venerdì 20 settembre 2013

Il fallimento dei Talk show

Federico Orlando
Europa, 20 settembre 2013

Cara Europa, ho letto accenni, anche sul vostro giornale, molto positivi per la trasmissione di Iacona Presa diretta, che con umiltà e dedizione riscopre e porta nelle nostre case le verità del paese: come nella storica inchiesta sulla distruzione dell’industria del Nord Est e sull’ostilità degli  imprenditori all’euro, nonché sulla ripresa emigrazione in Germania dalla Sicilia: non più ventenni, ma anziani posti al bivio tra la pazzia del non lavoro e una partenza forse senza ritorno. Così mi sono domandato perché le tv perdano tempo nei talk show coi soliti noti, coi soliti intervistatori, più o meno prigionieri della sindrome di Stoccolma: quasi non bastassero i risciacqui berlusconiani di vecchi messaggi, riciclati per continuare a difendere aziende e libertà personale, con la scusa di non dare l’Italia alle “sinistre” fiscali e giustizialiste.
Stefania Rocca, Caserta

Cara Signora, se in Italia non dovessimo (anzi, volessimo) parlare ogni giorno di Berlusconi con o senza messaggi, avremmo certamente cose serie di occuparci: tra le quali questo problema dell’informazione politica in tv, di cui lei si occupa e che nei giorni scorsi aveva cominciato a interessare anche i giornali: forse per il calo degli ascolti, forse per il ridicolo di cui coprono la politica e se stessi, cioè l’informazione tutta, che ha perduto il gusto e la capacità del giornalismo d’inchiesta.
Ma non mancano i pentimenti, da Giovanni Minoli, inventore di Mixer, che accusa: «Il talk ha distrutto la politica», a Enrico Mentana che cade del cielo: «I talk? Sempre le stesse facce» (è vero, ma da chi dipende?). Abbiamo visto a Ballarò l’educanda Mara Carfagna impancarsi a giurista e dare lezioni all’avvocato Pisapia, che nella parte penale del processo Mondadori (di cui la sentenza civile è conseguenza) aveva sostenuto le ragioni di De Benedetti. Abbiamo visto nella Gabbia di Paragone sguatteri di varia fattura insultare Giuliano Amato (e Napolitano che lo ha nominato giudice costituzionale) per alcuni cascami e peccati che la politica si porta con sé, ma dimenticando che Amato è uno dei maggiori giuristi d’Italia e che il suo volume sul diritto pubblico, scritto insieme ad Augusto Barbera, continua a formare generazioni di studenti e di studiosi. (Il diritto. Cioè quel che si richiede a un giudice, costituzionale o no).
Per fortuna, come ha scritto su Europa un conoscitore della comunicazione, Stefano Balassone, i crolli serali  degli ascolti fanno ben sperare nella scomparsa di molti contenitori e nel ravvedimento operoso di chi sopravvivrà: così Quinta colonna, ridotta al 3,51 di share, o Piazza pulita, al 4,47. Insomma, la tv gridata, violenta, con conduttori che si fingono Saint Just o Robespierre, con squinzie e marionette politiche caricati come i giocattoli a molla di una volta, comincia a stancare anche i più qualunquisti fra gli ascoltatori.
È rimasto Michele Santoro a dire «il talk show è eterno». Ma dice pure che «il Cavaliere è un combattente», confermando così quella sua sindrome di Stoccolma della quale diede pubblica dimostrazione nell’intervista di Servizio Pubblico, con la quale, lo scorso inverno, lanciò la campagna elettorale di un cavaliere che era disarcionato. Chi invece sembra cavarsela dal naufragio dello share, sono, secondo Balassone, i talk mattinieri, specie de La7, e quelli di Sky: forse ci sarà un motivo, magari gli ospiti un po’ diversi dai soliti, magari i giornalisti un po’ meno inchinati o demagoghi, magari temi che non siano i soliti consumatissimi spread, casta, Cavaliere, ma più attinenti alla vita dei milioni di italiani sull’orlo della frana. Speranze, forse vane, Adesso sciroppiamoci per qualche settimana le esegesi del Messaggio.

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