Partiti al bivio
Il Pd e le due patenti dei 5S
Individuare
vincitori e vinti è facile. Vincitori: Meloni sopra il 25%, Conte
sopra il 15%. Vinti: Letta sotto il 20%, Salvini sotto il 10%. Il resto
sono scaramucce.
Ma qual è la cifra di questa tornata elettorale?
È stato notato, giustamente, che le forze politiche per lo più ritenute
populiste o sovraniste — FdI, Lega, Cinque Stelle, Italexit, partitini
comunisti — hanno totalizzato circa il 55% dei consensi, mentre i
partiti più “draghiani” — Pd, Terzo Polo, +Europa, Impegno Civico —
hanno raccolto solo il 30%, poco più della metà. Insomma, ha perso
l’establishment e hanno vinto i partiti antisistema.
È questa la novità? Non esattamente, era già successo nel 2018, quando
la somma di Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’Italia e populisti minori
aveva superato il 57%.
Altri osservatori, notando che i tre partiti di centro-destra hanno
ottenuto il 43% contro il 36% nel 2018, hanno letto il risultato come
uno spostamento a destra dell’elettorato.
Ma è un’illusione prospettica, perché nel 2018 c’erano i Cinque Stelle,
e una parte non trascurabile del voto di destra era confluito nel
partito di Grillo. Se si tiene conto di questa circostanza, i risultati
suggeriscono, semmai, un lieve arretramento del consenso alla destra,
che nel 2018 si annidava anche nel consenso ai Cinque Stelle. Un
arretramento che si può desumere anche da un’altra circostanza: i
sondaggi degli ultimi due anni hanno quasi sempre attributo ai tre
partiti di centro-destra qualcosa di più del 43% registrato alle
elezioni del 25 settembre.
Insomma, sull’appuntamento elettorale non ha spirato alcun “vento di destra”.
Se il centro-destra ha vinto non è perché il baricentro elettorale si è
spostato verso destra, ma perché la destra ha una leader che ha saputo
sfruttare la logica della legge elettorale (che premia le alleanze
larghe), mentre la sinistra ha un leader che non ha nemmeno provato a
sfruttarla, quella logica.
La vera cifra del voto, a mio parere, è un’altra. Prima del 25
settembre 2022 non era mai successo che, a sinistra del Partito
Comunista (e dei suoi successori Pds-Ds-Pd), prendesse forma un partito
di dimensioni comparabili.
Partiti come Psiup, Manifesto, Democrazia Proletaria, Nuova Sinistra
Unita, Rifondazione comunista, PdCI, Sel, Leu, eccetera, sono sempre
stati sotto il 9%, il più delle volte sotto il 5%. Certo, c’è stata la
Margherita di Rutelli, che ha spesso superato il 10%, ma la concorrenza
ai Ds la faceva da destra, non da sinistra. Quanto ai Cinque Stelle, nel
2018 avevano (ampiamente) raggiunto la massa critica necessaria a
competere con il Pd, ma non erano ancora percepiti come un partito di
sinistra. Perché la mutazione avvenisse, occorrevano Renzi e il suo
colpo di mano parlamentare, che d’un tratto — con la formazione del
governo giallo-rosso — fornì ai Cinque Stelle entrambe lepatenti di cui
avevano bisogno: la patente di partito affidabile e quella di partito
affine alla sinistra.
Ecco perché il 25 settembre è una data spartiacque. I Cinque Stelle non
solo superano il 15%, avvicinandosi al 19% del Pd, ma lo fanno
presentandosi come “la vera sinistra”, non importa qui se legittimamente
oppure no.
Come è potuto accadere?
È semplice. Il Pd non è un partito socialdemocratico, che si rivolge ai
ceti popolari e ne interpreta i bisogni. Il Pd è il partito
dell’establishment e dei “ceti medi riflessivi”, ossessionato da due
soli temi: l’accoglienza dei migranti e le battaglie per i diritti
civili. Dei diritti sociali gli importa quasi nulla, anche se in
campagna elettorale ha dovuto fingere che gliene importasse qualcosa. In
breve, è diventato un “partito radicale di massa”, come a suo tempo
aveva profetizzato il filosofo Augusto del Noce immaginando il futuro
del Pci.
La cosa poteva
funzionare, e in parte ha funzionato, finché i problemi della gente non
erano drammatici. Ma con le ripetute crisi dell’ultimo quindicennio non
poteva funzionare più, qualcosa si sarebbe dovuto cambiare. I dirigenti
del Pd non hanno saputo vedere la spaventosa domanda di protezione,
economica e sociale, che saliva dal Paese. Per dirla con Bersani, non si
sono accorti della «mucca nel corridoio», che ormai bussava alla porta.
I Cinque Stelle invece sì. Per quanto sbagliate e qualunquiste possano
essere le loro proposte, molti elettori — non solo al Sud — li hanno
visti come la autentica sinistra, che non si occupa solo delle “grandi
battaglie di civiltà”, ma anche di problemi più terreni, di cui la
sinistrad’antan si faceva carico.
Ora il Pd è a un bivio, su cui il congresso di primavera dovrà
pronunciarsi: fare concorrenza ai Cinque Stelle sul loro terreno,
riscoprendo la questione sociale, o prendere atto della mutazione che ha
cambiato il Dna della sinistra ufficiale. Avviandosi, in questo caso, a
diventare in modo esplicito il partito dell’establishment e dei ceti
medi istruiti e urbanizzati.
Gianpasquale Santomassimo
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