Simone Lorenzati
Il fascino sottile del jazz
Forse il Jazz si sta avventurando su un terreno sconosciuto. Un incontro di sicuro rilievo come Umbria Jazz spinge a tornare sul tema.
Inizierà venerdì 11, per concludersi domenica 20, il tradizionale
appuntamento perugino. Una rassegna decisamente
interessante questa che porterà in città, per un Festival giunto ormai alla 41ma
edizione, musicisti di grande valore. Tra gli altri calcheranno
il palco umbro Buster Williams, John Scofield, Christian Mc Bride,
Paolo Fresu, Roy Hargrove, Wayne Shorter ed Herbie Hancock, Stefano
Bollani, senza dimenticare Al Jarreau. Insomma jazzisti di chiara fama, sia a livello italiano che internazionale. Come sempre i
giovani talenti si mescoleranno ai vecchi leoni
Può Umbria Jazz essere l'occasione per
cercare di capire la direzione che la musica afroamericana sta
imboccando? Tutti concordano sul fatto che ormai da diversi
lustri gli innovatori autentici del jazz siano in via di estinzione se
non trapassati del tutto (già negli anni 70 Frank Zappa amava ricordare
come il jazz non fosse morto ma che emanasse comunque un cattivo odore).
Da Louis Armstrong a Benny Goodman, da Dizzy Gillespie a Chet Baker, da
Bill Evans a Miles Davis, da John Coltrane a quello stesso Herbie
Hancock che vedremo esibirsi a Perugia tra pochi giorni e che negli anni
80 inventò la fusion, ovvero la commistione tra jazz e rock. Da allora
in poi il jazz ha trovato spazio nelle scuole musicali (celeberrima la
bostoniana Berklee School) così come nei Conservatori italiani. Ma vi
sono degli interrogativi anche in questo ambito: il jazz è la musica
dell'improvvisazione: se diventa unicamente studio didattico non rischia
di trasformare l'incerto in certo? Se Armstrong avesse conosciuto la
tecnica musicale sarebbe stato quell'innovatore assoluto che invece è
stato? Charlie Parker, probabilmente uno dei migliori sassofonisti nella
storia del jazz, sosteneva che se suonava nei pub dei bianchi lo
riempivano di soldi ma tutti i presenti battevano le mani al contrario. E
l'esatto opposto, dal punto di vista economico e musicale, avveniva
invece nei locali con clienti di colore. Dunque il jazz si allontana
dalle sue radici ma per andare dove? Ed ancora: deve essere una musica
per tutti, come era in origine, o divenire un genere coltivato solo da
una elite di uditori ed amanti del genere? Tra tanti interrogativi
rimane il fascino di una musica che sa rapire, ma che ormai danza sul
confine tra l'improvvisazione eterodossa e la preparazione curricolare.
Un genere musicale che, a ben guardare, non ha nemmeno una pronuncia
fonetica unitaria. Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere il
chitarrista Barney Kessell che, alla domanda su cosa fosse il jazz,
rispose “Una musica che non suoni né con la testa né con le mani. Ma col
cuore”. E allora che si incominci a soffiare nelle trombe e nei
sassofoni.
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Giordano Montecchi
Django, dio zingaro della chitarra, nato dal rogo dell'emarginazione
l'Unità, 18 gennaio 2010
La storia è di quelle che fanno palpitare: avventura e sventura
mescolate insieme, di quelle storie che non basta un film per
raccontarle. Perché è vita vera, sofferenza, passione, sogni, miseria,
fortuna, genio e sregolatezza. Insomma: Django Reinhardt. Era il 23
gennaio di cent'anni fa. A Liberchies, qualche centinaio di anime poco a
nord di Charleroi, Belgio, faceva un freddo cane. Appena fuori dal
villaggio da qualche giorno c'era una carovana di zingari, cinque o sei
roulottes malandate, coi loro cavalli smagriti, i falò per scaldarsi, e,
al centro, una piccola tenda da circo. Quel giorno, in una delle
roulotte, Laurence Reinhardt partorì un maschietto. Laurence era così
scura di pelle da essere soprannominata «Negros». Era l'acrobata del
circo ed rimasta incinta di Jean Vées, acrobata anche lui e, quando
poteva, musicista: chitarra, violino, un po' di tutto. Lei però non
volle saperne di sposarlo. Il bambino si chiamò Jean-Baptiste, ma presto
gli fu affibbiato l'immancabile soprannome: Django.
IL BANJO A DODICI ANNI
La carovana viaggò ancora molto. Girovagarono per l'Italia, poi
furono in Algeria e infine si fermarono alla periferia di Parigi. Sua
madre gli regalò un banjo, e a dodici anni Django accompagnava già suo
padre e suo zio che si esibivano al caffé del mercato delle pulci di
Clignancourt, poco fuori Parigi. Django era bravo, molto bravo, suonava
la chitarra con una grinta e una velocità da lasciare a bocca aperta. A
diciotto anni aveva già registrato qualche traccia, aveva la sua piccola
fama, ma era e restava uno zingaro e ogni notte tornava a dormire nella
sua vecchia roulotte. La sua seconda nascita avvenne nel 1928 e fu
tragica. Era ottobre, il 26. Jack Hylton, leader di un'orchestra alla
Paul Whiteman piuttosto famosa, gli offrì di entrare nella sua band per
una tournée in Inghilterra. Era fatta! Forse quella sera Django era
eccitato, fatto sta che rovesciò la candela accesa e i fiori di
celluloide da vendere l'indomani davanti al cimitero presero fuoco e in
un baleno la roulotte fu avvolta dalle fiamme. Bella Baumgartner, la sua
compagna, se la cavò con poco, ma Django riportò ustioni gravissime sul
lato destro del corpo e alla mano sinistra. Diciotto interminabili mesi
di ospedale, e alla fine, mignolo e anulare della mano sinistra
rimasero paralizzati. I medici furono unanimi: la sua carriera di
musicista era finita. Ma non sapevano con chi avevano a che fare. Perché
da quel rogo di miseria ed emarginazione, qualcosa che ben conosciamo
ancora oggi, era nato Django Reinhardt, il dio zingaro della chitarra.
Dio, perché nessun essere umano avrebbe potuto essere così testardo,
inventarsi un modo di suonare con solo due dita e diventare un virtuoso
impressionante, rivoluzionando la tecnica e il destino della chitarra.
La carriera fu sfolgorante. Incontrò il suo alter ego in Stéphane
Grappelli, violinista tanto per bene quanto Django fu sempre
imprevedibile, sbruffone, spendaccione. Col loro celeberrimo Quintette
du Hot Club de France furono i protagonisti assoluti del trapianto del
jazz in Europa, con Monsieur Grappelli perennemente imbarazzato per le
figuracce cui lo costringeva Django: analfabeta vero, per il quale un
contratto era solo carta, nomade nell'anima, bisognoso ogni tanto di
sparire per tornare alla sua roulotte e alle sue radici. Django era fin
troppo «fenomeno» per accodarsi a una musica altrui qual era in fondo il
jazz. Andò in America, ma il suo idolo Duke Ellington fu una delusione:
tutto troppo ordinato, ufficiale, per lui che non volle mai leggere una
nota di musica. Django era un sinti, che in Francia sono detti
manouche, ricchi come tutte le etnie zingare di una loro tradizione
musicale tutta chitarre e violini. Django la «contaminò» e nacque il
jazz manouche, jazz portatile: chitarra e violino solisti, niente
batteria ma due chitarre e contrabbasso per la pompe, così si chiama
quel ritmo indiavolato che ti scortica e sale su dalle piante dei piedi.
INCIDENTE PITTORESCO
Curioso sfogliare le pagine di allora. Per André
Hodeir, grande jazzologo, Django non era jazz, ma solo un «incidente
pittoresco». Ma girate oggi per dischi, o per locali. I gruppi di
giovani e giovanissimi, calamitati da questo modo sfrenato di scoparsi
la chitarra, sono una schiera e gli scaffali, quelli che restano, pieni
di questa musica, un po' jazz un po' world music, con protagonisti dai
nomi così inesorabilmente diasporici: Bireli Lagrène, Stochelo
Rosenberg, Angelo Debarre, Tchavolo Schmitt ecc. Hodeir toppò, ma non
Eric Hobsbawm, che nascosto dietro lo pseudonimo di Francis Newton nel
1959 pubblicava The Jazz Scene, magnifica storia del suo oggetto amato.
Dice Hobsbawm: «è significativo che Reinhardt sia fino ad ora il solo
europeo che abbia conquistato un posto nell'Olimpo del jazz... ed è
significativo che si tratti di uno zingaro». Perché insistere su quel
«significativo»? Perché un grande storico come Hobsbawm aveva capito che
il destino del jazz non era quello di essere solo la musica dei neri.
Il jazz era l'annuncio che una nuova musica alzava la voce: la musica di
quelli che il «primo mondo» ha sempre ignorato o odiato. Django è
storia di adesso.
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