morale.
«Man of the street?», il breve articolo di Lucentini [...], esce invece l'11 gennaio 1945, quando il disastro è ormai compiuto, in una Roma sotto il controllo degli eserciti Alleati: il punto interrogativo nel titolo ha il duplice scopo di correggere una traduzione imprecisa («uomo comune», non «uomo della strada») e di descrivere in modo attendibile il carattere del l'italiano comune. A Lucentini le due cose stavano a cuore nella stessa misura perché era un traduttore nato e perché con quel corsivo di cinquanta righe stava proseguendo una sua battaglia politica. Man of the street? esce infatti su un giornale intitolato «Democrazia internazionale», che comincia le pubblicazioni clandestine nel 1943, quando Roma è occupata dall'esercito nazista. Il direttore è Federico Valenzani, mentre dell'amministrazione si occupa Peppino Pampiglione che è il migliore amico di Franco. Insieme, all'università, avevano ideato la «beffa delle stelle filanti». Siamo nel maggio 1941: gli studenti del Guf, Gruppo universitario fascista, organizzano una manifestazione patriottica per sostenere la guerra in corso, l'alleanza tra il Duce e il Führer e anche il loro diritto al 18 politico. Sono giovani, sono entusiasti, si sono riuniti per festeggiare e protestare; perciò, quando nel cortile dell'università trovano alcuni pacchi di stelle filanti abbandonati da chissà chi, non sanno resistere e soffiano: il cortile si copre di striscioline di carta sul cui rovescio sono stampate frasi sovversive e battute goliardiche: «Abbasso la guerra», «Viva l'Inghilterra», «Viva la fica», «Differenza tra il duce e un sacco di merda: il sacco». Sono stati in quattro a fabbricarle, usando un kit del «Piccolo tipografo» modificato da Franco: lui, Pampiglione, il loro amico Riccardo Musatti e infine Antonio Giolitti, nipote dello statista piemontese. Scoperti i responsabili, Lucentini sconta sei mesi a Regina Coeli, castigo mite grazie al coinvolgimento di Giolitti jr. e di una sentenza che stabilisce l'insufficienza di prove al dolo, come a dire che quei quattro ragazzini sono dei poveri deficienti e basta. Ma la sentenza parla anche di «attività antinazionale», e di questo aggettivo Lucentini andrà orgoglioso per tutta la vita, perché realmente lui e i suoi amici furono dei disfattisti: sapevano che solo la sconfitta in guerra poteva salvare l'Italia dal permanere in balìa di un regime fascista che si sarebbe trovato a sua volta in balìa di Hitler.
E così, la domenica 25 febbraio 1945, sulla prima pagina di «Democrazia internazionale» si poté leggere il seguente comunicato dal titolo Non ci chiamate antifascisti: «La redazione di "Democrazia internazionale" e i molti o pochi simpatizzanti del giornale e del movimento chiedono di non essere più considerati "antifascisti": troppi Crisafulli, troppi Curzio Malaparte, troppi "littori" di Mussolini, sono ormai antifascisti, e per conseguenza patriotti e di conseguenza nazionalisti (cioè come prima). Noi riprendiamo, umilmente, la vecchia qualifica, che sempre ci ha onorati nel periodo nazional-fascista, quella poliziesca di "antinazionali", che in Italia, significa democratici». «In Italia», puntualizza l'anonimo redattore che quasi certamente risponde al binomio Lucentini-Pampiglione. Con parecchi anni di anticipo sulla ditta costituita con Carlo Fruttero, Lucentini scrive in coppia per la prima volta: per indicare che proprio qui in Italia occorre superare tanto il fascismo quanto l'antifascismo se si vuole sconfiggere il male vero, il nazionalismo – e, con quello –, lo spirito gregario preso di mira nel corsivo Man of the street?.
Quando nel 1996 Ernesto Galli della Loggia pubblicò da Laterza il saggio La morte della patria, Lucentini gli indirizzò (firmandola da solo) una lettera aperta garbatamente polemica, intitolata Elogio del disfattismo; rievocava quel trafiletto del '45 e rivendicava – con la vecchia qualifica di «antinazionale» – l'onore di essere stato tra i pochi italiani che fin dal principio si augurarono la sconfitta dell'Italia fascista, razzista e guerrafondaia. A differenza dell'italiano comune, Franco Lucentini era un anarchico che rispettava le regole, in pubblico e in privato, ed era miscredente in religione senza essere cinico nella morale. I poteri costituiti gli facevano orrore perché ne aveva conosciuto la violenza, l'imbecillità e l'arbitrio: per la stessa ragione detestava l'incapacità di autonomia del suo popolo, il suo familismo, il disprezzo per le donne, il sentirsi forti quando si è in molti. Lucentini sapeva di essere un animale raro tra i suoi concittadini: un uomo libero, capace di governarsi. Nel '64 avrebbe disegnato il proprio autoritratto nel protagonista del suo racconto più bello, Notizie degli scavi: il Professore, un giovane minorato che lavora in una pensione di prostitute, a Roma. C'è in quel racconto una frase che completa la morale della favola implicita in Man of the street?. Siamo negli scavi di Villa Adriana, a Tivoli; il Professore è solo, sotto una tettoia: sta aspettando una delle signorine che ha accompagnato sul lavoro; piove. «Da una grotta in fondo veniva un cane, a vedere che stavo lì, e dopo ne venivano pure altri due, più grossi. Stavamo con questi cani a guardare che spioveva». Stavamo: lo sguardo del Professore ha livellato se stesso e i cani – la compagnia ideale per un uomo di strada – al medesimo grado di esistenza. (Chi la possiede, vada a vedere la copertina della prima edizione di Notizie degli scavi. È una foto in bianco e nero: l'immagine mostra Franco Lucentini tra i ruderi di Villa Adriana, nel gesto di accendersi una sigaretta. È solo).

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