domenica 4 settembre 2022
Proust e Berenson, un parallelismo
Annamaria Ducci, Proust-Berenson. La convergenza divinatoria, il manifesto Alias, 4 settembre 2022
Nel volume uscito per Officina Libraria Come la bestia e il cacciatore Proust e l’arte dei conoscitori (pp. 152, euro 18,00), lo storico dell’arte Mauro Minardi affronta la relazione tra Bernard Berenson e Marcel Proust descrivendola nei termini di un inseguimento reciproco, affidando ora all’uno ora all’altro i ruoli di preda e cacciatore. L’immagine venatoria non è scelta a caso, anzi. Essa rimanda a quel ‘paradigma indiziario’ che Carlo Ginzburg proponeva nel celebre saggio ancora oggi densissimo di suggestioni, in cui si avvicinava il metodo del conoscitore a quello del medico e dell’investigatore, scorgendone le radici proprio nell’attività dei primi uomini cacciatori.
Minardi imposta la sua lettura dei due autori attorno alla adozione di quel preciso schema interpretativo della realtà, fondato su uno straordinario «potere di analisi di dettagli e tracce volatili, tradotti grazie a fulminee associazioni in schegge di verità»: capacità d’osservazione, in primo luogo, ma anche esercizio dell’analogia e infine ricorso alla intuizione. Metodo che è esattamente quello del connoisseur così come delineato da Berenson nel 1923: «Come nella caccia, prima di tutto si tratta di seguire le orme della volpe fino alla sua tana. Giunti a cotesto punto la partita diventa facile e basta seguire il fiuto». Vista acuta e odorato fino, dunque.
Anche il giovane Proust riprenderà l’esaltazione del più ancestrale dei sensi: «il desiderio ha un istinto come quello del cane, che gli fa subito annusare l’odore del desiderio per quanto sia ben celato a chiunque altro» (Jean Santeuil). Ginzburg terminava il suo saggio affermando che la Recherche fosse costruita «secondo un rigoroso paradigma indiziario».
Da qui riparte Minardi, verificando l’assunto attraverso la relazione speculare con il critico americano, nell’intenzione dichiarata di «gettare un ponte» tra letteratura e storia dell’arte. Anche per questo nel saggio la ricchezza delle informazioni viene come diluita nella levità di un racconto, le due biografie sono colorate di citazioni letterarie e di presenze fissate nei ritratti raffinati di James Tissot e di Boldini.
È nell’ambiente della «Gazette des beaux-arts», di Salomon Reinach e di Charles Ephrussi (chi non ne ricorda il vivido ritratto nel bellissimo Un’eredità di avorio e di ambra di Edmund de Waal?) che Proust viene a conoscenza degli scritti di Berenson. Ne parla per la prima volta in una lettera del 1906, confessando il desiderio di incontrarlo, ma commentando in termini non proprio felici quella «conoscenza delle pitture che è tipica dell’antiquario e del mercante di pulci (…) che non implica alcuna competenza in merito alle qualità estetiche propriamente dette». Una affermazione in cui risuona la raffinata cultura inglese del tempo su cui il letterato si era formato, Ruskin, ma diremmo anche James Whistler, per il quale gli esperti avevano «ridotto l’Arte alla statistica» (Ten o’ clock, 1885, testo che Mallarmé tradusse in francese tre anni dopo). È in questo ambiente che prende forma la figura di Swann, amateur e collezionista, appassionato di Vermeer, ma anche quella, complementare, di Bergotte, pronto a dare la vita per rivedere la «piccola ala di muro giallo» della Veduta di Delft, per scorgervi «una bellezza che sarebbe bastata a se stessa». Questo Proust meno mondano e più spirituale, sarà quello che affascinerà Berenson, divenendo per lui, spiega Minardi, «lo specchio dorato ove egli riflette la propria sensibilità».
L’incontro, folgorante per ambedue, avvenne solo nel 1918, per il tramite di Robert de Montesquiou. Berenson, di sei anni più grande, aveva intrapreso già dal 1894 un cambio di rotta che sarebbe stato cruciale per il corso futuro della connoisseurship, quella revisione del metodo scientifico di Giovanni Morelli in cui l’americano avvertiva il rischio di una chirurgica dissezione dell’opera d’arte. La monografia su Lorenzo Lotto fu l’occasione per elaborare una scienza dell’arte più ampia e più profonda, «costruttiva», il cui cardine era la ricostruzione della «personalità» attraverso la ricerca della «qualità», addirittura del «je ne sais quoi». Berenson restituiva umanità agli artisti, ammettendone le naturali «oscillazioni», e così facendo svelava la vacuità di un metodo – quello morelliano – che aveva per presupposto l’esistenza di Grundformen come cifre costanti di un maestro.
Una revisione metodologica, quella dell’americano, che abbandonando la fede cieca (sia concesso il gioco di parole) nel senso della vista si fletteva anche verso l’intuizione, verso il fiuto. Così leggiamo infatti nei Florentine Painters (1897): «Il senso della qualità è indubbiamente il requisito per eccellenza di chi voglia divenire intenditore (…) ma appartiene ad altra regione che non sia quella della scienza (…) non rientra insomma, nella categoria delle cose dimostrabili».
Berenson e Proust si muovevano nella stessa direzione, ovvero la revisione critica dell’estetica di impianto positivista. Berenson si era formato alle letture di Walter Pater (da lui, più che da Burckhardt, aveva tratto l’idea del Rinascimento come acmé dell’arte occidentale), al senso della forma di Adolf von Hildebrand, ma su tutti aveva contato il ‘pensiero aforistico’ di Friedrich Nietzsche, la cui idea di «intensificazione di vita» giocò un ruolo essenziale nell’elaborazione della nozione – energetica e vitalista – di «valori tattili». Proust si nutriva certo dello spiritualismo di Bergson, vibravano in lui il Ruskin della Bibbia di Amiens (che lui stesso aveva reso in francese), ma anche le letture allegoriche, iniziatiche quasi, di Émile Mâle, che gli svelavano il sens caché delle cattedrali. Se nel 1908 ciò lo condurrà a stilare un feroce pamphlet contro il determinismo letterario (Contre Sainte-Beuve), nel Tempo ritrovato si giungerà a screditare le «idee formate dall’intelligenza pura», per esaltare invece «l’impressione» come «criterio di verità».
Tuttavia non sarebbe esatto circoscrivere la figura stessa di Morelli entro i soli recinti di un paradigma epistemologico scientista. Il suo pensiero, proprio in quanto pervaso dall’idea del frammento rivelatore (tratta principalmente dall’anatomia comparata di Georges Cuvier), presuppone che l’opera d’arte sia un organismo vivente. Questo è tanto più vero per i ritratti, genere infatti ricercatissimo sul mercato antiquario di fine Ottocento. Piace qui ricordare un episodio narrato da Morelli in riferimento al Ritratto femminile della Galleria Borghese oggi attribuito a Bernardino Licinio: «Un giorno però, che innanzi al misterioso quadro io stava rapito a interrogarlo, il mio spirito incontrò quello dell’artista, che da quei tratti femminili guardava fuori, ed ecco in quel reciproco contatto accendersi improvvisamente una scintilla, ed io ad esclamare con gioia: ‘Sei proprio tu, amico Giorgione’ e il quadro a rispondere: ‘Si, sono io…’».
Non solo l’attribuzione come atto di divinazione, ma anche come esigenza interna all’opera d’arte, perché è il dipinto stesso che, per vivere, domanda che gli venga assegnata una paternità: nel 1926 Berenson intitolerà un suo saggio, omaggiando Pirandello, Nine Pictures in Search of an Attribution. È quindi necessario che il critico possieda non solo un occhio, ma una sensibilità non comune, attraverso cui saper interpretare le ‘spie’ lasciate sulla tela dall’artista. Ciò si ammanta talvolta di un rituale che ha molto a che fare con la chiaroveggenza.
Kenneth Clark ha tramandato l’immagine del Berenson che toccava i dipinti con leggeri colpetti, aspettando un ‘segno’ che gli rivelasse il nome dell’autore. Gesto che oggi giustamente Minardi mette in rapporto con la pratica divinatoria della Signora Fontaine nel balzachiano Cugino Pons (1847): costei, per predire il futuro, dette «un colpetto con un lungo ferro da calza sul dorso del rospo, che la guardò con un’espressione intelligente», e poi un altro sul becco di «madamigella Cleopatra», la vecchia gallina. Ispirandosi proprio a Honoré de Balzac, anche Proust disseminerà il suo romanzo di personaggi dotati di una analoga forma di conoscenza alternativa alla ferrea logica del ragionamento scientifico, basata invece sull’intuito istintivo.
Partendo da Berenson e Proust, Minardi rimonta a un Ottocento fecondo, in cui il carattere stesso di scienza si allarga al campo dell’irrazionale. Ne sono esempi la fisiognomica e la chiromanzia, scienze (o arti) dell’osservazione e della deduzione: così presenti nella Comédie humaine, le mani diverranno protagoniste nelle inchieste dei connoisseurs, e per Proust saranno gli «eloquenti strumenti dell’espressività umana». Ma nell’opera balzachiana vibra ancora l’immagine del piccolo piede che fugacemente apparve nella tela appena scoperta del Capolavoro sconosciuto (1837). Frammento, unico relitto vivente, reale, in quella muraille de peinture informe, invisibile ai nostri occhi, ma non a quelli del pittore Frenhofer.
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