Renzo Guolo
Il califfo nero
Quella sfida globale per guidare l’islam
la Repubblica, 6 luglio 2014
Esce allo scoperto il Califfo nero. Era una mossa attesa. Non si innesca
una sfida simbolica di enorme portata, come proclamare la restaurazione
del centro politico e religioso unitario dell’islam, senza uscire dalla
clandestinità. Almeno da quella mediatica.
Per potersi imporre a uno
scettico, frastornato, frammentato, mondo sunnita, Al Baghdadi ha
bisogno di farsi conoscere. E, soprattutto, riconoscere. Oltre i confini
del mondo delle avanguardie jihadiste.
Il nuovo ruolo gli impone
l’inevitabile attenuazione delle regole di sicurezza che ne avevano sin
qui occultato il volto. Almeno quello noto agli organi di sicurezza
americani e iracheni, che ne avevano rilevato le fattezze sin dai tempi
della sua detenzione a Camp Bucca, dove sino al 2009 è stato recluso per
aver partecipato all’insurrezione seguita alla caduta di Saddam.
Così,
anche per smentire le insistenti voci di una sua uccisione o ferimento,
forse alimentate ad arte da rivali e intelligence ostili per farlo
“emergere”, il Califfo nero si è fatto riprendere in una moschea di
Mosul. Mentre pronuncia un sermone dall’alto del minbar, il pulpito
usato dai predicatori musulmani. Un particolare meditato. Nella
tradizione islamica, che secondo i radicali si chiude dopo la scomparsa
dei primi quattro successori del Profeta, i cosiddetti ”ben guidati”, il
califfo è insieme leader politico e religioso della umma, la comunità
di fede islamica. Parlando in una moschea Al Baghdadi mette l’enfasi sul
suo ruolo di capo religioso, legittimato dall’essere un dotto in
scienze islamiche. Dunque un leader che, contrariamente ai molti
autodidatti religiosi, spesso di formazione tecnica e scientifica che
hanno guidato negli ultimi decenni la galassia jihadista, conosce
davvero quella “teologia della legge” che è l’islam. E ne rivendica, in
nome del gergo dell’autenticità tipico delle neotradizioni, il senso del
messaggio originario.
Quanto alle capacità politiche e militari,
altra prerogativa tipica del Profeta Muhammad, al Baghdadi le ha già
dimostrate nel momento in cui ha trasformato l’Isis da un piccolo gruppo
di sconfitti in nucleo combattente capace di controllare buona parte
delle province sunnite irachene e siriane. E di minacciare Baghdad.
Dunque di mettere in discussione, con la sua azione, l’assetto
geopolitico del Medio Oriente. Ormai guadagnata sul campo la
legittimazione politica e militare, Al Baghdadi ha messo l’enfasi sulla
dimensione religiosa. Non a caso l’ufficio propaganda dell’ormai ex-Isis
lo ha presentato come «comandante dei credenti».
Il suo discorso,
pronunciato indossando il turbante nero che evoca l’appartenenza alle
famiglie discendenti dalla tribù del Profeta, ha toccato i temi classici
del radicalismo islamista. Come l’appello ai musulmani a considerare lo
jihad come obbligo personale e a compiere la hijra, la migrazione,
verso lo Stato islamico controllato dalle sue milizie: unico territorio
nel quale, secondo i radicali, sarebbe possibile vivere prima della
vittoria finale, secondo le regole islamiche. Ovvero, sotto il segno
della sharia e la leadership califfale. Affermando che le sorti di Siria
e Iraq non riguardano solo siriani e iracheni ma i musulmani tutti, Al
Baghdadi ha poi voluto ribadire il rifiuto degli stati nazionali e dei
confini nati dal tracollo dell’impero ottomano. Un messaggio che tende a
calamitare, ancor più di quanto accada oggi, l’esodo, interiore e
esteriore, dei mujahidin verso quello che un tempo fu il cuore
dell’impero abbasside. E a rilanciare il messaggio dell’islam come
religione che non riconosce che i legami di fede. Lo stesso accenno alla
conquista di Roma, intesa come centro di riferimento religioso e
spirituale delle “potenze crociate”, indica che nella lotta tra grandi
sistemi culturali universali l’islam radicale non si pone limiti
territoriali, bensì si presenta come forma di dominio globale.
Un
discorso che metterà in allarme, per ovvi motivi, non solo le
cancellerie occidentali e i governi della regione, ma anche Al Qaeda
storica. Forse avremo presto un altro video: quello del Dottore.
Impensabile che Al Zawahiri non si pronunci sul Califfato, istituzione
che nemmeno Bin Laden aveva osato riesumare, ritenendo non ancora
maturi i tempi. Accontentandosi, come faranno in seguito anche i leader
delle organizzazioni regionali qaediste, a proclamare al massimo
l’esistenza di un Emirato. La battaglia, non solo mediatica, tra il
Califfo nero e l’Emiro di Al Qaeda è solo agli inizi. E costringerà
anche gli altri gruppi qaedisti a schierarsi in una battaglia per
l’egemonia che si annuncia senza risparmio di colpi. A meno che
l’ingresso del vessillo nero cerchiato a Baghdad, non renda accettabile
ciò che oggi anche numerosi leader jihadisti ritengono impensabile.
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