venerdì 30 settembre 2022

Luca Ricolfi stravede

 
 

 
Partiti al bivio
Il Pd e le due patenti dei 5S
di Luca Ricolfi
Individuare vincitori e vinti è facile. Vincitori: Meloni sopra il 25%, Conte sopra il 15%. Vinti: Letta sotto il 20%, Salvini sotto il 10%. Il resto sono scaramucce.
Ma qual è la cifra di questa tornata elettorale?
È stato notato, giustamente, che le forze politiche per lo più ritenute populiste o sovraniste — FdI, Lega, Cinque Stelle, Italexit, partitini comunisti — hanno totalizzato circa il 55% dei consensi, mentre i partiti più “draghiani” — Pd, Terzo Polo, +Europa, Impegno Civico — hanno raccolto solo il 30%, poco più della metà. Insomma, ha perso l’establishment e hanno vinto i partiti antisistema.
È questa la novità? Non esattamente, era già successo nel 2018, quando la somma di Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’Italia e populisti minori aveva superato il 57%.
Altri osservatori, notando che i tre partiti di centro-destra hanno ottenuto il 43% contro il 36% nel 2018, hanno letto il risultato come uno spostamento a destra dell’elettorato.
Ma è un’illusione prospettica, perché nel 2018 c’erano i Cinque Stelle, e una parte non trascurabile del voto di destra era confluito nel partito di Grillo. Se si tiene conto di questa circostanza, i risultati suggeriscono, semmai, un lieve arretramento del consenso alla destra, che nel 2018 si annidava anche nel consenso ai Cinque Stelle. Un arretramento che si può desumere anche da un’altra circostanza: i sondaggi degli ultimi due anni hanno quasi sempre attributo ai tre partiti di centro-destra qualcosa di più del 43% registrato alle elezioni del 25 settembre.
Insomma, sull’appuntamento elettorale non ha spirato alcun “vento di destra”.
Se il centro-destra ha vinto non è perché il baricentro elettorale si è spostato verso destra, ma perché la destra ha una leader che ha saputo sfruttare la logica della legge elettorale (che premia le alleanze larghe), mentre la sinistra ha un leader che non ha nemmeno provato a sfruttarla, quella logica.
La vera cifra del voto, a mio parere, è un’altra. Prima del 25 settembre 2022 non era mai successo che, a sinistra del Partito Comunista (e dei suoi successori Pds-Ds-Pd), prendesse forma un partito di dimensioni comparabili.
Partiti come Psiup, Manifesto, Democrazia Proletaria, Nuova Sinistra Unita, Rifondazione comunista, PdCI, Sel, Leu, eccetera, sono sempre stati sotto il 9%, il più delle volte sotto il 5%. Certo, c’è stata la Margherita di Rutelli, che ha spesso superato il 10%, ma la concorrenza ai Ds la faceva da destra, non da sinistra. Quanto ai Cinque Stelle, nel 2018 avevano (ampiamente) raggiunto la massa critica necessaria a competere con il Pd, ma non erano ancora percepiti come un partito di sinistra. Perché la mutazione avvenisse, occorrevano Renzi e il suo colpo di mano parlamentare, che d’un tratto — con la formazione del governo giallo-rosso — fornì ai Cinque Stelle entrambe lepatenti di cui avevano bisogno: la patente di partito affidabile e quella di partito affine alla sinistra.
Ecco perché il 25 settembre è una data spartiacque. I Cinque Stelle non solo superano il 15%, avvicinandosi al 19% del Pd, ma lo fanno presentandosi come “la vera sinistra”, non importa qui se legittimamente oppure no.
Come è potuto accadere?
È semplice. Il Pd non è un partito socialdemocratico, che si rivolge ai ceti popolari e ne interpreta i bisogni. Il Pd è il partito dell’establishment e dei “ceti medi riflessivi”, ossessionato da due soli temi: l’accoglienza dei migranti e le battaglie per i diritti civili. Dei diritti sociali gli importa quasi nulla, anche se in campagna elettorale ha dovuto fingere che gliene importasse qualcosa. In breve, è diventato un “partito radicale di massa”, come a suo tempo aveva profetizzato il filosofo Augusto del Noce immaginando il futuro del Pci.
La cosa poteva funzionare, e in parte ha funzionato, finché i problemi della gente non erano drammatici. Ma con le ripetute crisi dell’ultimo quindicennio non poteva funzionare più, qualcosa si sarebbe dovuto cambiare. I dirigenti del Pd non hanno saputo vedere la spaventosa domanda di protezione, economica e sociale, che saliva dal Paese. Per dirla con Bersani, non si sono accorti della «mucca nel corridoio», che ormai bussava alla porta.
I Cinque Stelle invece sì. Per quanto sbagliate e qualunquiste possano essere le loro proposte, molti elettori — non solo al Sud — li hanno visti come la autentica sinistra, che non si occupa solo delle “grandi battaglie di civiltà”, ma anche di problemi più terreni, di cui la sinistrad’antan si faceva carico.
Ora il Pd è a un bivio, su cui il congresso di primavera dovrà pronunciarsi: fare concorrenza ai Cinque Stelle sul loro terreno, riscoprendo la questione sociale, o prendere atto della mutazione che ha cambiato il Dna della sinistra ufficiale. Avviandosi, in questo caso, a diventare in modo esplicito il partito dell’establishment e dei ceti medi istruiti e urbanizzati.

Gianpasquale Santomassimo

Si susseguono le ricette giornalistiche sul "che fare?" del PD.
A parte le amenità del vignettista lecchino, quello che non ha mai fatto ridere nessuno nemmeno per sbaglio, e che propone il "modello Scandicci", qualunque cosa sia, e la permanenza di Letta segretario perché ha il merito di aver rifiutato Conte e il "populismo", emergono proposte più impegnative.
Oggi c'è un editoriale a tutta prima pagina del direttore di Domani, Stefano Feltri, dal titolo esplicito: "Chiudere il PD per salvare la sinistra". Una analisi impietosa su un partito divenuto inutile e ormai dannoso. Non hanno alcun senso le ipotesi di un partito degli amministratori, sostenuto da sindaci e governatori, in primis Bonaccini, e neppure la velleità della pallida sinistra interna di rilanciare un possibile partito socialdemocratico, ormai fuori tempo massimo e non più credibile. Viene demolita anche l'ipotesi Schlein e il personaggio stesso, inconsistente e opportunista.
Però il finale è rivelatore di molte cose che un po' si intuivano: il PD deve scomparire per far posto alle "energie dell'ambientalismo e agli attivisti delle questioni di genere".
Ecco, questo è sicuramente un partito che verrà incontro alle aspirazioni delle classi popolari, che non chiedono di meglio.

giovedì 29 settembre 2022

Le ragioni della sconfitta


 
 
Concita De Gregorio, Le province rosse che hanno punito la nomenklatura, La Stampa, 28 settembre 2022
 
Il figlio del portuale, il nipote del fattore hanno votato "Giorgia", la chiamano per nome. Il padre, il nonno si sono spaccati la schiena tutta la vita, entrambi in cooperative di lavoratori, in mare e nei campi. Il primo a Livorno, dove il Pci è nato. Il secondo fra Modena e Reggio nell'Emilia, in un borgo dove il 25 aprile è per tradizione una festa più grande e più bella di quella del Patrono. Famiglie comuniste senza bisogno di chiedere perché: è chiaro, perché. È nelle cose, nelle mani, è così. Il nipote del fattore ha 26 anni e si è laureato, è andato a vivere in città, in campagna non ci vuole tornare. Lavoretti saltuari, una stanza in una casa condivisa. «Non ci voglio litigare, con mio nonno, perciò non mi metta in difficoltà. Io lo capisco, lo rispetto. Però non sono sicuro che lui capisca me, d'altra parte non lo pretendo. Ho votato Pd da quando voto.
Ma sempre meno volentieri, l'ultima volta per esempio alle regionali non ci sono andato. Ho pensato: protesto così. Ma non basta. Non andare a votare non basta. Non capiscono. Allora ora vediamo se capiscono. Magari adesso capiscono».
La dorsale appenninica, la famosa linea Maginot da cui la destra non passa, non può passare, ha ceduto. Toscana e Emilia sono diventate la Caporetto del Pd in una sconfitta dalle proporzioni inemendabili, umilianti, e c'è anche questo da dire: è stata una punizione.
Non solo, non sempre ma anche: il voltafaccia delle provincie rosse ha il sapore di un castigo, come quando i genitori dicono ai figli questa volta ti tolgo la playstation, la seconda stai senza telefono, la terza ti mando in collegio. Ecco, questo: te ne vai da casa, e vediamo.
Se ne sono andati da casa, i figli e i nipoti dei Padri Fondatori. Livorno, la città del comunismo anarchico, fatto di menefreghismo e solidarietà, di fratellanza e di vento. Pisa, nelle cui università si è formata la classe dirigente del Pci del Novecento, Mussi e D'Alema che giocavano a biliardino, la scuola di Storia Moderna di Furio Diaz. Grosseto, la Maremma. Prato, l'industria. Massa, Arezzo Lucca. Centomila voti persi a Rimini e Piacenza. Una disfatta a Modena, Ravenna, Rimini, Forlì. Non è più nemmeno una questione di mappe e di numeri, è un crollo simbolico che non si spiega fino in fondo se non si attinge al lessico familiare, appunto: lì dove il Partito era famiglia. Delusione amarissima e rimprovero estremo, offesa della fiducia incondizionata, incredulità, esasperazione, reazione. Non capivano, ora vediamo se capiscono.
Ma cosa. Cosa non hanno capito? Beh, che non sarebbe stato per sempre. Che il consenso si coltiva e si guadagna, non è una dote: non è vero, non è più vero che i "tuoi" elettori sono disposti a votare anche una mucca, se metti in lista una mucca. Con tutto il rispetto per animali e umani: è per non fare esempi che potrebbero offendere qualcuno e risparmiare ingiustamente qualcun altro. Che togliere dalle liste le persone popolari e amate dai concittadini per mandare da fuori un "candidato blindato" che deve essere eletto – per ragioni di potere, di corrente: anche basta, davvero, come dicono i ragazzi. Anche no. Perché così tutte le Giuditta Pini (ecco, ho fatto un esempio) sacrificate in base a un incomprensibile manuale Cencelli restituiscono l'idea che lavorare sul campo non serve, la passione non serve, i risultati sono inutili. L'unica cosa che conta è assicurare un posto a gente che "deve" essere eletta. E deve perché? In nome di cosa? Rinnegare l'identità in favore del compromesso, pur di restare al potere e salvare qualche seggio, ti può riservare la sorpresa amara di farti perdere l'uno e l'altro: l'identità, il potere. La scelta difatti questa volta non era fra perdere bene o vincere male. Era come perdere. Se farlo riconquistando la tua natura, le ragioni dell'appartenenza a una comunità, o perdendone ancora con opache manovre a beneficio di uno zero virgola in più, che poi non è venuto. Non poteva venire, sempre con rispetto parlando, da Di Maio – in Emilia. Bibbiano sulla carta geografica resta dov'era, nella memoria pure. Lo spiega molto bene Achille Occhetto, che molti errori avrà fatto nella vita ma è in quella stagione in cui non c'è più niente da perdere a dire quello che pensi, le cose come ti sembra che stiano. Ha detto, in un'intervista a PolicyMaker che trovate online: la colpa del Pd è stata il governismo, il potere ad ogni costo. Riporto. «La sinistra deve capire che è meglio perdere con le proprie idee che governare con quelle degli altri. Ha dato l'idea di essere disposta a governare anche annacquandole o offuscandole. Che è cosa diversa dal fatto che in politica si fanno anche compromessi. I compromessi nobili sono quelli che uno fa se tiene ferma la propria identità, non se la perde». Due cose, mi appunterei, se mi chiamassi Franceschini o Orlando, o Guerini o financo il prossimo pretendente alla segreteria, Bonaccini. Che certamente, se desiderano, possono deridere Occhetto per la sua vecchiaia triste solitaria y final, ma insomma ascoltare non fa mai male. Primo. Perdere con le proprie idee è meglio che governare con quelle degli altri. È seminare un orto, ché questo ora c'è da fare: non conservare le piante avvizzite o mezzo morte, ma farne crescere di nuove. C'è tempo, usarlo bene. Secondo: i compromessi si fanno, in politica, ma a vincere. A conservare la propria identità. Altrimenti sono cambiali da pagare, e si pagano.
Ora che già si parla, da ieri, del prossimo congresso – per esempio. Sarebbe molto bello che chi ha fatto quattro, sei o sedicimila legislature si accontentasse, per così dire, di dare consigli ai prossimi. Non pretendesse di collocare la famiglia e restare intanto al suo eterno posto, o gli assistenti parlamentari e gli allievi meritevoli usati come stagisti a tempo pieno, dunque da ricompensare. Non è così, non è più così che funziona. I figli e i nipoti dell'Emilia e della Toscana rosse lo hanno detto. Una, due, tre volte. Bisogna cambiare il modo in cui funziona il partito, non è sufficiente cambiare segretario. Non penserete mica, al prossimo congresso, di mettervi tutti in fila, nascosti dietro a una Elly Schlein o al "volto nuovo" del momento, per restare in sella. Come avete fatto in passato, con altri e altre giovani promesse ormai invecchiate, inglobate in questa o quella corrente pur di restare nella scia dei loro consensi così da far perdere anche a loro la credibilità, la freschezza, l'autenticità. Ve lo avevano detto. Si erano astenuti, alle regionali: non erano venuti. Non è stato chiaro. Hanno votato Meloni, allora. Se non basta, restano solo i disegni. Il dileggio, le scritte sui muri. Livorno, per le scritte sui muri, è famosa. —

 

mercoledì 28 settembre 2022

La vergogna indicibile degli sconfitti


Cristiano de Majo, Debora Serracchiani e i giorni dell'abbandono del Pd, Rivista Studio, 27 settembre 2022

L’apparizione di Debora Serracchiani nella notte elettorale è stata come un sogno che hai già fatto. Perché è già successo che Debora Serracchiani fosse la prima a uscire dopo un exit poll o una proiezione nefasta, giusto? O forse no, ma è come se Debora Serracchiani fosse sempre stata lì, ad aspettare Masia che ti dà la notizia ferale e qualcun altro che le dice “non c’è nessuno, vai tu…”. La ritrosia nell’accettare la realtà, l’aggrapparsi ai risultati deludenti degli altri (stupendo quando dice «un risultato della Lega sul quale una riflessione dovrà essere fatta anche a destra»), questo look autunnale, introverso, punitivo, un po’ professoressa di liceo, un po’ lettrice della prima ora di Elena Ferrante (I giorni dell’abbandono), ci dicono del Pd, del suo stato di salute e del suo futuro, molto più di quanto non ci abbia detto la sua campagna elettorale, improntata invece a una specie di vitalità autoimposta, forzata. La difficoltà di “sentire” il Paese reale in questa specie di sottotesto costante che è l’elettore a sbagliare se non vota Pd («è un giorno triste per il Paese»), caratteristica postura del dirigente piddino, trova in Debora Serracchiani un esempio particolarmente riuscito. Quello che fa ancora più impressione è il pensiero che la fama della Serrachiani e la sua successiva carriera politica nascono proprio dalla critica ai gruppi dirigenti del Pd per eccessiva autoreferenzialità.
L’anno è il 2009, il luogo è un Assemblea dei circoli del partito successiva alla nomina di Dario Franceschini come segretario dopo le dimissioni di Veltroni per la sconfitta del 2009 (sconfitta che sembrò pesantissima, ma vengono i brividi a pensare che allora il Pd prese circa 13 milioni di voti, mentre il 25 settembre ne ha raccolti 5). Debora Serracchiani, trentanove anni molto ben portati, faccia pulita, frangetta e codino, giacca scamosciata, un’aria da ragazza anni ‘90, sale sul palco e prende la parola per un intervento che sarà interrotto da moltissimi applausi e commentato dalle facce che sembrano divertite e sbalordite di Dario Franceschini e di Goffredo Bettini, che la ascoltano in prima fila. Sono andato a rivederlo, quel discorso, dopo il faticoso cameo del 25 settembre notte, e devo dire che me lo ricordavo diverso. O forse quello che poi avevo conservato nella memoria era il ruolo che era stato attribuito a Debora Serracchiani, cioè quello di essere un po’ la rappresentante di un Pd giovane e arrembante ferocemente critico verso la casta che lo stava portando a sbattere. Una specie di seguito del famoso «con questi dirigenti non vinceremo mai» di Nanni Moretti (era il 2002, ci pensate?). E invece non proprio. Quello di Debora Serracchiani fu un discorso critico sì, ma in fondo affettuoso, certamente non distruttivo, per niente radicale. Era un discorso che in sostanza invocava unità e compattezza, in cui si invitava ad abbandonare il personalismo dei dirigenti, si criticava e un po’ si invidiava la strategia di Di Pietro, si censurava lo spazio lasciato alla componente di minoranza più cattolica e conservatrice. Ma era anche un discorso in cui si lisciava il pelo al neo segretario Franceschini: «Tu hai un compito difficile perché non sei un volto nuovo, però hai il compito di dare una credibilità a questo partito e ci stai riuscendo alla grande».
Così, subito diventata ex ribelle, Debora Serracchiani fa la sua carriera: europarlamentare “Franceschini candida l’Amelie del Pd”, titolava il Corriere), poi Presidente del Friuli-Venezia Giulia, poi vicepresidente del partito e altro ancora. Tredici anni dopo quella stessa casta, quella di Franceschini, Bettini, è ancora in piedi. Nessuno di loro la notte del 25 settembre appare in video. “Non c’è nessuno, vai tu…” E Debora Serracchiani si ritrova a commentare con difficoltà e senza alcuna autocritica una sconfitta inequivocabile. Una vendetta feroce o forse soltanto un contrappasso. Ma è una parabola che “spiega” il Pd meglio di molte analisi.

domenica 25 settembre 2022

La Russia sulla scena


 
 
Marco Di Giovanni, Il ritorno amaro da Samarkand e gli scricchiolii dell’Impero
 
Putin non è mai stato così isolato.
L’accelerazione improvvisa verso la mobilitazione e il richiamo degli uomini alle armi, che si mostrava necessaria e ci aspettavamo - sul piano militare – dalla fine di aprile, coincide ora con l’accelerazione del processo di annessione. La forzatura di un brutale plebiscito coatto che stenta a trovare riconoscimenti anche fra i “meglio disposti” fra gli attori internazionali, conferma anzi le perplessità di questi di fronte alla strategia del tiranno. A questo punto non solo in termini di credibilità strategica, efficacia e finalizzazione dell’”operazione militare speciale” ma, propriamente, di tenuta del sistema.
E’ strano raccogliere prevalentemente, nella lunga serie di commenti al discorso ufficiale e ai provvedimenti di mobilitazione di Putin, il solo nesso con la dinamica controffensiva dell’Ucraina, capace di recuperare una parte significativa di territorio e di minacciare in diversi settori l’equilibrio del fronte e la tenuta delle linee e dell’occupazione.
Certo non solo questo condiziona le ultime scelte della leadership russa e la stratificazione di segnali che queste sprigionano.
Almeno dalla metà di agosto ai confini dell’impero, in aree altamente sensibili alla presa del potere, l’agitazione è alta e i segnali dell’avvio di dinamiche nuove sono evidenti. I movimenti recenti tra Azerbaijan e Armenia sono forse il segnale più eloquente fra molti. Il drenaggio di risorse della guerra amplifica le carenze del sistema militare russo e compromette la credibilità della sua forza di controllo e di intervento anche nell’orto di casa. Nonostante una serie di iniziative di immagine, la Russia ha dovuto sottrarre risorse a molti settori e scacchieri e la sua capacità di proiezione esterna appare decisamente compromessa. Di più, è proprio la tenuta delle periferie, a questo punto anche interne, ad apparire agli occhi di interessati interlocutori come la Cina un problema, oltre che un’opportunità.
Sono i primi segnali delle linee di faglia lungo le quali può prodursi un collasso dalla imprevedibile portata destabilizzante.
Nel vuoto strategico in cui Putin si è infilato è questo il pericoloso rumore di fondo che l’autocrate ha raccolto presso i suoi perplessi e freddi interlocutori di Samarkand. Alla consapevolezza di una mancanza di visione, nella leadership russa, sulla via d’uscita da perseguire, alla luce di una sostanziosa impotenza militare, si è affiancata palese la preoccupazione per il vuoto che in molte aree si sta creando. Recuperare un qualche supporto esterno significa, per Putin, dover dimostrare di poter riprendere in mano il filo e il controllo della situazione.
Solo a partire da qui si può cogliere tutta la profondità che sta dietro la scelta dei tempi, nei “plebisciti”, e nella tardiva e sia pure “impacciata” mobilitazione: un rischio politico evidente quest’ultima, avvertito nella sua portata e assunto come penultima ratio.
I referendum fissano i paletti – forse disperati ma proposti come rigidi – del “successo” da mantenere e il passo integra in maniera sostanzialmente esplicita la “legittimazione” e la minaccia della scimitarra atomica (uno strumento di “de-escalation” devastante nella dottrina sovietica/russa): siamo determinati ad arrivare fino in fondo. Ma queste sono anche le basi - nella visione di Putin - di quel percorso di “consolidamento” della guerra che certi interlocutori chiedono per mantenere la loro benevolenza.
La mobilitazione corrisponde allora all’altra faccia della garanzia di uno sbocco putiniano del percorso, che crei le condizioni non solo sul campo di battaglia ucraino ma in primo luogo nello scenario dell’impero, di una mobilitazione, politica ma anche materialmente presidiaria, del territorio. I nuovi coscritti saranno per un tempo consistente inadatti ad affrontare con funzioni chiave scenari di combattimento in Ucraina, ma rappresentano l’indispensabile allungamento della coperta presidiaria – sia pure con armi desuete - che gli scricchiolii impongono e che i perplessi “alleati” sostanzialmente richiedono. L’intimidazione atomica è il complemento putiniano per sigillare la non negoziabilità del successo, pur a fronte dei costi politici della mobilitazione imposta.
La dissociazione – urbana e borghese diremmo – che emerge in queste ore di fuga, alberga da tempo fra i timori profondi della leadership putiniana, consapevole dei compromessi su cui ha organizzato la miscela di benefici selettivi, sottomissione passiva, controllo dell’informazione e violenza repressiva del suo potere. Si conterrà se una stabilizzazione militare si accompagnerà al cemento di uno spirito di crociata che può germinare dal tessuto della Russia profonda fanatizzato dal peso di una minaccia configurata come assoluta. Ogni provocazione potrà aiutare a generarne il fantasma ma la crociata è comunque indispensabile per affrontare il difficilissimo futuro dell’economia russa e il rarefarsi delle risorse.
A questo punto allora, il passo tanto a lungo allontanato da Putin è compiuto e la guerra entrerà nelle case dei russi e risuonerà attraverso l’intera estensione degli spazi dell’impero.
La strada è lunga ma d’ora in avanti non sarà solo all’Ucraina che dovremo guardare.

venerdì 23 settembre 2022

Il nuovo Maigret

Mariolina Bertini Facebook Il film di Patrice Leconte con Depardieu nel ruolo di Maigret è qualcosa di molto diverso da un "adattamento" di "Maigret e la giovane morta". Lo spunto iniziale di "Maigret e la giovane morta" deve aver affascinato Leconte: sul pavé di una piazzetta viene ritrovato il cadavere di una ragazza in abito da sera, di cui nessuno sembra sapere niente. Per Maigret il viso infantile di quella sconosciuta e il mistero della sua fantasmatica esistenza diventano quasi un'ossessione, anche perché nella Parigi dei primi anni '50 - quelli in cui è scritto e ambientato il romanzo - le ragazze di provincia come lei, sprovvedute, indifese e spesso destinate a fare una brutta fine, sono un'infinità . Leconte fa di questa ossessione di Maigret - affettiva e sociologica insieme - il centro del suo film; poi cambia completamente la vicenda poliziesca che le fa da contorno, rendendola più sordida e più credibile della vicenda originale, che comportava un rocambolesco intervento della malavita organizzata. Il film è ambientato in una Parigi così cupa e buia, ha interni così affollati di oggetti anni '30 e '40, da evocare più l'epoca dell'Occupazione che non il 1954 (anno di uscita del romanzo). E in effetti all'Occupazione Leconte introduce un'allusione assente da "Maigret e la giovane morta". Sulle tracce di un indirizzo trovato nella borsetta della ragazza uccisa, il commissario va ad incontrare un antiquario ebreo, proveniente da Vilnius, che deve aver perso tutta la famiglia nella shoah e confonde il passato con il presente, sovrapponendo una ragazza scomparsa durante la guerra (come la Dora Bruder di Modiano) a quella di cui Maigret sta cercando di ricostruire la storia. Ininfluente nell'intreccio del film, questo personaggio non ha altra funzione se non quella di ricordarci che l'incubo dell'occupazione continua segretamente a pesare sulla Parigi, apparentemente immemore, dei primi anni Cinquanta. La bella recensione del blog "Sentieri selvaggi" dice che questo "Maigret "sembra in bianco e nero anche se è a colori" , ed è proprio così: un bianco e nero intriso di una disperazione senza uscita. Non è certo un caso se in passato Leconte ha portato sullo schermo "Il fidanzamento di Monsieur Hire", uno dei racconti più cupamente depressivi di tutta l'opera di Simenon. Qui sembra proprio essersi posto l'obiettivo di depurare di ogni macchiettismo, di ogni colore locale, di ogni bonarietà il mondo di Maigret, quasi a trapiantare il famoso commissario nell'universo dei più tragici romanzi "duri" del suo creatore. Ce lo suggerisce una scena del film, anche questa volta senza rapporto con il romanzo. Seguendo le tracce di un'amica della ragazza uccisa, Maigret va sul set cinematografico dove quest'amica, un'attricetta, lavora. Da una finta finestra del set , il commissario guarda divertito un fondale che rappresenta la chiesa del Sacré Coeur. E il suo sguardo ci dice che la Parigi cara ai turisti, e anche a molti lettori dei romanzi di Maigret, altro non è che uno scenario come quello, seducente, perfetto, incantevole, ma privo di ogni rapporto con la realtà.

mercoledì 14 settembre 2022

Lo stile di una regina

Arianna Di Genova, La fiabesca palette della sovrana è anche impressionista, il manifesto, 13 settembre 2022 L’iconica presenza mediatica e fisica (gadget compresi) della regina d’Inghilterra è stata sempre avvolta da un doppio effetto, una specie di photoshop antelitteram. Flou e sgargiante, con tocchi di iperrealismo pittorico, per sette decadi. I colori – e ovviamente le fogge dei cappellini abbinati, pare ne conservi più di cinquemila, riposti religiosamente negli armadi di Buckingham Palace e delle sue residenze – hanno efficacemente contrastato la monotonia dei tailleur severi della sovrana, tendenti a cancellare un corpo femminile (di certo intessuto anche di emozioni e desideri) per creare un’idea astratta di potere, spogliato di genere sessuale. Così, a Elisabetta II non restava che giocare con la stravaganza cromatica. FRA I MOTIVI PRINCIPALI del suo stile eccentrico, imbevuto di tutti i toni dell’arcobaleno e con una gamma di sfumature pastello – dall’azzurro polvere al verde acido fino al lilla dei ciclamini o al giallo limone – c’era senz’altro la sua immediata riconoscibilità: gli abiti fungevano, quasi fossero spie accese, da segnaletica di controllo, per i suoi sudditi e per le body-guard. Ma una ragione così pratica e banale non può chiudere in un cassetto ogni variazione di quella «coloreria» ambulante che è stata la sovrana. In un seppur remoto angolo della sua mente, l’imponente collezione d’arte reale – 7000 dipinti e circa 40mila acquerelli (passione fra l’altro condivisa da Filippo e Carlo, padre e figlio si sono sempre cimentati in pittura) oltre a ceramiche, oreficerie, arazzi, libri antichi, per un totale di un milione di oggetti – qualcosa avrà pur suggerito alla sua «gallerista» designata. Non sembra che la queen avesse una sentimentale propensione verso le arti visuali, eppure già attraverso i ritratti di personalità come Warhol, Lucien Freud e Gerhard Richter ha potuto regnare non solo sui possedimenti coloniali dell’impero britannico ma sull’immaginario, rendendo simulacro puro un’identità che invece è più che politica. DIETRO IL RAINBOW del suo guardaroba, c’è senz’altro il Settecento inglese di Thomas Gainsborough (peraltro ritrattista della royal family) con gli abiti vaporosi delle principesse e poi ci sono le evanescenze impressioniste – sua madre prediligeva Sisley e Monet – che sfilano nelle sue apparizioni pubbliche, riconferendo alla persona in carne e ossa una specie di status totemico, confinante più col fiabesco che con la quotidianità burbera. In mezzo ai colori pastellati, l’unico deciso protagonista di una rigorosa imponenza che rovesciava il flou, è stato il viola. ELISABETTA I ne proibì l’uso alla gente comune, addirittura emanando speciali provvedimenti (Sumptuary Laws). La tinta doveva testimoniare lo stato elevato nella gerarchia sociale e segnalare i sovrani: solo a loro e ai parenti prossimi era permesso di indossare vestiti in «purple». Che quel pigmento se lo potessero permettere solo i ricchi è una storia che viene da lontano, fin dall’epoca dei Fenici e della città di Tiro (oggi nell’odierno Libano), dato che ci volevano circa 12mila molluschi di un murice medio per estrarre poco più di un grammo di tintura. La procedura lo rendeva così preziosissimo. Almeno fino al 1800 quando un chimico – tal Henry Perkin – riuscì a creare un colore sintetico, maneggiando alcuni farmaci anti malaria. Nonostante tutto, quel viola resta ancora nel XXI secolo la nuance favorita dai componenti della famiglia coronata d’Inghilterra nelle grandi occasioni. Kate l’ha sfoggiata più volte, ma anche la reietta Megan se l’è potuta permettere.

domenica 11 settembre 2022

L'Ucraina guadagna terreno

Lorenzo Cremonesi, Quegli errori del Cremlino che credeva di vincere facile, Corriere della Sera, 11 settembre 2022 Un esercito impreparato, le difficoltà di Mosca nascono da lontano. Un esercito impreparato, armato male, rigido e obsoleto nelle strategie, illuso dalla propaganda imposta col terrore e la censura da Vladimir Putin e dalla paura dei suoi generali a contraddirla: in ultima analisi un esercito destinato al fallimento. Questo si è rivelato il corpo di spedizione che il 24 febbraio s’imbarcò nell’«operazione speciale» voluta dal presidente russo all’insegna dell’assurdo quanto irreale slogan della «denazificazione» dell’Ucraina. Gli esperti del Pentagono cominciarono a parlare delle difficoltà russe attorno a Kiev già a fine febbraio. Noi giornalisti sul terreno, come del resto analisti e commentatori di tutto il mondo, le prendemmo inizialmente come le classiche esagerazioni della propaganda, quasi volgari nelle loro ripetizioni di cliché classici della disinformazione di guerra. E in Europa occidentale erano numerosi coloro che magnificavano la «superiorità irresistibile» del «secondo esercito del mondo», criticando Volodymyr Zelensky per la sua «assurda e fallimentare» ostinazione a resistere, che tanti «lutti inutili» avrebbe portato al suo popolo. Eppure, fu sufficiente parlare a inizio marzo con i civili ucraini sfollati da Bucha, Hostomel, Irpin e le altre zone occupate per comprendere che qualche cosa di importante non stava funzionando nella macchina militare di Putin. «Come si comportano i soldati russi con voi?», chiedevamo a donne, anziani e bambini. «Non ci hanno quasi considerati. Entrati in casa si sono precipitati in cucina a mangiare tutto il cibo che trovavano, si prendono vestiti caldi e coperte, rubano la benzina dai serbatoi», rispondevano di continuo. Ma come era possibile? Solo a pochi giorni dall’inizio dell’attacco i soldati erano già così malridotti? Bande di affamati con le uniformi troppo leggere per i quasi meno venti gradi delle notti invernali? Sembrava irreale, ma non lo era. Semplicemente era stato sconfitto in un bagno di sangue il blitz delle teste di cuoio ordito dal Cremlino per atterrare su Kiev, eliminare in poche ore Zelensky per insediare un governo fantoccio. L’intelligence Usa aveva fornito ai comandi di Kiev le coordinate del piano russo e le loro squadre speciali, agili ed equipaggiate di missili terra-aria e sistemi di comunicazione satellitari di ultima generazione, avevano compiuto il miracolo. Il fallimento russo si palesa dunque già a metà marzo. Da allora lo stato maggiore di Putin arranca, cerca di modificare i piani iniziali. A fine marzo le colonne blindate lasciano Kiev per concentrarsi sul Donbass. Adesso il teatro è loro favorevole, fanno terra bruciata concentrando migliaia di cannoni e lanciarazzi. Aprile li vede avanzare, a metà maggio vincono gli ultimi nidi di resistenza a Mariupol. Putin rialza la testa. Ma è solo un’illusione di vittoria. Già a luglio la sua avanzata nel Lugansk si ferma. Questa volta sono le armi americane a fare la differenza. Sono sufficienti una ventina di lanciamissili Himars per avere ragione di migliaia di cannoni russi. Nei prossimi anni sui mercati delle armi in tutto il mondo faranno da padrone i droni turchi Bayraktar, utilizzati magistralmente dagli ucraini, assieme agli Himars e probabilmente ai missili ucraini Neptune, che ad aprile affondarono l’ammiraglia Moskva nel Mar Nero. Quasi certamente le azioni delle armi russe subiranno invece un tracollo. E, come ha notato tre giorni fa anche il direttore della Cia, William Burns, in meno di sette mesi Putin si è bruciato l’immagine di leader di una grande superpotenza tanto attentamente coltivata tra Siria, Libia e Africa nell’ultimo ventennio. La perdita di Izyum pregiudica adesso l’intero assetto militare russo nel Donbass e potrebbe presto aprire la via al ritiro da Kherson. Qui la situazione è già pregiudicata grazie anche all’attività della guerriglia ucraina che ha spinto Mosca a rinviare il referendum sull’annessione previsto per l’11 settembre. Gli ucraini si dimostrano in grado di operare contemporaneamente su più fronti: i rovesci russi paiono destinati a continuare. https://www.nytimes.com/live/2022/09/10/world/ukraine-russia-war

sabato 10 settembre 2022

La bellezza salverà il mondo

Fedor Dostoevskij, “L’idiota”, 1869, traduzione di Rinaldo Küfferle, Mursia, Milano 1995 «È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza? Signori miei,» gridò egli improvvisamente, rivolgendosi a tutti, «il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza! Ed io, invece, affermo che ha di questi pensieri frivoli perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato, me ne sono convinto definitivamente non appena lo vidi entrare qui or ora. Non arrossite, principe, altrimenti mi farete pietà. Quale bellezza salverà il mondo? Me lo comunicò Kolja… Siete un cristiano fervente voi? Kolja dice che voi stesso vi attribuite il titolo di cristiano». Il principe, che lo osservava attentamente, non rispose. Giuseppe Di Giacomo, Bellezza, Treccani "già F.M. Dostoevskij, nell'Idiota (1868-69), facendo chiedere da Ippolit al principe Myškin se e quale bellezza salverà il mondo, ci dice che quello che la bellezza può e deve fare non è redimere la vita dalla sua finitezza, ma passare attraverso quelle sofferenze e quei dolori che rendono tale la vita. Questa connessione tra bellezza e temporalità è decisiva anche nell'opera di M. Proust. Esemplare, a tale proposito, è la figura dello scrittore Bergotte che muore davanti alla Veduta di Delft di J. Vermeer, quadro giudicato di una bellezza assoluta e come tale fuori dal tempo. La morte di Bergotte rappresenta in qualche modo la morte di un'idea di bellezza intesa come valore eterno e immutabile. Questo significa che la bellezza, piuttosto che essere superamento del tempo e rivelazione dell'eternità, si può dare invece solo passando attraverso il tempo".

lunedì 5 settembre 2022

Elogio della politica

Quando la politica era degna di ammirazione ..."di rado un popolo ebbe a capo della cosa pubblica un'eletta di uomini come quelli della vecchia Destra italiana, da considerare a buon diritto esemplari per la purezza del loro amore di patria che era amore della virtù, per la serietà e dignità del loro abito di vita, per l'interezza del loro disinteresse, per il vigore dell'animo e della mente, per la disciplina religiosa che s'erano dati da giovani e che serbarono costante: il Ricasoli, il Lamarmora, il Lanza, il Sella, il Minghetti, lo Spaventa e gli altri di loro minori ma da loro non discordi, componenti di un'aristocrazia spiriruale, galantuomini e gentiluomini di piena lealtà. Gli atti loro, le parole che ci hanno lasciate scritte, sono fonti perenne di educazione morale e civile, e ci ammoniscono e ci fanno a volte arrossire ...[Carducci] come poeta, se vi avesse rivolto il pensiero e l'affetto, forse si sarebbe preso di umana ammirazione per quel "vinattiere di Stradella" [Depretis], per quel vecchio settantenne, che, in tenore di vita modestissimo e quasi povero, tutto il vigore del corpo e dell'ingegno, per oltre quarant'anni, consumò nella passione del pubblico governo" ...il quotidiano [socialista] 'Avanti!', sorto nel 1896 e diretto dal Bissolati, gareggiava coi maggiori degli altri partiti, e a volte li superava nella gravità delle idee che veniva propugnando e proponendo alla discussione. ...[Giolitti] uomo di molta accortezza e di grande sapienza parlamentare, come è incontrastato giudizio, ma non meno di seria devozione alla patria, di vigoroso sentimento dello stato, di profonda perizia amministrativa" Benedetto Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915

domenica 4 settembre 2022

Proust e Berenson, un parallelismo

Annamaria Ducci, Proust-Berenson. La convergenza divinatoria, il manifesto Alias, 4 settembre 2022 Nel volume uscito per Officina Libraria Come la bestia e il cacciatore Proust e l’arte dei conoscitori (pp. 152, euro 18,00), lo storico dell’arte Mauro Minardi affronta la relazione tra Bernard Berenson e Marcel Proust descrivendola nei termini di un inseguimento reciproco, affidando ora all’uno ora all’altro i ruoli di preda e cacciatore. L’immagine venatoria non è scelta a caso, anzi. Essa rimanda a quel ‘paradigma indiziario’ che Carlo Ginzburg proponeva nel celebre saggio ancora oggi densissimo di suggestioni, in cui si avvicinava il metodo del conoscitore a quello del medico e dell’investigatore, scorgendone le radici proprio nell’attività dei primi uomini cacciatori. Minardi imposta la sua lettura dei due autori attorno alla adozione di quel preciso schema interpretativo della realtà, fondato su uno straordinario «potere di analisi di dettagli e tracce volatili, tradotti grazie a fulminee associazioni in schegge di verità»: capacità d’osservazione, in primo luogo, ma anche esercizio dell’analogia e infine ricorso alla intuizione. Metodo che è esattamente quello del connoisseur così come delineato da Berenson nel 1923: «Come nella caccia, prima di tutto si tratta di seguire le orme della volpe fino alla sua tana. Giunti a cotesto punto la partita diventa facile e basta seguire il fiuto». Vista acuta e odorato fino, dunque. Anche il giovane Proust riprenderà l’esaltazione del più ancestrale dei sensi: «il desiderio ha un istinto come quello del cane, che gli fa subito annusare l’odore del desiderio per quanto sia ben celato a chiunque altro» (Jean Santeuil). Ginzburg terminava il suo saggio affermando che la Recherche fosse costruita «secondo un rigoroso paradigma indiziario». Da qui riparte Minardi, verificando l’assunto attraverso la relazione speculare con il critico americano, nell’intenzione dichiarata di «gettare un ponte» tra letteratura e storia dell’arte. Anche per questo nel saggio la ricchezza delle informazioni viene come diluita nella levità di un racconto, le due biografie sono colorate di citazioni letterarie e di presenze fissate nei ritratti raffinati di James Tissot e di Boldini. È nell’ambiente della «Gazette des beaux-arts», di Salomon Reinach e di Charles Ephrussi (chi non ne ricorda il vivido ritratto nel bellissimo Un’eredità di avorio e di ambra di Edmund de Waal?) che Proust viene a conoscenza degli scritti di Berenson. Ne parla per la prima volta in una lettera del 1906, confessando il desiderio di incontrarlo, ma commentando in termini non proprio felici quella «conoscenza delle pitture che è tipica dell’antiquario e del mercante di pulci (…) che non implica alcuna competenza in merito alle qualità estetiche propriamente dette». Una affermazione in cui risuona la raffinata cultura inglese del tempo su cui il letterato si era formato, Ruskin, ma diremmo anche James Whistler, per il quale gli esperti avevano «ridotto l’Arte alla statistica» (Ten o’ clock, 1885, testo che Mallarmé tradusse in francese tre anni dopo). È in questo ambiente che prende forma la figura di Swann, amateur e collezionista, appassionato di Vermeer, ma anche quella, complementare, di Bergotte, pronto a dare la vita per rivedere la «piccola ala di muro giallo» della Veduta di Delft, per scorgervi «una bellezza che sarebbe bastata a se stessa». Questo Proust meno mondano e più spirituale, sarà quello che affascinerà Berenson, divenendo per lui, spiega Minardi, «lo specchio dorato ove egli riflette la propria sensibilità». L’incontro, folgorante per ambedue, avvenne solo nel 1918, per il tramite di Robert de Montesquiou. Berenson, di sei anni più grande, aveva intrapreso già dal 1894 un cambio di rotta che sarebbe stato cruciale per il corso futuro della connoisseurship, quella revisione del metodo scientifico di Giovanni Morelli in cui l’americano avvertiva il rischio di una chirurgica dissezione dell’opera d’arte. La monografia su Lorenzo Lotto fu l’occasione per elaborare una scienza dell’arte più ampia e più profonda, «costruttiva», il cui cardine era la ricostruzione della «personalità» attraverso la ricerca della «qualità», addirittura del «je ne sais quoi». Berenson restituiva umanità agli artisti, ammettendone le naturali «oscillazioni», e così facendo svelava la vacuità di un metodo – quello morelliano – che aveva per presupposto l’esistenza di Grundformen come cifre costanti di un maestro. Una revisione metodologica, quella dell’americano, che abbandonando la fede cieca (sia concesso il gioco di parole) nel senso della vista si fletteva anche verso l’intuizione, verso il fiuto. Così leggiamo infatti nei Florentine Painters (1897): «Il senso della qualità è indubbiamente il requisito per eccellenza di chi voglia divenire intenditore (…) ma appartiene ad altra regione che non sia quella della scienza (…) non rientra insomma, nella categoria delle cose dimostrabili». Berenson e Proust si muovevano nella stessa direzione, ovvero la revisione critica dell’estetica di impianto positivista. Berenson si era formato alle letture di Walter Pater (da lui, più che da Burckhardt, aveva tratto l’idea del Rinascimento come acmé dell’arte occidentale), al senso della forma di Adolf von Hildebrand, ma su tutti aveva contato il ‘pensiero aforistico’ di Friedrich Nietzsche, la cui idea di «intensificazione di vita» giocò un ruolo essenziale nell’elaborazione della nozione – energetica e vitalista – di «valori tattili». Proust si nutriva certo dello spiritualismo di Bergson, vibravano in lui il Ruskin della Bibbia di Amiens (che lui stesso aveva reso in francese), ma anche le letture allegoriche, iniziatiche quasi, di Émile Mâle, che gli svelavano il sens caché delle cattedrali. Se nel 1908 ciò lo condurrà a stilare un feroce pamphlet contro il determinismo letterario (Contre Sainte-Beuve), nel Tempo ritrovato si giungerà a screditare le «idee formate dall’intelligenza pura», per esaltare invece «l’impressione» come «criterio di verità». Tuttavia non sarebbe esatto circoscrivere la figura stessa di Morelli entro i soli recinti di un paradigma epistemologico scientista. Il suo pensiero, proprio in quanto pervaso dall’idea del frammento rivelatore (tratta principalmente dall’anatomia comparata di Georges Cuvier), presuppone che l’opera d’arte sia un organismo vivente. Questo è tanto più vero per i ritratti, genere infatti ricercatissimo sul mercato antiquario di fine Ottocento. Piace qui ricordare un episodio narrato da Morelli in riferimento al Ritratto femminile della Galleria Borghese oggi attribuito a Bernardino Licinio: «Un giorno però, che innanzi al misterioso quadro io stava rapito a interrogarlo, il mio spirito incontrò quello dell’artista, che da quei tratti femminili guardava fuori, ed ecco in quel reciproco contatto accendersi improvvisamente una scintilla, ed io ad esclamare con gioia: ‘Sei proprio tu, amico Giorgione’ e il quadro a rispondere: ‘Si, sono io…’». Non solo l’attribuzione come atto di divinazione, ma anche come esigenza interna all’opera d’arte, perché è il dipinto stesso che, per vivere, domanda che gli venga assegnata una paternità: nel 1926 Berenson intitolerà un suo saggio, omaggiando Pirandello, Nine Pictures in Search of an Attribution. È quindi necessario che il critico possieda non solo un occhio, ma una sensibilità non comune, attraverso cui saper interpretare le ‘spie’ lasciate sulla tela dall’artista. Ciò si ammanta talvolta di un rituale che ha molto a che fare con la chiaroveggenza. Kenneth Clark ha tramandato l’immagine del Berenson che toccava i dipinti con leggeri colpetti, aspettando un ‘segno’ che gli rivelasse il nome dell’autore. Gesto che oggi giustamente Minardi mette in rapporto con la pratica divinatoria della Signora Fontaine nel balzachiano Cugino Pons (1847): costei, per predire il futuro, dette «un colpetto con un lungo ferro da calza sul dorso del rospo, che la guardò con un’espressione intelligente», e poi un altro sul becco di «madamigella Cleopatra», la vecchia gallina. Ispirandosi proprio a Honoré de Balzac, anche Proust disseminerà il suo romanzo di personaggi dotati di una analoga forma di conoscenza alternativa alla ferrea logica del ragionamento scientifico, basata invece sull’intuito istintivo. Partendo da Berenson e Proust, Minardi rimonta a un Ottocento fecondo, in cui il carattere stesso di scienza si allarga al campo dell’irrazionale. Ne sono esempi la fisiognomica e la chiromanzia, scienze (o arti) dell’osservazione e della deduzione: così presenti nella Comédie humaine, le mani diverranno protagoniste nelle inchieste dei connoisseurs, e per Proust saranno gli «eloquenti strumenti dell’espressività umana». Ma nell’opera balzachiana vibra ancora l’immagine del piccolo piede che fugacemente apparve nella tela appena scoperta del Capolavoro sconosciuto (1837). Frammento, unico relitto vivente, reale, in quella muraille de peinture informe, invisibile ai nostri occhi, ma non a quelli del pittore Frenhofer.

venerdì 2 settembre 2022

La cattiva fortuna di Gorbaciov

Giuliano Ferrara, Michail Gorbaciov, il liberatore più odiato, Il Foglio, 1 settembre 2022 Ci vorranno biblioteche intere di storiografia, trattati poderosi di antropologia politica, corpose analisi freudiane e junghiane ispirate alla curiosità per il sottofondo della mente umana e per gli archetipi dell’anima, ci vorranno inchieste letterarie direttamente derivate dalla pietas latina e dall’epica greca per spiegare l’inspiegabile: il disamore, perfino l’odio dei russi per Michail Gorbaciov. Garibaldi, il più disordinato e inconsapevole creatore dell’italia unita, un confusionario d’impeto in camicia rossa, è onorato in ogni piccola comunità, eccetto che da minoranze borboniche. Napoleone Bonaparte riposa agli Invalides ed è celebrato come perenne homme fatal del destino francese malgrado i lutti e le ondate di guerra che scombussolarono Francia ed Europa. I monumenti a Churchill sono sverniciati dagli adepti settari della cancel culture, ma solo perché la sua memoria popolare torreggia con i suoi sigari e i suoi bicchieri di whisky di unico e inflessibile avversario di Adolf Hitler. Lincoln se ne sta seduto nel suo marmo candido e guarda Washington con la crudele benevolenza del discorso di Gettysburg che chiuse la sanguinosa guerra civile. Gandhi è il nome chiave dell’India moderna e della sua retorica, nonostante i grandi cambiamenti nei decenni. Ci sono cose in cui i grandi creatori di storia hanno fallito, altre in cui sono riusciti, prezzi immensi che hanno fatto pagare a popoli e nazioni, ci sono i loro difetti, lo spirito tirannico, gli errori belluini, le conseguenze inattese, e contano alla fine i risultati finali che si chiamano libertà, indipendenza, unità e visione di una vita migliore per l’ispirazione delle generazioni. I russi disamorati di Gorbaciov vivevano prima di lui nel sottomondo ossessivo descritto da Grossman in “Vita e destino”. Perfino nell’epopea vittoriosa della guerra patriottica contro l’invasore nazista, seguita a tutti gli equivoci di una iniziale collaborazione fra i totalitarismi, il loro stigma era la sottomissione, la delazione, la purga del dissenso, la confessione falsa, l’inimicizia obliqua in una boscaglia sociale disadattata alla vita libera, il dubbio esistenziale sistematico, la corruzione fino al cuore dell’amore e della famiglia e dell’amicizia, la tortura, il Gulag, una sequela di miti tirannici e imperiali che veniva dal tempo lontano degli zar, per non dire delle invasioni mongole, e si era riprodotta dopo secoli, eguale e piatta, con la rivoluzione dei bolscevichi e con i suoi esiti sovietici. Prima di Gorbaciov c’era la corsa agli armamenti, c’era un orgoglio nazionale di cartapesta, c’erano la guerra e la Guerra fredda, la chiusura delle frontiere, l’oppressione costosa e vile di mezza Europa, un’eguaglianza livellatrice e forzata che sapeva di miseria e di azzeramento della libertà di consumo e di movimento per tutti, salvo per le oligarchie degli apparati e del partito unico, c’era la cultura ufficiale derelitta, l’uso partitico delle idee, l’arte di regime, la funzione esornativa degli intellettuali sfuggiti all’eccidio staliniano, c’era la censura, mancavano la libertà di espressione, di associazione, di proprietà di se stessi e della propria vita individuale. L’Unione Sovietica, come aveva capito Yuri Andropov, capo del Kgb, potente occhio assoluto sulla storia sovietica e bolscevica, sulla società russa e delle repubbliche federate, sugli usi e costumi del popolo e sui suoi bisogni, era diventata un caos decadente travestito da stabilità, un sistema senza responsabilità e libertà che non reggeva più il confronto con l’occidente europeo e americano, che non produceva energia né slancio alcuno, una eterna notte di morti viventi. Fu Andropov a indicare Gorbaciov, russo caucasico di cinquantaquattro anni, la mascotte del Politburo, uno dell’apparato e non un campione dell’inesistente società civile, come unico successore all’altezza della tragedia. E in sei anni di destino Gorbaciov attuò l’unico programma possibile: distruggere tutto con le parole d’ordine della riforma e della libertà. Diede ai popoli dell’urss la fine della galera in cui erano rinchiusi, li fece evadere, li mise di fronte alle loro responsabilità verso se stessi e il mondo, accettò unificazione tedesca e caduta del Muro di Berlino, non mosse un dito contro la ritrovata indipendenza dell’europa centrale e orientale e dei Baltici e dell’ucraina e della Bielorussia e degli stan asiatici, tutte nazioni forzate a un’unione produttiva solo di un falso onore politico, di un falso primato mondiale, un mondo disseminato di piccole spie e di polizie politiche arcigne, il mondo dei commissari Gletkin, del buio a mezzogiorno, di un esercito impantanato come tutti prima e dopo di esso nel tragico Afghanistan. Altro che Pizza Hut, dialogo internazionale antiatomico, indizi di economia di mercato, fu la resurrezione miracolosa di un fantasma inaudito per i russi, la libertà civile, la fine dell’autoritarismo centralizzato, la liberazione dei Sacharov, la riabilitazione dei Solgenitsin, l’uscita dal carcere di centinaia di migliaia di prigionieri politici, un tentativo di restituire alla propria autonomia le istituzioni della società, della cultura, i giornali, le tv, i libri usciti dall’indice dei proibiti. E tutto questo in nome di una possibile creazione di una classe media e di una mobilità sociale fondata su investimenti e lavoro, su proprietà individuale ed economia di sviluppo, consumi e avanzamento tecnico e scientifico. Il meccanismo era divoratore, non si poteva riformare l’irriformabile, Gorbaciov fu inghiottito dall’ala conservatrice e dall’ala radicale, che la ebbe vinta infine, come prevedibile, sulle sue incertezze, e vorrei vedere, e alla fine se lo mangiò in un sol boccone con la dissoluzione dell’Unione sovietica da lui promossa consapevolmente anche se non voluta o prefigurata, a parte le conseguenze inattese di un’opera di destabilizzazione travolgente del male organizzato. Le cose poi sono andate nel peggiore dei modi, come sempre quando sono i radicali a mettersi la storia sulle spalle, e ne è venuta la peggiore restaurazione possibile. Che ha fomentato ed è stata fomentata da questo incomprensibile o fin troppo comprensibile disamore, da questo odio per l’uomo che aveva liberato i popoli sovietici dalla cortina di ferro che li divideva dal mondo libero, e aveva restituito loro dignità e onore.

giovedì 1 settembre 2022

Gorbaciov, uomo del destino

Anna Zafesova C'è qualcosa di simbolico nel fatto che Mikhail Gorbaciov sia morto proprio mentre la Russia emersa da quell'impero sovietico che lui aveva cercato di salvare pacificamente stia naufragando nel sangue e nella vergogna. Chi lo ha frequentato negli ultimi mesi diceva che a 91 anni restava lucido e sapeva della guerra. Era quello l'incubo al quale aveva sacrificato la sua carriera, accettando a soli 60 anni di diventare un pensionato, dopo essere stato uno degli uomini più potenti e popolari al mondo. Per lui, come per Vladimir Putin, la fine dell'Unione Sovietica era la tragedia più grande del '900, ma a differenza dell'attuale leader russo il primo e ultimo presidente sovietico aveva scelto la pace come priorità della sua missione politica e umana, e probabilmente non ci poteva essere per lui una punizione peggiore che morire sapendo che il suo Paese stava bombardando l'Ucraina, il Paese dal quale veniva sua madre e del quale cantava con una bella voce intonata le canzoni popolari quando era di buon umore. Mikhail Sergeevich Gorbaciov - figlio di contadini arrestati da Stalin, studente moscovita idealista nel disgelo di Krusciov, funzionario del comunismo brezhneviano, il demolitore del Muro di Berlino, il Nobel per la pace premiato per il disarmo nucleare - è morto nel momento in cui la storia russa ha compiuto una giravolta a 180 gradi, e tutto (o quasi) quello che lui aveva conquistato o costruito è stato distrutto e rinnegato. Era entrato nella Storia già trent'anni prima di morire, eppure è morto sconfitto. Se la Russia di Putin è arrivata a pensare che la perestroika gorbacioviana fosse stata un tragico errore, e si è posta come obiettivo quello di tentare di riportare l'orologio della storia al 1984, è colpa probabilmente anche dell'idealismo di Mikhail Sergeevich. Politico di magistrale bravura nella retorica e nell'intrigo, era però anche uomo di compromessi e mezze misure, che aveva sottovalutato il pericolo dei conservatori comunisti che cercava di tenere a bada mentre aveva sopravvalutato la lealtà dei suoi alleati riformisti. Aveva cambiato il mondo alla cieca, quasi d'istinto, mosso spesso più da un senso morale che da una consapevolezza chiara: era un uomo sovietico, che era arrivato a tastoni alla necessità di distruggere il sistema in cui era nato, ma senza riuscire ad accettarlo. Non l'avrebbe mai ammesso, ma era un rivoluzionario: nel modo in cui sceglieva la libertà, nel modo in cui aborriva la violenza anche quando vi rimaneva immischiato, ma anche nel modo in cui aveva portato nel mondo anaffettivo del Cremlino l'amore dichiarato per la sua Raissa. Aveva liberato dal Gulag i dissidenti. Aveva dato la libertà di parlare e creare agli intellettuali. Aveva fatto finire la guerra fredda, firmando con un presidente americano anticomunista come Ronald Reagan accordi sul disarmo nucleare che oggi sembrano appartenere a un mondo che abbiamo soltanto sognato. Aveva lasciato andare i Paesi dell'Europa dell'Est, accettando che gli ex satelliti sovietici tornassero in Europa, un "crimine" che gli ispiratori del putinismo ancora non riescono a perdonargli. Aveva portato a Mosca quello che nessuno aveva mai visto: un politico che sorrideva, discuteva, che andava tra la gente e parlava a braccio. Un politico che sbagliava e ammetteva i suoi errori. Un leader che sapeva chiedere scusa e chinare il capo. Un potente che aveva invocato la fine di un mondo governato dalla forza. Uno statista che si era inserito da pari in un mondo di grandi leader occidentali, e che è stato amato all'estero proprio per la qualità che più è stata odiata in patria: il rifiuto della violenza, la visione che il potere politico si conquista e si negozia e non si impone.