sabato 5 luglio 2014

Il senso profondo di una guerra

Claudio Vercelli
La storia? Non è a chilometro zero
il manifesto, 5 luglio 2014

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Mario Isnen­ghi, nel suo Il mito della grande guerra (il Mulino, pp. 456, euro 14,00), ora ristam­pato, già quarant’anni fa si ado­pe­rava nel descri­vere e nell’analizzare le sor­genti cul­tu­rali, emo­tive ed affet­tive di uno spa­zio iden­ti­ta­rio col­let­tivo che nello Stato nazio­nale trova le sue radici come anche la sua legit­ti­ma­zione ultima. Lad­dove il fon­da­mento dello Stato era e rimane il mono­po­lio della forza ma soprat­tutto il ricorso ad essa, attra­verso la vio­lenza legale pra­ti­cata come regime di massa.
L’autore rico­strui­sce la trama cul­tu­rale e antro­po­lo­gica che accom­pa­gna il suo dispie­garsi sui campi di bat­ta­glia della Prima guerra mon­diale. Si trat­tava di un con­flitto armato dove al rifiuto di alcuni si con­trap­po­neva l’assenso degli altri, al dolente dis­senso di una mino­ranza la fredda con­sa­pe­vo­lezza dei molti, all’irrazionalità delle distru­zioni la razio­na­lità del pro­durre per con­su­mare tutto e subito. Lad­dove i capi oppo­sti si com­pe­ne­tra­vano vicen­de­vol­mente, resti­tuen­doci, a distanza di tempo, una sto­ria molto più com­pli­cata di quanto non avremmo voluto fosse stata. La mede­sima cosa sarebbe poi avve­nuta con le suc­ces­sive rifles­sioni, ope­rate in anni a noi più pros­simi, sul fasci­smo e sui suoi esiti al con­tempo bel­li­cosi e tra­gici.
Il testo di Isnen­ghi ha peral­tro una sua sto­ria, det­tata non solo dal tra­scor­rere degli anni dalla sua prima edi­zione. Uscito in tempi non sospetti, quando la sepa­ra­zione tra disci­pline era intesa come un sug­gello di pro­fes­sio­na­lità, di fatto si segnalò da subito come ere­tico. Sul piano meto­do­lo­gico come su quello con­te­nu­ti­stico.
Nel primo caso per­ché l’autore fa abbon­dante ricorso alla let­te­ra­tura come a uno stru­mento testi­mo­niale, men­tre sup­porta le sue affer­ma­zioni con l’uso, a mo’ di riscon­tro ogget­tivo, di diari e docu­menti non uffi­ciali. Per la sto­rio­gra­fia di allora, ancora for­te­mente anco­rata alla sto­ria poli­tica, e quindi ad un posi­ti­vi­smo di fondo, si trat­tava di un cedi­mento ad una pie­ga­tura sog­get­ti­vi­sta della com­pren­sione del fatto bel­lico. Solo a distanza di un decen­nio e più sareb­bero inter­ve­nute le opere, tutte in tra­du­zione, di sto­rici di area anglo­sas­sone e fran­co­fona, come Eric J. Leed o Paul Fus­sell, che avreb­bero defi­ni­ti­va­mente svin­co­lato il para­digma inter­pre­ta­tivo dal debito verso una dimen­sione gio­cata sulla sola auto­nar­ra­zione delle classi diri­genti.
Nel caso dei con­te­nuti, invece, la frat­tura, che opera a tutt’oggi, è sui signi­fi­cati da attri­buire alla vicenda bel­lica del 1915–1918. L’accentuata pro­pen­sione verso una sto­ria dei «vinti», che deriva dall’attenzione per la cul­tura delle classi subal­terne, e si incon­tra ai giorni nostri con l’interpretazione del con­flitto come «apo­ca­lisse», ossia come assur­dità priva di senso, con­tra­sta con l’impostazione di fondo che Isnen­ghi da sem­pre sostiene. Con­fron­tarsi con una guerra di massa vuole dire svin­co­larsi da una let­tura morale, che azzera il signi­fi­cato della par­te­ci­pa­zione e del coin­vol­gi­mento col­let­tivo ridu­cen­doli al solo aspetto mani­po­la­to­rio, quand’anche esso sia par­ti­co­lar­mente pro­nun­ciato, come nelle vicende bel­li­che moderne.
La guerra, rileva l’autore, sta nel campo pro­spet­tico della con­tem­po­ra­neità non come soprav­vi­venza di tra­scorsi bar­bari, ovvero come segno di incom­piu­tezza intel­let­tuale. Sem­mai l’analisi delle tan­tis­sime fonti che lo sto­rico va facendo rivela non solo la razio­na­lità ma anche un’inquietante ragio­ne­vo­lezza, per una parte dei pro­ta­go­ni­sti di quel tempo, nella scelta del ricorso alle armi. E se l’ubriacatura nazio­na­li­sta ebbe in non pochi casi il soprav­vento, salvo poi in parte dover­sene rav­ve­dere, non di meno l’idea di nazione come fatto com­piuto trovò nelle trin­cee, ben più che nelle offi­cine, un’opportunità che le élite libe­rali non avreb­bero altri­menti mai potuto offrirle.
Non è un caso, quindi, se a con­fronto armato ter­mi­nato, ad impos­ses­sarsi effi­ca­ce­mente e dure­vol­mente di que­sto risul­tato, tra­sfor­mato per l’appunto in «mito», sareb­bero poi stati i movi­menti di mobi­li­ta­zione di massa che, dalla tra­du­zione del con­flitto poli­tico in pro­se­cu­zione per­ma­nente di quello bel­lico, tras­sero buona parte delle loro for­tune. La rilet­tura del volume ci porta quindi verso nuovi oriz­zonti di rifles­sione. Dinanzi al rifiuto nei con­fronti delle grandi rico­stru­zioni, che è venuto affer­man­dosi in que­sti anni, lad­dove que­ste ultime sono decli­nate poi­ché denun­ciate come inef­fi­caci da una sto­rio­gra­fia che fatica a libe­rarsi dall’abbraccio mor­tale con l’ipertrofia della sto­ria per­so­nale e indi­vi­duale, il biso­gno di una auto­bio­gra­fia di massa torna a pren­dere consistenza.

Dal det­ta­glio al globale

Isnen­ghi denun­cia, ad esem­pio, il rischio di quella che chiama una «sto­rio­gra­fia a chi­lo­me­tro zero», dove il loca­li­smo si sposa all’incapacità – o all’indisponibilità – ad una visione d’insieme. Le cele­bra­zioni che l’Italia si appre­sta a fare del cen­te­na­rio rischiano infatti di ridursi al rimando enfa­tico e acri­tico al «sacri­fi­cio». Que­sto pro­ce­di­mento è con­sono allo spi­rito del tempo che stiamo vivendo, dove l’enfatizzazione e l’apologia dello spa­zio per­so­nale con­tra­sta con il biso­gno di tro­vare dei comuni deno­mi­na­tori inter­sog­get­tivi.
Lo spec­chio rove­sciato della glo­ba­liz­za­zione si tra­duce nella chiu­sura men­tale verso i grandi trend, carat­te­riz­zati, secondo un certo comune sen­tire, dall’impossibilità di essere rac­con­tati e valu­tati cri­ti­ca­mente. La descri­zione e la com­pren­sione della Grande guerra diven­tano così il campo di veri­fica di logi­che che rin­viano imme­dia­ta­mente all’oggi.
L’intero volume ruota intorno alla let­tura cri­tica e com­pa­rata dell’infinito corpo let­te­ra­rio che il con­flitto del 1915–1918 ci con­se­gna. Una guerra non solo di pal­lot­tole ma anche di carta. Una guerra a più livelli, che viene resti­tuita ai suoi stessi pro­ta­go­ni­sti non dall’esperienza mate­riale in quanto tale, e dalla sua suc­ces­siva memo­ria, bensì dalla tra­sla­zione eroi­ciz­zante o demo­niaca che di essa viene sedi­men­tata nella coscienza degli ita­liani. Il trait d’union è la dimen­sione, al con­tempo ini­zia­tica e for­ma­tiva, di un’impresa col­let­tiva dove, per la prima volta, sotto il para­digma della rige­ne­ra­zione, si for­mula un patto di appar­te­nenza che lega l’individuo alla comu­nità nazio­nale.
Il ruolo degli intel­let­tuali è, da que­sto punto di vista, stra­te­gico. Leg­gerlo come il solo pro­dotto di una misti­fi­ca­zione è quanto di più ridut­tivo possa essere fatto. Se già la Fran­cia del caso Drey­fus aveva pro­mosso l’informazione al rango di vei­colo nella costi­tu­zione di una opi­nione pub­blica, il rac­conto della Grande guerra assume per gli ita­liani il signi­fi­cato di para­digma di un’appartenenza comune. Quella che deriva dall’identità det­tata dagli spazi dello Stato nazio­nale. Morire per esso indica non solo che ad esso si appar­tiene ma che esso stesso ci appar­tiene.
Sulla illu­so­rietà di tale con­vin­ci­mento sarà poi inu­tile, a conti fatti, spre­care troppe parole, essendo invece il solido ter­reno di affer­ma­zione del fasci­smo, nell’età della «nazio­na­liz­za­zione delle masse». Le quali, negli stessi campi di bat­ta­glia, ave­vano già rive­lato di temere di potere per­dere le loro catene, in man­canza di altri solidi appi­gli. Un riscon­tro inquie­tante, che vale per il pas­sato come per l’immediato presente.

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Commento dell'autore

Oramai non leggiamo più i soli avvenimenti ma rileggiamo ciò che su di essi è stato scritto nella loro qualità di fonti secondarie. Isnenghi ha aperto una strada ma, oggi, da solo è improponibile. Diventando una storia intellettuale (o anche una storia degli intellettuali) della/durante la guerra. Che è un verso oramai esplorato, anche molto (troppo) compiaciutamente. Laddove a certuni parrebbe di potere dire che si conoscono le cose solo se le si patisce (e le si sublima nelle meta-costruzioni). E' il rischio dell'ungarettismo reale ("attivo ed operante"), per intenderci. (La categoria, segnatamente. non l'ha creata il palindromico Asor Rosa, oggi troppo impegnato a denunciare, insieme all'infelice post-De Felice Gallo Nella Loggia, il declino dell'intellettualità medesima.) Come non vibrare dinanzi ai versi del poeta? Ma come non pensare che essi, a volte, possono costituire - ancorché de tutto involontariamente e inconsapevolmente - il reciproco inverso del marinettismo e del dannunzianesimo, quanto meno nell'uso che noi, a distanza di cento anni, d'essi andiamo facendo? E' un cruccio grosso, questo, poiché si inserisce nel mainstream dell'apologia della vittima e del vittimismo. Laddove i meccanismi del potere rimangono ancora più obnubilabili, se non altro perché tra i monumenti ai caduti, eretti dopo il 1918, e l'esaltazione della poveri nelle trincee (o nelle risaie) vedo rischiose, ancorché inconfessabili, similitudini, nel nome della purezza di spirito dei semplici che si concreta nel sacrificio-martirio. Non importa per quale causa...

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