Cristiano de Majo, Debora Serracchiani e i giorni dell'abbandono del Pd, Rivista Studio, 27 settembre 2022
L’apparizione di Debora Serracchiani nella notte elettorale è stata
come un sogno che hai già fatto. Perché è già successo che Debora
Serracchiani fosse la prima a uscire dopo un exit poll o una proiezione
nefasta, giusto? O forse no, ma è come se Debora Serracchiani fosse
sempre stata lì, ad aspettare Masia che ti dà la notizia ferale e
qualcun altro che le dice “non c’è nessuno, vai tu…”. La ritrosia
nell’accettare la realtà, l’aggrapparsi ai risultati deludenti degli
altri (stupendo quando dice «un risultato della Lega sul quale una
riflessione dovrà essere fatta anche a destra»), questo look autunnale,
introverso, punitivo, un po’ professoressa di liceo, un po’ lettrice
della prima ora di Elena Ferrante (I giorni dell’abbandono),
ci dicono del Pd, del suo stato di salute e del suo futuro, molto più
di quanto non ci abbia detto la sua campagna elettorale, improntata
invece a una specie di vitalità autoimposta, forzata. La difficoltà di
“sentire” il Paese reale in questa specie di sottotesto costante che è
l’elettore a sbagliare se non vota Pd («è un giorno triste per il
Paese»), caratteristica postura del dirigente piddino, trova in Debora
Serracchiani un esempio particolarmente riuscito. Quello che fa ancora
più impressione è il pensiero che la fama della Serrachiani e la sua
successiva carriera politica nascono proprio dalla critica ai gruppi
dirigenti del Pd per eccessiva autoreferenzialità.
L’anno è il 2009, il luogo è un Assemblea dei circoli del partito
successiva alla nomina di Dario Franceschini come segretario dopo le
dimissioni di Veltroni per la sconfitta del 2009 (sconfitta che sembrò
pesantissima, ma vengono i brividi a pensare che allora il Pd prese
circa 13 milioni di voti, mentre il 25 settembre ne ha raccolti 5).
Debora Serracchiani, trentanove anni molto ben portati, faccia pulita,
frangetta e codino, giacca scamosciata, un’aria da ragazza anni ‘90,
sale sul palco e prende la parola per un intervento che sarà interrotto
da moltissimi applausi e commentato dalle facce che sembrano divertite e
sbalordite di Dario Franceschini e di Goffredo Bettini, che la
ascoltano in prima fila. Sono andato a rivederlo, quel discorso,
dopo il faticoso cameo del 25 settembre notte, e devo dire che me lo
ricordavo diverso. O forse quello che poi avevo conservato nella memoria
era il ruolo che era stato attribuito a Debora Serracchiani, cioè
quello di essere un po’ la rappresentante di un Pd giovane e arrembante
ferocemente critico verso la casta che lo stava portando a sbattere. Una
specie di seguito del famoso «con questi dirigenti non vinceremo mai»
di Nanni Moretti (era il 2002, ci pensate?). E invece non proprio.
Quello di Debora Serracchiani fu un discorso critico sì, ma in fondo
affettuoso, certamente non distruttivo, per niente radicale. Era un
discorso che in sostanza invocava unità e compattezza, in cui si
invitava ad abbandonare il personalismo dei dirigenti, si criticava e un
po’ si invidiava la strategia di Di Pietro, si censurava lo spazio
lasciato alla componente di minoranza più cattolica e conservatrice. Ma
era anche un discorso in cui si lisciava il pelo al neo segretario
Franceschini: «Tu hai un compito difficile perché non sei un volto
nuovo, però hai il compito di dare una credibilità a questo partito e ci
stai riuscendo alla grande».
Così, subito diventata ex ribelle, Debora Serracchiani fa la sua
carriera: europarlamentare “Franceschini candida l’Amelie del Pd”,
titolava il Corriere),
poi Presidente del Friuli-Venezia Giulia, poi vicepresidente del
partito e altro ancora. Tredici anni dopo quella stessa casta, quella di
Franceschini, Bettini, è ancora in piedi. Nessuno di loro la notte del
25 settembre appare in video. “Non c’è nessuno, vai tu…” E Debora
Serracchiani si ritrova a commentare con difficoltà e senza alcuna
autocritica una sconfitta inequivocabile. Una vendetta feroce o forse
soltanto un contrappasso. Ma è una parabola che “spiega” il Pd meglio di
molte analisi.
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