domenica 3 marzo 2013

Pillole gramsciane2 Parlamentarismo, populismo e demagogia


Quante volte abbiamo letto in questi ultimi giorni “hanno vinto populismo e demagogia”, e non è un bel complimento! Almeno: chi lo afferma si riferisce generalmente alla parte politica avversa, che ha di solito la “colpa” di aver ottenuto dal “popolo”, dal “demos” più voti, un maggior consenso o almeno di aver “deviato inaspettatamente” il consenso vero o presunto dalla parte “seria” e “veramente democratica” (leggasi Bersani) ai demagoghi di turno (leggasi Berlusconi e Grillo).
Mi è sempre stato difficile comprendere e mi è ogni anno difficile spiegare ai miei studenti la valenza deteriore della “demagogia” (che costantemente si affianca a “populismo”) e far capire perché il termine “democrazia” venga associato da Aristotele a “tirannia” e “oligarchia” per indicare una delle tre forme deteriori di governo, degenerazione rispettivamente di “politèia”, “monarchia” e “aristocrazia” e quindi che occorre pensare che laddove il filosofo greco scrive “democrazia” noi oggi dovremmo leggere “demagogia”.
Certo in Aristotele, come in Kant – il quale ancora nel 1795 scriveva che la democrazia “è necessariamente un dispotismo” – agiscono fortemente l’indubbia diffidenza nei confronti delle masse popolari incolte e la paura che gli interessi di queste masse “povere” di beni materiali e prive di coscienza politica non corrispondano a quelli dell’intera comunità, della “res pubblica”.
Partendo da queste premesse, il “parlamentarismo” tenderebbe anche a ridurre il “pericolo” che soltanto i “poveri” decidano per  tutti (è il timore di Aristotele). La “democrazia parlamentare” è infatti un sistema politico fondato senz’altro sulla “sovranità popolare”, giacché la titolarità del potere appartiene al demos, ma in cui l’esercizio del potere è delegato a rappresentanti eletti dal popolo che, specialmente secondo i vari teorici dell’ “elitismo” – qualunque sia la loro posizione politica (destra, centro o sinistra) –, hanno il compito non soltanto di rappresentare il popolo, ma anche e forse soprattutto di “guidarlo” nella scelta del bene comune.
Uno dei nomi più significativi delle “teorie delle élites” è quello del socialista Robert Michels, che attorno al 1910 studiando in particolare la socialdemocrazia tedesca formula la sua “legge ferrea dell'oligarchia”, in cui sostiene tra l’altro che nella misura in cui cresce l’organizzazione politica, la democrazia si deteriora e si trasforma in oligarchia poiché “l'esistenza di capi è un fenomeno congenito a qualunque forma di vita sociale” e “ogni sistema che preveda dei capi è incompatibile con i postulati essenziali della democrazia”.

A Michels fa riferimento Gramsci nel § 97 del Quaderno 6 (1930-1932), in cui leggo un richiamo alla cautela nell’uso di termini come “elezionismo”, “parlamentarismo”, “populismo”, “demagogia”.
Buona lettura!

“Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo). Queste osservazioni sull'ambizione possono e devono essere collegate con altre sulla cosi detta demagogia. Demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l'elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi plebiscitari). Ma se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera «costituente» costruttiva, allora si ha una «demagogia» superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l'elevarsi di singoli individui e di interi strati «culturali». Il «demagogo» deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, ecc., grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che il Michels ha chiamato «capo carismatico»). Il capo politico dalla grande ambizione invece tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili «concorrenti» ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo.” (Passato e presente. Grande ambizione e piccole ambizioni, Quaderni del carcere, Einaudi,  Torino 1977, p. 772)

Francesco Scalambrino

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