Simone Lorenzati, Il nono film di Tarantino
Los
Angeles, nel 1969. E' probabilmente questa, prima ancora della storia
coi suoi personaggi, la vera protagonista di C'era una volta
a... Hollywood, film di Quentin Tarantino uscito ieri in Italia.
Il periodo è noto, quello del Flower Power, un mondo che si illude
di cambiare tra sogni e Comuni, tra felicità e utopia
rivoluzionaria, mentre la realtà statunitense lo riporta al
quotidiano orrore della Guerra in Vietnam. Tuttavia il movimento
hippy cresce, la protesta, che carica di giovani le strade, si
percepisce anche nel Cinema, eclissando vecchi miti a favore di
qualcosa di nuovo. E Rick Dalton (Leonardo Di Caprio) rappresenta
esattamente questo. Protagonista, ad inizio decennio, di una serie
western di successo, si ritrova ora a fare i conti con il tempo che,
inesorabilmente ma velocemente, passa. Rick non ha ormai più alcun
ruolo da protagonista positivo, insomma non veste da tempo i panni di
un qualche personaggio che crei empatia con il pubblico. Al contrario
viene utilizzato come una vecchia gloria da far prendere a pugni dal
nuovo eroe di turno, che cambia, al contrario del suo ruolo di
cattivo ad aeternum. Accanto a lui c'è la sua controfigura, l'amico
fraterno Cliff Booth (Brad Pitt), che oltre ad essere anche suo
autista, è quasi il factotum di Rick. E partendo da loro due
Tarantino porta effettivamente lo spettatore all'interno di quel
mondo e di quell'epoca, grazie a un eccezionale lavoro degli
scenografi che ci proiettano nella Los Angeles di mezzo secolo fa. Il
tutto condito dalla perfezione dei costumi, delle musiche, nonché
della pellicola in 35mm, 16mm (e addirittura 8mm) utilizzata dal
direttore della fotografia Robert Richardson per riportare quel tipo
di d'immagine, pastosissima, distante anni luce dall'odierno
digitale. A ciò si aggiunga che il viaggio, sia nel tempo sia in
quel Cinema, è ulteriormente accentuato da continui passaggi tra
colore e bianco e nero e da un aspect ratio che passa dal classico
2.39:1 fino al televisivo 1.33:1, dando una reale vita autonoma al
grande schermo. Da ogni inquadratura trasuda la passione del regista
nei confronti di quell'epoca e del Cinema di quegli anni. Insomma
assistiamo ad una vera e propria dichiarazione d'amore che si traduce
in lunghissimi quadri dedicati ai paesaggi o al percorso in macchina
da un luogo all'altro della LA che fu. Ma non solo il Cinema, in
quanto anche la televisione di quel momento, anche gli stessi
mestieranti di tv e Cinema, vengono racchiusi in quello stesso
abbraccio. Basti pensare che uno dei protagonisti della pellicola
nella vita fa lo stuntman, ossia uno che si sporca le mani, e si
rompe le ossa, per vivere di Cinema. Ed è sostanzialmente qui la
profonda, profondissima differenza, rispetto ai precedenti otto
lavori tarantiniani, compreso il penultimo, The Hateful Eight. Niente
dialoghi intensi (meglio ci sono, ma più sfumati), molto meno
splatter (ad eccezione del finale) poiché in C'era una volta a...
Hollywood tutto ciò viene meno. Tarantino sceglie, questa volta, di
parlarci e di illustrarci un mondo, piuttosto che di raccontarci una
storia. E così Rick Dalton e Cliff Booth, senza poi dimenticare la
presenza sullo sfondo di una certa Sharon Tate (Margot Robbie),
compagna del regista Roman Polański, diventano i protagonisti di un
racconto di vita vissuta che ama fondere la realtà storica con la
fantasia sfrontata, tuttavia rispettosa, tipica di Tarantino. Cosa ne
esce è un lungo (due ore e quaranta di durata) omaggio al cinema di
fine anni ’60 inizio ’70, in cui emerge un regista diverso,
probabilmente più attempato, che punta meno su violenza e parolacce
e più su dettagli e inquadrature. Certo, molti appassionati del suo
cinema potrebbero non accettare una scelta simile. Deludente,
allora? Chi scrive, che è da sempre un amante del regista
italoamericano, ritiene assolutamente di no, se si riesce a concepire il
film ponendosi nell’ottica con cui il regista desiderava
realizzarlo. Un Tarantino diventato cineasta che, tuttavia, non
rinuncia, anche qui, ad alcune sue prerogative (si pensi ai dialoghi
tra Rick e la piccola attrice, tra lui e Booth). Insomma un intimo
omaggio a un cinema, ad una intera industria cinematografica verrebbe
da dire, ormai persi nei ricordi dei loro stessi protagonisti.
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