La storia? Non è a chilometro zero
il manifesto, 5 luglio 2014
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Mario Isnenghi, nel suo Il mito della grande guerra (il Mulino, pp. 456, euro 14,00), ora ristampato, già quarant’anni fa si adoperava nel descrivere e nell’analizzare le sorgenti culturali, emotive ed affettive di uno spazio identitario collettivo che nello Stato nazionale trova le sue radici come anche la sua legittimazione ultima. Laddove il fondamento dello Stato era e rimane il monopolio della forza ma soprattutto il ricorso ad essa, attraverso la violenza legale praticata come regime di massa.
L’autore ricostruisce la trama culturale e antropologica che accompagna il suo dispiegarsi sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale. Si trattava di un conflitto armato dove al rifiuto di alcuni si contrapponeva l’assenso degli altri, al dolente dissenso di una minoranza la fredda consapevolezza dei molti, all’irrazionalità delle distruzioni la razionalità del produrre per consumare tutto e subito. Laddove i capi opposti si compenetravano vicendevolmente, restituendoci, a distanza di tempo, una storia molto più complicata di quanto non avremmo voluto fosse stata. La medesima cosa sarebbe poi avvenuta con le successive riflessioni, operate in anni a noi più prossimi, sul fascismo e sui suoi esiti al contempo bellicosi e tragici.
Il testo di Isnenghi ha peraltro una sua storia, dettata non solo dal trascorrere degli anni dalla sua prima edizione. Uscito in tempi non sospetti, quando la separazione tra discipline era intesa come un suggello di professionalità, di fatto si segnalò da subito come eretico. Sul piano metodologico come su quello contenutistico.
Nel primo caso perché l’autore fa abbondante ricorso alla letteratura come a uno strumento testimoniale, mentre supporta le sue affermazioni con l’uso, a mo’ di riscontro oggettivo, di diari e documenti non ufficiali. Per la storiografia di allora, ancora fortemente ancorata alla storia politica, e quindi ad un positivismo di fondo, si trattava di un cedimento ad una piegatura soggettivista della comprensione del fatto bellico. Solo a distanza di un decennio e più sarebbero intervenute le opere, tutte in traduzione, di storici di area anglosassone e francofona, come Eric J. Leed o Paul Fussell, che avrebbero definitivamente svincolato il paradigma interpretativo dal debito verso una dimensione giocata sulla sola autonarrazione delle classi dirigenti.
Nel caso dei contenuti, invece, la frattura, che opera a tutt’oggi, è sui significati da attribuire alla vicenda bellica del 1915–1918. L’accentuata propensione verso una storia dei «vinti», che deriva dall’attenzione per la cultura delle classi subalterne, e si incontra ai giorni nostri con l’interpretazione del conflitto come «apocalisse», ossia come assurdità priva di senso, contrasta con l’impostazione di fondo che Isnenghi da sempre sostiene. Confrontarsi con una guerra di massa vuole dire svincolarsi da una lettura morale, che azzera il significato della partecipazione e del coinvolgimento collettivo riducendoli al solo aspetto manipolatorio, quand’anche esso sia particolarmente pronunciato, come nelle vicende belliche moderne.
La guerra, rileva l’autore, sta nel campo prospettico della contemporaneità non come sopravvivenza di trascorsi barbari, ovvero come segno di incompiutezza intellettuale. Semmai l’analisi delle tantissime fonti che lo storico va facendo rivela non solo la razionalità ma anche un’inquietante ragionevolezza, per una parte dei protagonisti di quel tempo, nella scelta del ricorso alle armi. E se l’ubriacatura nazionalista ebbe in non pochi casi il sopravvento, salvo poi in parte doversene ravvedere, non di meno l’idea di nazione come fatto compiuto trovò nelle trincee, ben più che nelle officine, un’opportunità che le élite liberali non avrebbero altrimenti mai potuto offrirle.
Non è un caso, quindi, se a confronto armato terminato, ad impossessarsi efficacemente e durevolmente di questo risultato, trasformato per l’appunto in «mito», sarebbero poi stati i movimenti di mobilitazione di massa che, dalla traduzione del conflitto politico in prosecuzione permanente di quello bellico, trassero buona parte delle loro fortune. La rilettura del volume ci porta quindi verso nuovi orizzonti di riflessione. Dinanzi al rifiuto nei confronti delle grandi ricostruzioni, che è venuto affermandosi in questi anni, laddove queste ultime sono declinate poiché denunciate come inefficaci da una storiografia che fatica a liberarsi dall’abbraccio mortale con l’ipertrofia della storia personale e individuale, il bisogno di una autobiografia di massa torna a prendere consistenza.
Dal dettaglio al globale
Isnenghi denuncia, ad esempio, il rischio di quella che chiama una «storiografia a chilometro zero», dove il localismo si sposa all’incapacità – o all’indisponibilità – ad una visione d’insieme. Le celebrazioni che l’Italia si appresta a fare del centenario rischiano infatti di ridursi al rimando enfatico e acritico al «sacrificio». Questo procedimento è consono allo spirito del tempo che stiamo vivendo, dove l’enfatizzazione e l’apologia dello spazio personale contrasta con il bisogno di trovare dei comuni denominatori intersoggettivi.Lo specchio rovesciato della globalizzazione si traduce nella chiusura mentale verso i grandi trend, caratterizzati, secondo un certo comune sentire, dall’impossibilità di essere raccontati e valutati criticamente. La descrizione e la comprensione della Grande guerra diventano così il campo di verifica di logiche che rinviano immediatamente all’oggi.
L’intero volume ruota intorno alla lettura critica e comparata dell’infinito corpo letterario che il conflitto del 1915–1918 ci consegna. Una guerra non solo di pallottole ma anche di carta. Una guerra a più livelli, che viene restituita ai suoi stessi protagonisti non dall’esperienza materiale in quanto tale, e dalla sua successiva memoria, bensì dalla traslazione eroicizzante o demoniaca che di essa viene sedimentata nella coscienza degli italiani. Il trait d’union è la dimensione, al contempo iniziatica e formativa, di un’impresa collettiva dove, per la prima volta, sotto il paradigma della rigenerazione, si formula un patto di appartenenza che lega l’individuo alla comunità nazionale.
Il ruolo degli intellettuali è, da questo punto di vista, strategico. Leggerlo come il solo prodotto di una mistificazione è quanto di più riduttivo possa essere fatto. Se già la Francia del caso Dreyfus aveva promosso l’informazione al rango di veicolo nella costituzione di una opinione pubblica, il racconto della Grande guerra assume per gli italiani il significato di paradigma di un’appartenenza comune. Quella che deriva dall’identità dettata dagli spazi dello Stato nazionale. Morire per esso indica non solo che ad esso si appartiene ma che esso stesso ci appartiene.
Sulla illusorietà di tale convincimento sarà poi inutile, a conti fatti, sprecare troppe parole, essendo invece il solido terreno di affermazione del fascismo, nell’età della «nazionalizzazione delle masse». Le quali, negli stessi campi di battaglia, avevano già rivelato di temere di potere perdere le loro catene, in mancanza di altri solidi appigli. Un riscontro inquietante, che vale per il passato come per l’immediato presente.
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Commento dell'autore
Oramai non leggiamo più i soli avvenimenti ma rileggiamo ciò che su di essi è stato scritto nella loro qualità di fonti secondarie. Isnenghi ha aperto una strada ma, oggi, da solo è improponibile. Diventando una storia intellettuale (o anche una storia degli intellettuali) della/durante la guerra. Che è un verso oramai esplorato, anche molto (troppo) compiaciutamente. Laddove a certuni parrebbe di potere dire che si conoscono le cose solo se le si patisce (e le si sublima nelle meta-costruzioni). E' il rischio dell'ungarettismo reale ("attivo ed operante"), per intenderci. (La categoria, segnatamente. non l'ha creata il palindromico Asor Rosa, oggi troppo impegnato a denunciare, insieme all'infelice post-De Felice Gallo Nella Loggia, il declino dell'intellettualità medesima.) Come non vibrare dinanzi ai versi del poeta? Ma come non pensare che essi, a volte, possono costituire - ancorché de tutto involontariamente e inconsapevolmente - il reciproco inverso del marinettismo e del dannunzianesimo, quanto meno nell'uso che noi, a distanza di cento anni, d'essi andiamo facendo? E' un cruccio grosso, questo, poiché si inserisce nel mainstream dell'apologia della vittima e del vittimismo. Laddove i meccanismi del potere rimangono ancora più obnubilabili, se non altro perché tra i monumenti ai caduti, eretti dopo il 1918, e l'esaltazione della poveri nelle trincee (o nelle risaie) vedo rischiose, ancorché inconfessabili, similitudini, nel nome della purezza di spirito dei semplici che si concreta nel sacrificio-martirio. Non importa per quale causa...
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