lunedì 28 ottobre 2019

Corinna nella metro



Claudio Pasceri, Un pomeriggio alla metro, Bagatelle blog, 27 ottobre 2019
Mercoledì scorso, il giorno 23 ottobre, nell’ambito di EstOvest Festival si è svolto un concerto (anzi, si sono svolti due “micro concerti”) piuttosto sui generis presso la Stazione della Metropolitana di Porta Nuova. Si è esibita la straordinaria interprete Corinna Canzian in brani di breve durata per violino solo. La musicista veneta è passata da pagine di J S Bach a Bernd Alois Zimmermann della Sonata per violino , dai Capricci di Salvatore Sciarrino a improvvisazioni sue proprie, fino ad una melodia armena intitolata Havun Havun. La capacità di trovare grande intensità d’espressione e chirurgica penetrazione interpretativa per ogni autore sono risultate notevoli. Tutto ciò in una stazione della metropolitana, affollata e piuttosto rumorosa, com’è del resto ovvio che sia il pomeriggio di un giorno di lavoro.

Credits: Stefano Di Marco | EstOvest Festival 2019


Elegantemente vestita, come per un’esibizione destinata ad una sala da concerto tradizionale, Corinna Canzian ha suonato con la massima attenzione, senza mai snobbare un appuntamento così particolare. In fondo ogni luogo può diventare adeguato, se l’interprete non tradisce la musica. Molti aspetti, legati alle specifiche caratteristiche di ciascun autore delle musiche, alle modalità di ascolto dei differenti passanti ed a elementi più esplicitamente sociologici , sono risultati di particolare interesse. Malgrado la grandezza di J S Bach non sia certo qui in discussione,  ha comunque sorpreso come la melodia di una sua giga per violino solo abbia saputo “farsi largo” tra una moltitudine di differenti stimoli sonori ed attirare a sé l’attenzione di molti avventori in un batter d’occhio. Eppure c’erano rumori di treni in arrivo e in partenza, annunci dall’altoparlante riguardante gli orari di viaggio, il vociare di molte persone alle prese con i rispettivi apparecchi cellulari e molto altro ancora. Nessun altro autore, nella giornata, mi è sembrato abbia saputo catturare con la medesima disinvoltura l’orecchio di un buon numero di persone. D’altro canto gli “effimeri” Capricci di Sciarrino risultavano i più camaleontici, i più pronti a “mimetizzarsi” tra le sonorità aeree e fischianti dell’auditorium temporaneo che si era venuto a creare. Gli armonici e i delicati percorsi sonori che scaturivano dal violino sembravano essere la versione umana e commovente dei suoni più algidi e freddi che, come ogni giorno, si verificavano in quegli spazi. Zimmermann invece “reclamava” attenzione, con una melodia forse poco consueta per ascoltatori non troppo avvezzi alla musica cosiddetta contemporanea, ma con un pathos difficilmente equivocabile.

Credits: Stefano Di Marco | EstOvest Festival 2019


Risultava interessante, facendo attenzione ai viaggiatori di passaggio, come alcuni di loro osservassero più che ascoltare. In certi casi erano incuriositi dallo stendardo, grande e colorato, del Festival EstOvest-Le Strade del Suono, altre volte da una giovane donna (la nostra violinista) così impegnata a gesticolare col suo strumento in un ambiente apparentemente inappropriato. Talvolta le passavano così vicino che si sarebbe detto di vedere dei pesci in un acquario, sguscianti e decisi, sicuri di non incocciare nell’ostacolo davanti a loro. Alcune persone hanno mostrato interesse per l’esibizione musicale, altre hanno quantomeno rilevato che qualcosa di non troppo abituale si stava verificando, altre ancora si sono dimostrate completamente estranee a tutto ciò, non hanno minimamente mostrato segni di una qualche empatia , hanno tirato dritto.
Il “non-luogo” prestato ai micro concerti di Corinna Canzian si è rivelato fitto di percorsi possibili, di letture e di interpretazioni di un fenomeno naturale e assolutamente proprio alla specie umana, l’atto dell’incontro e dello scambio.
Claudio Pasceri è violoncellista e Direttore artistico di EstOvest Festival

sabato 5 ottobre 2019

L'ambivalenza assoluta del Bisconte



Salvatore Merlo, Perché nessuno può fare dieci domande a Conte sul caso Mifsud, Il Foglio, 
5 ottobre 2019

Roma. “Noi dobbiamo solo restare fermi il più possibile”, arieggia un anonimo ex sottosegretario della Lega, sprofondato su una delle poltroncine del Transatlantico, “questa faccenda di Trump, Conte e i servizi segreti per noi è un cortocircuito”. Eppure Matteo Salvini scalpita, evoca il Copasir, vorrebbe consumare la sua vendetta su Giuseppe Conte, sul premier che avrebbe messo i vertici dei servizi segreti italiani nelle mani dell’Amministrazione americana per fare un favore personale a Donald Trump. Vorrebbe urlare, il capo della Lega, colpire duro, denunciare, ribaltare così la storia di Savoini e dei rubli, tirare un morso all’uomo che lo ha defenestrato dal Viminale. Ma l’unica cosa che in realtà il capo della Lega ha capito di poter mordere è la sua stessa lingua. Tanto che nella foga, tirando mozzichi all’aria, alla fine addenta soltanto la vecchissima storia del curriculum tarocco del premier, le parcelle, gli incarichi Rai e quelli da avvocato: “Ne risponda in Aula”. D’altra parte “cosa possiamo dire alla gente?”, si mette a ridere l’ex sottosegretario leghista. “Critichiamo Conte perché avrebbe aiutato Trump a delegittimare la Clinton? I nostri elettori risponderebbero dicendo che Conte ha fatto bene”. E così intorno a Conte si consuma un gioco paradossale e contraddittorio che è la fortuna di quest’uomo la cui parabola politica sfida la fisica e rimanda piuttosto alla fortuna, perché l’unica persona che avrebbe interesse a demolirlo, in realtà non può demolirlo, ma contemporaneamente anche quelli che avrebbero interesse a difenderlo, non possono difenderlo. Zingaretti, Franceschini, Orlando non possono far altro che turarsi le orecchie e cercare di addormentarsi, per non vedere, non sentire, non parlare… shhh.
Ci sono le elezioni americane, le primarie tra gli amici democratici d’oltreoceano, cosa potrebbe mai fare il Pd: aiutare Giuseppe Conte a difendere quel “mostro” di Trump che cercava prove in Ucraina per screditare Joe Biden, cioè l’ex vicepresidente di Barack Obama? Meglio tacere, il più possibile, tra rossori e sollevamenti di sopracciglia, esitazioni e delicati eufemismi, mignoli alzati e gonne tirate giù per non scoprire le ginocchia. Un po’ come fa Repubblica, il giornale Agit-Prop della nuova sinistra grillopiddina, che ieri addirittura non pubblicava nemmeno un rigo su trentasei pagine a proposito delle notizie che nel frattempo riempivano i giornali americani, dal New York Times al Washington Post fino ai grandi siti d’informazione specializzata come Politico e Daily Beast. Fosse stato Silvio Berlusconi, ai bei tempi del conflitto d’interessi, a far incontrare i capi dei servizi segreti con un ministro di Erdogan all’ambasciata turca… altro che dieci domande sul Bunga bunga, altro che campagna giornalistica sul rapimento di Abu Omar (e lì si trattava di sicurezza nazionale, non di un’interferenza negli affari interni di un paese amico).
Similmente, facendo violenza alla sua natura spavalda, nemmeno Matteo Salvini cerca di trascinare Conte sotto i riflettori, e d’altra parte cosa mai potrebbe denunciare: che anche Trump faceva parte dell’evanescente complotto ordito da Conte assieme al Pd, Mattarella e gli euroburocrati per far fuori la Lega dal governo? Salvini ha il coraggio e il cinismo della contraddizione, ha pure molta contundente fantasia, ma questo proprio non può farlo. E infatti non si rivolge alle piazze, evita l’argomento nei comizi in questi giorni di campagna elettorale in Umbria, ma chiede invece che il presidente del Consiglio parli al Copasir, al comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, che è un po’ come organizzare una partita di calcio a porte chiuse: niente pubblico, niente telecamere, niente microfoni. Un rito mirabilmente gratuito, una rincorsa che è pura rappresentazione, teatro.
Così alla fine tutta questa faccenda stordente, questo universo incapace di esprimersi, afono, tra la museruola che Salvini si sta imponendo a fatica e l’imbarazzo cigolante della sinistra, questa condizione irreale per cui Conte non può essere né attaccato né difeso, appare come la metafora dell’ambivalenza assoluta del governo del Bisconte. Il suo vizio, e la sua forza. Insieme. Dell’incontro clandestino tra il ministro americano William Barr e i capi dei servizi segreti italiani mandati da Conte non resterà altro che confusione. E silenzio.

martedì 24 settembre 2019

Il patto del 1939 in sintesi
























Gianpasquale Santomassimo

... farei sommessamente osservare che nelle reazioni di sdegno che comprensibilmente abbiamo potuto leggere in questi giorni è presente anche una forma di sottovalutazione e fraintendimento della portata del patto Molotov-Ribbentrop che riproduce una diffusa giustificazione ufficiale retrospettiva di quell'accordo. In pratica, si ripropone la tesi di un semplice (e salutare) espediente, per guadagnare tempo e preparare la difesa da un attacco nazista che inevitabilmente si dà per scontato. Le cose non stanno proprio così. L'accordo prevede la spartizione della Polonia e l'acquisizione di altri territori, prelude all'attacco alla Finlandia che vedrà mutevoli fortune.
Ma soprattutto va notato che se da parte tedesca c'è la consapevolezza del carattere tattico di un accordo destinato ad essere rapidamente rovesciato, da parte sovietica si crede davvero al carattere durevole dell'alleanza. Non c'è la preparazione bellica asserita retrospettivamente, anzi al momento dell'attacco le linee verranno sfondate con troppa facilità. Con quegli eccessi di zelo tipici del potere sovietico si organizzano manifestazioni di amicizia talvolta imbarazzanti: ad esempio un grande Festival wagneriano a Mosca, con la rappresentazione di tutte le opere del grande compositore, alla presenza di ambasciatore e dignitari del Reich.
Eccessi di zelo si registrano anche da parte dei comunisti francesi, che assumono un atteggiamento collaborativo e vengono meno alle cautele della clandestinità. Qualcuno, come è noto, va a lavorare volontario in Germania.
Più in generale, si impone a tutto il movimento comunista di replicare l'interpretazione della prima guerra mondiale come conflitto tra imperialismi contrapposti, con una forzatura evidente dopo l'esperienza della guerra civile spagnola e la creazione di un vasto fronte antifascista, che di fatto viene dissolto. I rapporti tra i partiti antifascisti si bloccano e verranno riannodati con qualche fatica dopo il 1941.
I pochi dissidenti verranno espulsi, e sarà solo la saggezza di Togliatti a consentire il rientro a pieno titolo di Terracini e della Ravera.


lunedì 23 settembre 2019

In memoria di un patto scellerato


La risoluzione del Parlamento europeo sulla memoria del comunismo e del nazismo, con particolare riferimento alle responsabilità per lo scoppio della Seconda guerra mondiale, è stata approvata il 19 settembre ma la polemica è cresciuta con il passare delle ore, soprattutto attraverso i social. Perché – in diversi passaggi – il testo equipara i due regimi politici. E perché a votarlo è stato anche, con alcune eccezioni, il Partito democratico (insieme al gruppo dei Socialisti e democratici di cui è membro). Oltre al Ppe, in cui c’è anche Forza Italia, ai conservatori (con Fratelli d’Italia) e al gruppo Identità e democrazia, di cui fa parte la Lega. Il quotidiano il manifesto ha reagito pubblicando un editoriale indignato e sprezzante di Angelo d’Orsi. Forse l’argomento avrebbe meritato un approccio più equanime, come quello che si ritrova nello scritto di David Bidussa.



Angelo d’Orsi, Il mostro storico del «rovescismo» unisce il Pd e Orbán
La risoluzione del Parlamento europeo, fondata sulla equiparazione tra nazifascismo e comunismo, rappresenta insieme un mostro storico e una bestialità politica. Ma è anche una clamorosa conferma della superfluità “esistenziale” di questo organismo.
Se davvero si vuole una Europa unita, e se la si vuole come si dovrebbe, rifare a fundamentis, il Parlamento europeo sarà semplicemente da eliminare. Un gruppo di signori, godenti di privilegi, che hanno poco o nulla da fare nella vita, sono riusciti a formulare un testo basato su un modesto imparaticcio scolastico, senza capo né coda, un documento lunghissimo, farcito di premesse, di riferimenti interni alla legislazione eurounitaria, ma ahinoi, purtroppo, anche con una serie di ragguagli che pretendono di essere storici, ma sono un esempio di revisionismo ideologico all’ennesima potenza: insomma, il mai abbastanza vituperato «rovescismo», fase suprema del revisionismo, ed è il frutto finale di un lungo lavorio culturale, che dalle accademie è trapassato nel dibattito pubblico, tra giornalismo e politica professionistica.
Il rovescismo riesce a produrre esiti a cui il revisionismo tradizionale non ha avuto il coraggio di spingersi: questo documento è un esempio preclaro di questi esiti.
La linea di fondo, che il rovescismo ha raggiunto, e di cui in Italia abbiamo avuto numerose manifestazioni, è il rovesciamento della verità storica, sulla base di un equivoco parallelismo, che ha illustri precedenti nella filosofia politica, tra fascismo e comunismo, tra fascismo e antifascismo, tra partigiani e repubblichini (per concentrarsi sul nostro Paese): e questo sulla base della nefasta teoria delle memorie condivise, nel documento “europeo” riproposta al singolare, come fonte della “identità” del Continente, a cui l’organo legislativo di una sua parte, sebbene numerosa, pretende di sovrapporsi. L’Unione europea, sarà opportuno ricordare, non è l’Europa, e il Parlamento della Ue non esprime sentimenti, pensieri, sensibilità e, aggiungo, volontà, di alcune centinaia di milioni di cittadini e cittadine dei 27 Stati aderenti.
Ciò detto, la risoluzione, con temerario sprezzo della verità, attribuisce paritariamente la responsabilità della Seconda Guerra mondiale alla Germania nazista e alla Russia sovietica, e in particolare sarebbe la «conseguenza immediata» del Patto Ribbentrov-Molotov, e avendo sottolineato, di nuovo con un esempio di grottesca violenza alla realtà fattuale, che l’istanza unitaria nel Vecchio Continente nasce come risposta alla «tirannia nazista» e «all’espansione dei regimi totalitari e antidemocratici», si richiama alla legislazione di alcuni Paesi membri, che ha già provveduto a «vietare le ideologie comuniste e naziste», e invita gli Stati dell’Ue a prenderli ad esempio.
Curiosamente il documento di questi nuovi analfabeti della storia, usa l’espressione «revisionismo storico» per riferirsi esclusivamente al nazismo, e al progetto genocidario insito in esso, e presenta la posizione a cui si ispira come corretta e indubitabile, al punto da pretendere di diventare legge. E la proposta cui giunge questo mirabile esempio di menzogna storica, e insieme di miseria politica e di bassezza morale, quale è mai? La sollecitazione agli Stati membri a provvedere a condannare i «crimini dei regimi totalitari comunisti e dal regime nazista», e di conseguenza a «formulare una valutazione chiara», che traduca praticamente questa raccomandazione. Ossia, evitare la diffusione e la presenza e la circolazione nei relativi Paesi di ideologie e simboli che richiamino nazismo e comunismo.
Insomma, è una Europa polonizzata e magiarizzata e ucrainizzata: l’Europa che dimentica il ruolo fondamentale della Russia, a cui viene sì attribuito l’etichetta di Paese martire, ma non certo quello, confermato da ogni ricerca storica, di barriera al nazifascismo. E il documento, che pare ispirato direttamente da tedeschi polacchi e ungheresi, si apre a parole di dolce accoglienza nel seno della famiglia dell’Europa “democratica” dei Paesi liberatisi dal giogo sovietico. E, incredibilmente, si precisa: «adesione all’Ue e alla Nato», con una inaccettabile confusione di europeismo e atlantismo.
Ebbene, questo documento è stato approvato con i voti della destra di Orbán e soci, ma anche dei popolari e dei “socialisti”, ivi compresi gli esponenti del Pd. Che con questo atto ha segnato la sua definitiva fuoruscita dal campo della sinistra internazionale, ma altresì dal campo della decenza e della dignità.



David Bidussa
Forse nessuno come Victor Serge nelle sue Memorie di un rivoluzionario ha saputo descrivere in poche righe la rottura che si consuma il 22 agosto 1939, nel momento in cui si arriva alla firma del trattato Molotov-Ribbentrop, ovvero il patto tra Russia sovietica e Germania nazista. Riprendo le sue parole:
«Il 22 agosto (1939), Molotov e Ribbentrop firmavano improvvisamente al Cremlino, mentre le missioni militari britannica e francese deliberavano con Vorošilov in un edificio vicino, un patto di non aggressione decennale, che era in modo evidente un patto di aggressione contro la Polonia. Daladier ebbe il torto di sospendere la pubblicazione della stampa comunista: sarebbe stato curioso, dopo aver denunciato la «barbarie fascista», vederla denunciare le «plutocrazie imperialistiche. La stampa comunista illegale adottò subito questo nuovo linguaggio».
Da una parte un mondo politico che si trova complessivamente disorientato dalla doppiezza politica dell’Urss, dall’altra una caduta verticale di quel patto di intesa dell’antifascismo internazionale al cui interno il movimento comunista si era da sempre collocato e, soprattutto, si era dichiarato mettendo al centro – con la tattica del fronte popolare e poi con le scelte maturate a metà degli anni ’30 – la questione della difesa dei regimi democratici.
L’atto del 22 agosto segna una crisi irreversibile proprio in quel campo antifascista che, fino a quel momento, aveva vissuto il movimento comunista come l’alleato solido che nella lotta al fascismo non demorde. Quella scena stravolge convinzioni profonde, lacera amicizie e rapporti di fiducia, ma soprattutto certifica in maniera irreversibile un vero blocco emozionale. La sinistra europea e il mondo comunista non si trovano più associati, non solo rispetto alla difesa della democrazia, ma soprattutto su quella che debba essere la priorità di fronte alla minaccia sia di guerra sia di una possibile egemonia dei totalitarismi di destra nelle realtà governative europee. Per esempio, questo è quello che accade all’interno del socialismo italiano fuoriuscito. Il Psi, fino a quel momento egemonizzato da Pietro Nenni, convinto sostenitore dell’alleanza di fronte popolare, e perciò decisamente favorevole all’alleanza con il Partito comunista, e che ora deve cedere la direzione del partito a coloro che su quell’alleanza e su quella convergenza politica hanno sempre nutrito dubbi (Tasca, Faravelli, Modigliani).
Ma è anche la crisi che attraverso L’internazionale Operaia e Socialista, come testimonia il testo del rapporto sulla situazione politica all’Interno dell’IOS steso dal Segretario Friedrich Adler, nell’estate 1939 dichiara la crisi politica del socialismo internazionale. Per certi aspetti la seconda morte politica, dopo quella già avvenuta nei giorni dello scoppio della Prima guerra mondiale.
Per molti quella ferita politica, anche emozionale, in parte si riconnetterà con il rovesciamento delle alleanze nel 1941 e dunque con il ritorno anche dei comunisti nella lotta al fascismo come nemico principale che poi sfocerà nelle esperienze nazionali delle Resistenze.
Eppure quella crisi dell’agosto 1939, ha un significato molto più profondo e, per certi aspetti, ancora ci riguarda.
Il tema non è il tradimento o il passaggio a stendere accordi col nemico di ieri (una scena che in politica è avvenuta molte volte, anche in tempi recenti), ma rispetto a che cosa sentirsi leali e dunque considerare che valga la pena sacrificarsi, e dunque rinunciare a qualcosa della propria quotidianità in nome del bene collettivo. Molti hanno concentrato lo sguardo, e dunque riversato la propria disapprovazione, su un gesto politico messo in atto da un leader politico. Ha un suo senso, nonché una sua rilevanza. Ma forse a molti anni di distanza quello che principalmente si dovrà valutare è come per molti non avesse rilevanza un altro dato.
In quella scelta dell’Urss nel 1939, ha detto più volte Hobsbawm, i partiti comunisti occidentali riuscirono ad assorbire e a spiegare sulla base di elementi di razionalità, meglio di identità politica. In quella congiuntura, sottolinea lo storico inglese, fu infatti la memoria dell’Union sacrée e del nazionalismo cui si erano votati i partiti della Seconda Internazionale nell’agosto 1914, una causa che rimandava all’atto fondativo stesso dei partiti comunisti, a consentire la tenuta strutturale dei partiti. In breve in quella congiuntura, aderendo al senso politico del Patto russo-tedesco, i partiti comunisti rendevano indirettamente omaggio alla loro scelta di venti anni prima. Dunque, il tema era la questione della verità e della doppiezza: si è disposti a sottoscrivere il patto anche con il proprio avversario radicale, in nome della coerenza, del non venir meno alla critica ai fondamenti politici e culturali del sistema che si vuole abolire o contribuire a distruggere.
Ciò che, invece, non matura è la dimensione dell’interesse generale. Ovvero di saper andare oltre se stessi per vedere un tema di rilevanza pubblica. Ovvero di essere parte dello sviluppo.
Quello stesso meccanismo che nel 1939 esprime il dato di solidarietà (complessivamente non molti se ne andarono dai partiti comunisti) si manifesta apertamente nel 1956, quando di fronte alle rivelazioni del Rapporto Kruscev, l’esodo dai partiti comunisti fu più consistente, tanto da parlare di una crisi che obbligava a ripensarsi. Perché ciò che comunicava il Rapporto Khruscev era appunto la mancanza di verità e dunque la sfera delle convinzioni.
Anche per questo la data del 22 agosto 1939, alla fine, non ha mai dato luogo a una riflessione collettiva, né è entrata nella memoria di chi ruppe il patto antifascista.
È rimasta nella memoria come una mossa scaltra e come la scelta di solitudine di alcuni esponenti e militanti. Nella realtà italiana Leo Valiani, per esempio; in quella francese, Paul Nizan.
È significativo che a riscoprire la parabola politica di Nizan, compresa la sua uscita clamorosa dal Pcf per protestare contro l’appoggio e la difesa del Patto Molotov-Ribbentrop da parte della stragrande maggioranza degli iscritti, sia riproposta molto tempo dopo, nel 1960. Ed è significativo che la voce capace di promuovere la sua figura sia Jean-Paul Sartre (di nuovo allora con una replica del Pcf alquanto supponente e liquidatoria). Fare i conti con quella figura politica e culturale, controversa e inquieta, infatti non voleva dire solo riconsiderare la scena dell’agosto 1939, a prendere in carica la scena della morte di Nizan, morto “in esilio” sulla spiaggia di Dunkerque nel maggio 1940, con le «spalle rivolte al mare», insieme a ciò che rimaneva dell’esercito francese e delle truppe inglesi, mentre la maggior parte dei suoi ex-compagni di partito arrivano persino a gioire dell’ingresso delle truppe del Reich a Parigi a fine giugno 1940 e”L’Humanité” faceva richiesta pubblica e formale di riprendere le pubblicazioni (a fine giugno 1940) confidando nella benevolenza del governo nazista, in nome della propria “indifferenza” alla caduta della Francia.
http://fondazionefeltrinelli.it/22-agosto-1939-il-patto-molotov-ribbentrop/

giovedì 19 settembre 2019

Un omaggio alla Hollywood di una volta






Simone Lorenzati, Il nono film di Tarantino 

Los Angeles, nel 1969. E' probabilmente questa, prima ancora della storia coi suoi personaggi, la vera protagonista di C'era una volta a... Hollywood, film di Quentin Tarantino uscito ieri in Italia. Il periodo è noto, quello del Flower Power, un mondo che si illude di cambiare tra sogni e Comuni, tra felicità e utopia rivoluzionaria, mentre la realtà statunitense lo riporta al quotidiano orrore della Guerra in Vietnam. Tuttavia il movimento hippy cresce, la protesta, che carica di giovani le strade, si percepisce anche nel Cinema, eclissando vecchi miti a favore di qualcosa di nuovo. E Rick Dalton (Leonardo Di Caprio) rappresenta esattamente questo. Protagonista, ad inizio decennio, di una serie western di successo, si ritrova ora a fare i conti con il tempo che, inesorabilmente ma velocemente, passa. Rick non ha ormai più alcun ruolo da protagonista positivo, insomma non veste da tempo i panni di un qualche personaggio che crei empatia con il pubblico. Al contrario viene utilizzato come una vecchia gloria da far prendere a pugni dal nuovo eroe di turno, che cambia, al contrario del suo ruolo di cattivo ad aeternum. Accanto a lui c'è la sua controfigura, l'amico fraterno Cliff Booth (Brad Pitt), che oltre ad essere anche suo autista, è quasi il factotum di Rick. E partendo da loro due Tarantino porta effettivamente lo spettatore all'interno di quel mondo e di quell'epoca, grazie a un eccezionale lavoro degli scenografi che ci proiettano nella Los Angeles di mezzo secolo fa. Il tutto condito dalla perfezione dei costumi, delle musiche, nonché della pellicola in 35mm, 16mm (e addirittura 8mm) utilizzata dal direttore della fotografia Robert Richardson per riportare quel tipo di d'immagine, pastosissima, distante anni luce dall'odierno digitale. A ciò si aggiunga che il viaggio, sia nel tempo sia in quel Cinema, è ulteriormente accentuato da continui passaggi tra colore e bianco e nero e da un aspect ratio che passa dal classico 2.39:1 fino al televisivo 1.33:1, dando una reale vita autonoma al grande schermo. Da ogni inquadratura trasuda la passione del regista nei confronti di quell'epoca e del Cinema di quegli anni. Insomma assistiamo ad una vera e propria dichiarazione d'amore che si traduce in lunghissimi quadri dedicati ai paesaggi o al percorso in macchina da un luogo all'altro della LA che fu. Ma non solo il Cinema, in quanto anche la televisione di quel momento, anche gli stessi mestieranti di tv e Cinema, vengono racchiusi in quello stesso abbraccio. Basti pensare che uno dei protagonisti della pellicola nella vita fa lo stuntman, ossia uno che si sporca le mani, e si rompe le ossa, per vivere di Cinema. Ed è sostanzialmente qui la profonda, profondissima differenza, rispetto ai precedenti otto lavori tarantiniani, compreso il penultimo, The Hateful Eight. Niente dialoghi intensi (meglio ci sono, ma più sfumati), molto meno splatter (ad eccezione del finale) poiché in C'era una volta a... Hollywood tutto ciò viene meno. Tarantino sceglie, questa volta, di parlarci e di illustrarci un mondo, piuttosto che di raccontarci una storia. E così Rick Dalton e Cliff Booth, senza poi dimenticare la presenza sullo sfondo di una certa Sharon Tate (Margot Robbie), compagna del regista Roman Polański, diventano i protagonisti di un racconto di vita vissuta che ama fondere la realtà storica con la fantasia sfrontata, tuttavia rispettosa, tipica di Tarantino. Cosa ne esce è un lungo (due ore e quaranta di durata) omaggio al cinema di fine anni ’60 inizio ’70, in cui emerge un regista diverso, probabilmente più attempato, che punta meno su violenza e parolacce e più su dettagli e inquadrature. Certo, molti appassionati del suo cinema potrebbero non accettare una scelta simile. Deludente, allora? Chi scrive, che è da sempre un amante del regista italoamericano, ritiene assolutamente di no, se si riesce a concepire il film ponendosi nell’ottica con cui il regista desiderava realizzarlo. Un Tarantino diventato cineasta che, tuttavia, non rinuncia, anche qui, ad alcune sue prerogative (si pensi ai dialoghi tra Rick e la piccola attrice, tra lui e Booth). Insomma un intimo omaggio a un cinema, ad una intera industria cinematografica verrebbe da dire, ormai persi nei ricordi dei loro stessi protagonisti.
Fine della conversazione in chat








martedì 17 settembre 2019

Il culto dell'immagine riflessa


 All'amico appostato


Presta bene orecchio,
amico, a quel che ti dico.
Tu miri contro uno specchio.
Sparerai a te stesso, amico.
[Giorgio Caproni, Tutte le poesie, Milano, Garzanti 2013 (8), p. 593]

 

sabato 14 settembre 2019

Donne in cerca di un marito

 
La copertina del libro di Irene Soave «Galateo per ragazze da marito. Come non concedersi quasi mai, quasi a nessuno e riuscire a non sposarsi lo stesso» (Bompiani, pagine 384, euro 17)



Beppe Severgnini, Irene Soave, il libro. Il bon ton millennial dell’amore, Corriere della Sera, 10 settembre 2019

Soave non è solo il cognome: è la modalità d’indagine, la tecnica con cui l’autrice di Galateo per ragazze da marito (Bompiani) dispensa giudizi e punizioni. Questo è il caso fortunato di un libro con un titolo apparentemente frivolo che si rivela una lettura appassionante (spesso accade il contrario: titoli appassionanti, letture frivole). Sotto la copertura del gioco letterario, c’è la condizione femminile contemporanea (matrimonio, reputazione, dignità, libertà, lavoro, sesso, piacere) e la storia sociale del rapporto tra donne e uomini, estratta dai manuali per signore e signorine pubblicati tra l’Unità d’Italia e il Sessantotto, di cui l’autrice è un’appassionata collezionista. Non so come sia riuscita a creare questo intreccio, Irene. Ma c’è riuscita.

 Un esempio? Il capitolo Il rapporto con le sposate si apre con l’esilarante racconto di una festa dove l’autrice si presenta con grandi aspettative e in abiti seducenti — «top nero, jeans neri, rossetto scarlatto, tacchi che potevano configurare un abuso edilizio» — e trova soltanto mamme con bambini (ventotto), che la guardano storto se parla coi mariti. Altri capitoli fulminanti: l’abitazione, il ballo, la vacanza, il ristorante (chi paga?), i consigli («Per le più negate, il manualetto Come si conquistano gli uomini, 1948, propone qualche frase da dire ai maschi: “A occhi chiusi riconoscerei la sua stretta di mano. Così leale!”, “Già le nove, come passa in fretta il tempo con lei…” e così via. Fa sorridere, ma sospetto che funzioni»).

 A questo punto, prima di proseguire, devo confessare il mio conflitto di interesse. Ho conosciuto Irene alla scuola di giornalismo, e quando nel 2017 mi è stato chiesto di dirigere «7», il settimanale del «Corriere», l’ho voluta in squadra (ora lavora alla redazione Esteri). Ottimo acquisto per noi, ma — posso dirlo? — una buona palestra per lei. Irene scriveva bene, ma non così bene. Aveva in testa troppe idee, troppe letture, troppa esuberanza, troppe battute, troppe secondarie: e spesso cacciava tutto nella stessa frase. Ma scrivere è rinunciare. Irene lo ha capito: è rimasta brillante, ed è diventata precisa. Questo libro ne è la prova.
Scrittori si diventa. Credo che Galateo per ragazze da marito collochi Irene Soave tra le migliori osservatrici del costume italiano. L’autrice mostra un’autoironia formidabile, quasi rischiosa; e la freschezza che altre firme femminili hanno perduto. Erano ironiche, sono diventate sarcastiche; erano affascinate dal mondo, sono stancamente mondane; erano attente ai cambiamenti sociali, ora curano il proprio profilo social. Leggendo Galateo per ragazze da marito mi è successo di scoppiare a ridere (buon segno). Come quando l’autrice, nel capitolo Farsi corteggiare, saltando da Donna Letizia (un suo mito) alla Marchesa Colombi, elenca con sorridente ferocia alcuni tipi contemporanei (la preziosa, la reclusa, la spregiudicata, etc). Sulla gattamorta, si esalta. Sentite qui: «La gattamorta migliore che conosco è una signorina con un discreto prognatismo e il culo un po’ equino, che tende addirittura a dimenticarsi spesso la ceretta per i baffi. È irresistibile. Anche per le femmine. È la prima cui le amiche chiedono un parere e la prima che le colleghe, accortesi dell’ascendente che ha sui capi e i vicini di scrivania, emarginano in ogni ufficio in cui mette piede (…). Per gli uomini invece è una mina vagante. Negli anni abbiamo visto capitolare al suo cospetto chiunque. Brutti cui dava ascolto, belli da cui non era intimidita, potenti che faceva sentire potentissimi, sfigati che faceva sentire potenti, un collega con fama di imprendibile che ci aveva sedotte e abbandonate tutte». Credo che nella Milano dei media scatterà la corsa a riconoscere i personaggi. Irene, prepàrati.
Un saggio femminista, a suo modo: perché è un libro femminile. Un libro con una tesi provocatoria, che non viene mai dichiarata, ma percorre le pagine. Questa: in alcuni dei nuovi comportamenti sentimentali dei millennial — generazione cui l’autrice, classe 1984, appartiene — si intravedono preoccupazioni e abitudini classiche: la cura per l’abbigliamento, la villeggiatura tattica, l’intromissione delle mamme, l’addio al nubilato, l’anello di fidanzamento, l’importanza spropositata della coreografia nei matrimoni. In sostanza: tutto cambia e poco cambia. Questo Galateo delle ragazze da marito è un gioco, non più un codice. Ma è così diverso da quello che ha dominato le vite delle nostre mamme e delle nostre nonne?
P.S. Nella prefazione, l’autrice rivela la passione per i galatei e i manuali femminili. Scrive: «Alcuni li ho trovati in casa, molti li ho comprati e fotocopiati, qualcuno l’ho rubato (lo so! Ma certi titoli sono introvabili!)». Ebbene: i volumi che le avevo prestato sono stati recuperati dopo un anno, in maniera rocambolesca. Come, non posso dirlo. Magari Soave lo metterà nel prossimo libro. Vero, Irene?

giovedì 12 settembre 2019

La luna in esposizione



Simone Lorenzati


Era il 21 Luglio 1969. E l'uomo metteva piede sulla luna, ossia sul corpo celeste che più di ogni altro ne ha, da sempre, ispirato grandi avventure, esplorazioni fantastiche e letterarie, che vanno da Luciano di Samosata a Dante, da Ariosto a Leopardi, da Verne a Calvino. Nel 1865, poi, esce il libro di Jules Verne “Dalla Terra alla Luna”. Ed è proprio questo il titolo della mostra, a Torino (Palazzo Madama), in programma fino al prossimo 11 Novembre. A cinquant’anni esatti dallo sbarco del primo uomo sulla Luna, insomma, si possono ammirare oltre sessanta opere tra dipinti, sculture, fotografie, disegni e oggetti di design che raccontano l’influenza dell’astro d’argento su arte, ed artisti, dall’Ottocento al 1969. Ed ecco libri, romanzi, fumetti, giocattoli e gadget, appartenenti a Piero Gondolo della Riva, in un ambiente che diventa una sorta di stanza delle meraviglie lunari. Già a partire dall’Ottocento nell’arte appare il tema del viaggio lunare, legandosi spesso a tematiche di esotismo, di progresso delle nazioni, di colonialismo anche se la Luna rimane luogo raggiungibile unicamente se dotati di fantasia. I pittori romantici, nello specifico, affrontano il tema del chiaro di luna (De Gubernatis, Bagetti e Carutti di Cantogno) muovendosi tra la malinconia ed il sogno. Non mancano nemmeno opere delle avanguardie storiche: le atmosfere rarefatte e fiabesche di Marc Chagall, la metafisica decisa di Felice Casorati, la calligrafia raffinata e minuta di Paul Klee, il surrealismo esistenziale di Max Ernst e di Alexander Calder. Nella seconda parte del Novecento lo spazio diventa, invece, una vera sorta di ossessione per l’arte: si guarda ad un mondo che vada oltre al nostro, lo si vorrebbe afferrare, in bilico tra fantasia e realtà. In effetti Concetto spaziale è il titolo dei lavori più famosi di Lucio Fontana. Giulio Turcato, poi, definisce Superfici lunari i suoi monocromi prodotti con materiali particolarissimi, mentre Robert Rauschenberg realizza la serie di multipli Stoned Moon (1968) e Mario Schifano ne riporta la visione attraverso la televisione, con Paesaggi TV. In mostra, oltre ad altri autori più importanti come Yves Klein, il pittore simbolista Karl Wilhelm Diefenbach, Emilio Isgrò, Arturo Nathan e il concettuale belga Paul Van Hoeydonck la cui opera fu portata sulla Luna e lì lasciata dalla missione Apollo 12. Presenti, infine, alcune immagini della Nasa e oggetti di design degli anni ’60 di autori come Vico Magistretti, Achille Castiglioni, Piero Fornasetti. Giunti al 1969 la mostra termina con una scultura di Fausto Melotti. Le opere esposte, a cura di Luca Beatrice e Marco Bazzini, provengono da musei torinesi (GAM, Fondazione Accorsi-Ometto, Pinacoteca Albertina e Museo Nazionale del Risorgimento), nonché da importanti musei, istituzioni e collezioni private italiane ed europee, tra i quali Palazzo Reale di Napoli, Museo Correr di Venezia, Certosa di San Giacomo di Capri, Mart di Trento e Rovereto, Collezione Intesa San Paolo, Fondazione Marconi e Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano, Fondazione Barilla di Parma, Archivio Gastone Novelli di Roma.
Un viaggio tra Terra e Luna che, complice la cornice sempre affascinante di Palazzo Madama, si rivela un misto di storia e di fantasia, di realtà e di pensieri sognanti. Una meta verso cui tendere o, semplicemente, da cui rimanere incantati.





mercoledì 19 giugno 2019

Omaggio a Marc Bloch



MARC BLOCH. L’attualità stringente del suo pensiero, a settantacinque anni dalla morte. Il 16 giugno 1944, dopo mesi di prigionia e torture in quanto resistente, veniva fucilato dai nazisti a Lione. Si interroga sulla natura del potere, sui legami che tengono avvinti i ceti subalterni ai gruppi dominanti
Claudio Vercelli, Lo straniamento dello storico, il manifesto, 18 giugno 2019
Il racconto dello storico è quello che, per definizione, raccoglie e restituisce il senso del mutamento, in quanto condizione perenne dell’uomo, così come della complessa stratificazione di elementi e attori che stanno alla base del processo temporale. Marc Bloch, di cui in queste settimane ricorre l’anniversario della morte, fucilato dai nazisti a Lione il 16 giugno 1944, dopo mesi di prigionia e torture in quanto resistente, è forse tra quanti meglio hanno saputo rendere, attraverso la propria scrittura, la sensazione di straniamento che il fare e raccontare la storia induce in chi si adopera in un tale esercizio.
Tutta la sua scrittura, infatti, è sospesa tra la necessità di dare conto in maniera plausibile e accertata delle trasformazioni che il tempo induce nella collettività e, dall’altro lato, della difficoltà di discernere il fatto oggettivo dalle rappresentazioni che di esso circolano nel momento stesso in cui questo si verifica. Quella che lo accompagnava nelle sue riflessioni non è solo la questione delle manipolazioni deliberate bensì della reale conoscibilità degli eventi.
IL SUO TESTO più importante, I re taumaturghi, del 1924, oltre a essere un eruditissimo esercizio di storia della mentalità, interrogandosi su alcuni aspetti del «doppio corpo» (secolare e, al medesimo tempo, miracoloso) dei sovrani, costituisce una cavalcata di straordinaria vivacità nell’antropologia medievale. Se il ruolo dello storico non è solo quello di identificare degli eventi ma di stabilire concatenazioni logiche attraverso dei nessi, allora l’impegno che egli deve devolvere è quello di calarsi in un’epoca e coglierne i tratti prevalenti.
Non di meno, Bloch si interroga sulla natura del potere, ossia sui legami che tengono saldamente avvinti classi e ceti subalterni ai gruppi dominanti. Anche altre opere di medievistica, il suo campo d’azione per eccellenza, come Re e servi (1920), I caratteri originali della storia rurale francese (1931) e ancora La società feudale (1939-1940), rispondono a questa esigenza. La necessità di ibridare la ricostruzione storica con quelle altre discipline che si erano venute affermando a cavallo tra il Settecento e il primo Novecento, l’antropologia per l’appunto tra tutte, rimane per lo studioso un esercizio imprescindibile. Poiché il campo simbolico non è il regno della fantasia ma il contesto in cui si stabiliscono rapporti di diseguaglianza destinati a cristallizzarsi nel tempo. Così come anche il luogo delle possibilità, poiché gli uomini sono quello in cui credono e credono nella misura in cui a essi è offerta una guida che percepiscono come autorevole, ossia comprensiva, protettiva e riparatoria.
D’altro canto, la questione di capire la storia per Bloch si lega a quella di manifestare se stesso, la sua personalità, che, a sua volta, demanda alla necessità di assumersi le responsabilità dettate dalle circostanze. La sua stessa scelta, quando era oramai ultracinquantenne, di militare nella Resistenza francese, si inscrive chiaramente in questa dimensione. Ciò che studiò, disse, scrisse fu essenzialmente qualcosa che riportava a un dato personale, prima ancora che professionale. Ovvero, qualcosa che faceva dell’esercizio intellettuale un impegno morale quotidiano. Così come il racconto storico deve rendere intelligibile il presente, essendo altrimenti un esercizio barocco, autoreferenziato, in buona sostanza totalmente sterile.
BLOCH ERA CRESCIUTO intellettualmente in quella Francia che aveva digerito con grande difficoltà i miasmi dell’affaire Dreyfus, che si era confrontata con il carnaio della Prima guerra mondiale e che poi aveva seguito la lunga traiettoria declinante della Terza Repubblica. Vichy, da questo punto di vista, avrebbe costituito solo la tappa terminale di un percorso dove al declino militare, politico e geostrategico la Francia, e la stessa Europa, accompagnavano quello morale. L’assumersi una responsabilità politica implicava quindi il rifiutare la decadenza che la «collaborazione» con l’occupante portava invece con sé.
Ma anche denunciare, a prescindere da qualsiasi affiliazione partitica, i limiti di un regime liberale, incapace di fare concretamente fronte all’evoluzione della società francese all’insegna di quei principi di emancipazione e integrazione di cui si dichiarava invece integrale depositario. Tre opere sul metodo, prima ancora che di merito, caratterizzano il lavoro di Bloch. Sono le Riflessioni d’uno storico sulle false notizie della guerra, redatte tra il 1914 e il 1915; La strana disfatta, del 1940; l’Apologia della storia, la cui curatela, per le mani di Lucien Febvre, vedrà la luce solo a cose fatte, nel 1949, cinque anni dopo la morte dell’autore. Il tratto comune a scritti tra di loro altrimenti diversi è quello della ricerca urgente di una dimensione simbolica nella quale celebrare il senso degli eventi correnti. Le Riflessioni demandano alla guerra parallela delle dicerie e dei passaparola, che si fa conflitto a sé, capace non solo di condizionare quello materialmente combattuto nelle trincee e sui campi di battaglia ma anche di generare un universo di significati, e con essi di aspettative e quindi di condotte, autonomi dai riscontri di fatto. Dei quali, almeno in parte, condizionano addirittura l’esito.
LA «DISFATTA», scritta sotto l’impellenza della repentina e clamorosa sconfitta francese dinanzi alla guerra lampo tedesca del 1940, è un vero e proprio regolamento di conti generazionale. Poiché al suo centro c’è il tracollo morale del Paese, ossia la rottura del patto tra le diverse parti della società francese, e quindi la consunzione delle ragioni e delle idealità che dal 1789 in poi ne avevano accompagnato la storia. Il disastro, per Bloch, che fu anche militare e come tale ragionò sulle cronache che lo vedevano chiamato in causa, non giungeva inatteso. Tuttavia, le sue proporzioni erano tali da rendere impossibile, con le sole forze allora presenti, il ricomporre le cesure che si erano nel mentre generate.
Anche per via di una tale premessa, lo storico sceglierà di lì a non molto la strada della Resistenza, vista come l’unico percorso possibile per dare un futuro non solo al suo Paese ma all’intero Continente, dinanzi al rullo compressore nazista del «nuovo ordine europeo». Lo stesso lavoro dello storico diveniva peraltro impossibile nell’asfissiante e mortificante regime di occupazione. Impraticabile non solo materialmente ma soprattutto moralmente, dinanzi alla decadenza dei quadri culturali e ideologici di un’intera collettività. L’Apologia, quindi, risponde anche all’esigenza di fare fronte ad un lavoro di ricostruzione, non esclusivamente intellettuale, del senso del passato, per meglio intendere la natura dell’intervento politico diretto sul presente.
D’ALTRO CANTO, Marc Bloch se precedentemente si era interrogato sul tessuto connettivo delle società feudali, sulle infinite ramificazioni delle dipendenze, delle sudditanze e delle credenze, insieme alla forza centripeta dei differenziali sociali (il paradosso della diseguaglianza che lega invece che dividere), con le opere redatte frammentariamente a ridosso della tragedia bellica cerca invece di rendere conto della radice di una sconfitta che interpreta e vive come evento totale.
L’impreparazione bellica è solo un aspetto di quella che viene intesa come una resa definitiva. Alla mobilità delle truppe tedesche, specchio efficace di un’intraprendenza feroce, disinvolta e amorale della società nazista, si contrappone quell’inerzia dell’esercito francese che è il prodotto del lungo stallo della Terza Repubblica (quella delle «biblioteche dagli scaffali vuoti»).
La destra nazionalista, fingendo di tradire le sue stesse premesse, si consegna allora all’occupante, coltivando l’inconfessabile desiderio di riceverne un dividendo, mentre ciò che resta dell’opposizione di sinistra, afasica e inconsistente, non riesce neanche a concepire quale possa essere l’esigenza di un discorso sulla rigenerazione nazionale. L’una, traditrice, così come l’altra, inessenziale, sono semmai destinate a essere surclassate dalla signoria tedesca. In una Francia sottomessa, dove le classi abbienti contrattano il regime di occupazione nel nome della compromissione, i ceti medi e la piccola borghesia cercano una finta normalità che sarà l’anticamera della collaborazione nei suoi aspetti più livorosi e intollerabili e le comunità lavoratrici si piegano a una visione particolarista e corporativa del proprio ruolo.
LO STORICO, che avrebbe senz’altro proseguito nel suo lavoro se non fosse stato ucciso anzitempo, coglie i lineamenti di questo drastico mutamento di quadro. Non fa in tempo ad ultimare l’affresco di un’epoca che lo vede diretto protagonista, come militante politico. E tuttavia riesce ancora a formulare, tra le righe, l’esigenza di un’altra Europa, così come il bisogno di un’altra idea di nazione. L’una e l’altro prodotto della disillusione e del disincanto. Quanto di quella lezione su un tramonto repentino, che però ha lontane radici, si riproponga per il nostro presente, sarà il futuro prossimo venturo a raccontarcelo. In un’età, la nostra, che è anch’essa di declino, per alcuni aspetti comparabile a quella che Bloch visse sulla sua viva carne

domenica 9 giugno 2019

La vittoria della socialdemocrazia danese


Gianpasquale Santomassimo

Avendo deciso da tempo, per dogmatismo europeista, che la politica economica e sociale dell'austerità non può essere disattesa, se non a parole che diventano flatus vocis, la visione del mondo della sinistra italiana, moderata e radicale, si è completamente rinserrata nella sfera valoriale ed etica, rubando il mestiere alle parrocchie e alle benemerite istituzioni di volontariato. 
Questo fa sì che quando una forza socialista come quella danese decide di infrangere i limiti imposti da Bruxelles, rilanciando sul terreno del welfare e dell'ecologia, ma proponendo una seria politica di controllo dei flussi immigratori che serva anche ad assicurare diritti e benefici agli immigrati che lavorano nel paese, il pilota automatico della sinistra senza popolo traduca tutto questo come "xenofobia", senza riuscire ancora a porre le basi per una dignitosa analisi della propria sconfitta.


Massimo Lizzi

I socialdemocratici danesi avrebbero vinto le elezioni con una politica rosso-bruna: ritorno al Welfare e linea dura contro l'immigrazione. Una politica che ha paura di condividere il Welfare con gli immigrati e non vede l'opportunità di mantenerlo e rafforzarlo proprio grazie a loro.
La "linea dura" è una politica assimilazionista e vessatoria sul piano simbolico: asilo obbligatorio per i figli degli immigrati dall'età di un anno, separati per almeno 25 ore settimanali dalle loro famiglie per essere educati ai valori culturali e religiosi danesi; esclusione dal servizio sanitario nazionale per le famiglie che si sottraggono al programma di educazione; pene più alte, persino doppie per i reati commessi nelle zone ghetto, i quartieri degli immigrati; espulsione per le famiglie che con i loro bambini si trattengono troppo nel paese d'origine; confinamento in un isolotto per i richiedenti asilo respinti; obbligo di stringere la mano ai funzionari pubblici nelle cerimonie di regolarizzazione per gli immigrati accolti, costringendoli dunque al contatto fisico con persone dell'altro sesso; esternalizzazione a paesi terzi, per il trattenimento delle quote di accoglienza spettanti alla Danimarca (tipo gli accordi con la Turchia).
Queste sono le misure "severe" o "rigorose" del governo danese di centrodestra, appoggiate e rilanciate dai socialdemocratici: aggravare la vita degli stranieri, in particolare quelli di origine musulmana, per scoraggiarne la permanenza e i nuovi arrivi. Misure al limite o oltre il limite del rispetto dei diritti civili e dei diritti umani, che prima o dopo si riverseranno sugli stessi danesi.