L’egoista e l’egocentrico
Nietzsche apprezzava la volontà di potenza che sa ghermire, ma sapeva che, anche per essere veramente forte, ogni io deve rendersi conto di essere un’entità trascurabile
Corriere della Sera, 24 luglio 2014
Condannato dalle filosofie e dalle
religioni che affermano l’altruismo e l’amore del prossimo, l’egoismo è
stato pure celebrato da chi vi ha visto una fonte di competitiva energia
individuale che, nel perseguimento dei propri interessi, concorre senza
volere alla vitalità di una società in generale. Che una dose
di egoismo sia necessaria per la sopravvivenza è ovvio ed è altrettanto
ovvio che essa va contenuta, altrimenti diventa distruttiva e
autodistruttiva. L’io non dovrebbe mai dimenticare ciò che lo trascende e
dà senso alla sua stessa vita; le nostre contingenze, scriveva Biagio
Marin al suo traduttore cinese, colorano l’eternità di Dio, rispetto
alla quale esse sono solo colori, effimere apparenze, delle lunghezze e
frequenze d’onda della luce. Ma non è l’egoismo ad avvelenare
l’esistenza, propria e altrui. È un suo parente, stretto ma degenere, a
guastare più gravemente la vita di un individuo e il suo rapporto con
quella degli altri: l’egocentrismo, rispetto al quale un ragionevole e
autocritico egoismo può essere quasi un rimedio, una cura omeopatica,
una piccola virtù.
Sino a certi limiti, l’egoismo è non solo inevitabile, ma più che comprensibile.
È ovvio che, se giocassi all’Enalotto, spererei di essere io il
vincitore piuttosto che un altro; se pubblico un libro, il suo destino e
il suo successo mi stanno a cuore più di quelli dei libri scritti da
altri. Ma l’egoista non ebbro di se stesso, non egocentrico, sa
benissimo che ciò vale per tutti e che ognuno legittimamente persegue
come lui il proprio bene, anche se è una persona generosa che, quando
può, aiuta gli altri. L’egocentrico invece ritiene che il suo problema –
il suo lavoro, il suo libro, il suo progetto, le sue idee, la sua
situazione sentimentale – sia in assoluto il più importante, anzi
l’unico veramente importante e sotto sotto pensa che pure gli altri,
pure i suoi concorrenti, pure Dio dovrebbero preoccuparsi soprattutto di
ciò che sta a cuore a lui, del suo bisogno e del suo desiderio – perché
il suo libro è più creativamente sofferto di quelli degli altri, la sua
pena è umanamente più profonda e la sua sensibilità più dolorosamente
vulnerabile di quelle degli altri.Ricevo ogni giorno quattro o cinque libri e manoscritti che mi si chiede di leggere e quando rispondo spiegando che mi è impossibile leggere, nelle ore che mi restano dopo aver svolto il mio lavoro, venti libri alla settimana, ottanta al mese, alcuni – pochi – capiscono, mentre altri – più numerosi – reagiscono con acredine, pretendendo che io legga solo il loro testo e lasci perdere quelli degli altri. La richiesta è legittima, ma non la pretesa. Gli esempi potrebbero continuare indefinitamente, in ogni campo.
L’egoista spera di essere felice o almeno non troppo infelice; l’egocentrico lo pretende come un privilegio speciale, un diritto divino concesso soltanto a lui e rovescia sugli altri – non lasciandoli neanche respirare - le sue pene, le sue delusioni, le sue speranze. Nel lavoro come in una relazione sentimentale, l’egocentrico tende a sentirsi incompreso, mal ripagato e pone al centro del mondo la sua stizza, la sua malinconia, la sua infelicità e soprattutto la sua convinzione che l’altro, l’altra, gli altri non capiscono l’ineffabile ricchezza del suo cuore. Nietzsche apprezzava, almeno in teoria, la volontà di potenza che sa ghermire, ma sapeva che, anche per essere veramente forte, ogni io deve rendersi conto di essere un’entità trascurabile. Pure la felicità ha bisogno di un certo oblio di se stessi e di dire, con Nietzsche, «che cosa importa di me!».
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