Gilles Kepel
La crisi siriana
Dietro il caos in Siria l’ombra dell’Iraq e i regni dell’oro nero
la Repubblica, 2 settembre 2013
LA CRONACA di un attacco annunciato contro la Siria di Bashar al-Assad
coincide più o meno con il dodicesimo anniversario dell’11 settembre.
L’ostentata volontà franco-americana di bombardare un Medio Oriente in
cui si moltiplicano le spaccature dopo le rivoluzioni del 2011 non è che
l’ultima replica del big bang che ha aperto il XXI secolo. Ma le
esplosioni ricorrenti del vulcano arabo liberano delle forze
irreprimibili, protagoniste impreviste del mondo di domani. Le
rivoluzioni arabe sono in primo luogo il prodotto della decomposizione
di un sistema politico concepito per resistere alla paura della
proliferazione terroristica dopo la «doppia razzia benedetta su New York
e Washington» perpetrata da bin Laden e dai suoi accoliti. Contro Al
Qaeda, avevamo eretto un baluardo di regimi autoritari e corrotti, ma
dotati di servizi di sicurezza efficienti. L’esigenza della democrazia
era stata sacrificata sull’altare della dittatura, ma Ben Ali, Mubarak,
Gheddafi e altri come Ali Saleh, non sono stati altro che dei despoti
patetici che hanno cristallizzato contro se stessi il malcontento
popolare, portando a delle rivoluzioni che sono dilagate da Tunisi al
Cairo e da Bengasi a Sana’a nella primavera del 2011.
Nel frattempo,
Al Qaeda aveva investito le sue energie per creare un improbabile
«Emirato islamico di Mesopotamia» nell’Iraq occupato dagli Usa dopo il
marzo del 2003. Si è infranta nella sua corsa folle agli attentati
suicidi, sognando invano di infliggere all’America un Vietnam jihadista.
Nei suoi confronti, i neoconservatori americani, credendo di riscattare
il loro onore militare con il dispiegamento di un arsenale invincibile
contro uno «Stato canaglia», si prendevano una rivincita simbolica
contro gli aerei lanciati contro le Torri Gemelle. Speravano di
raggiungere un duplice obiettivo. Rovesciando Saddam Hussein, punivano
un dittatore sunnita sospettato di avere creato bin Laden. E portavano
al potere la maggioranza sciita in Iraq, che credevano filo-americana,
amica di Israele, e perfino capace di far vacillare il regime dei mullah
di Teheran. Questi ideologi imbevuti di guerra fredda si sono rivelati
degli apprendisti stregoni. Lungi dal vacillare, Teheran è rapidamente
diventata la fornitrice di armi e la finanziatrice dello sciismo
iracheno. E sono questi sciiti che hanno spezzato le reni
all’organizzazione terroristica sunnita, finanziata dai petrodollari
provenienti dalla riva araba del Golfo Persico. Infine, sotto gli
auspici di Maliki, Bagdad è diventata la migliore alleata di Teheran.
La
guerra in Iraq ha dunque avuto due conseguenze paradossali. Ha
rafforzato l’asse sciita diretto da Teheran, che ora ha un forte
sostegno a Bagdad, e, inoltre, Damasco, gli Hezbollah libanesi e (fino
al 2012) il movimento Hamas palestinese, unico partner sunnita della
coalizione. E ha disintegrato Al Qaeda, così le dittature sono apparse
inutili o addirittura dannose. Soprattutto, Teheran, fornendo via
Damasco le armi ai suoi debitori di Hezbollah e di Hamas, ha proiettato
la sua frontiera militare sui confini dello stato ebraico, tramite gli
alleati interposti. Di fronte al rafforzamento di questo asse sciita, il
cui controllo dell’arma nucleare sconvolgerebbe la geopolitica globale
dell’energia, perché trasformerebbe il Golfo Persico in un lago
iraniano, il mondo sunnita subisce una prima scossa con le rivoluzioni
arabe. Le «primavere arabe» sono state accolte con benevolenza in
Occidente, ma hanno comunicato un’ondata di panico nella spina dorsale
delle monarchie petrolifere del Golfo.
La prospettiva di un «contagio
democratico » ha terrorizzato queste dinastie i cui membri
monopolizzano i proventi del petrolio e del gas. Il pericolo toccava
ormai la penisola arabica stessa, mentre la comunità internazionale
guardava da un’altra parte lasciando prevalere gli idrocarburi in
pericolo sui diritti umani a rischio. Eppure, il Consiglio di
cooperazione del Golfo si è diviso profondamente rispetto alle
rivoluzioni arabe. Il Qatar, seconda potenza produttrice di gas al
mondo, si è impegnato a dare un massiccio sostegno materiale e
mediatico, attraverso la Al Jazeera, ai Fratelli Musulmani. Ha visto in
questo islamismo socialmente conservatore la massa umana critica capace
di farlo diventare la potenza egemonica del mondo arabo sunnita. Per
contro, l’Arabia Saudita e gli altri emirati hanno fatto blocco contro i
Fratelli, che fanno concorrenza alla loro intenzione di controllare
l’Islam mondiale. L’Arabia ha sostenuto ovunque i salafiti, rivali dei
Fratelli. Tuttavia, parte di questi elementi sono finiti nell’attività
jihadista violenta. È in questo contesto che si è sviluppata la
rivoluzione siriana. All’inizio, aveva lo stesso profilo che in Tunisia o
in Egitto: una gioventù istruita si metteva a capo delle rivendicazioni
democratiche contro un potere autoritario. Ma l’intensità della
repressione e la sua trasformazione graduale in guerra civile a
carattere confessionale ha impedito il sollevamento delle forze armate
contro il presidente. Il finanziamento in petrodollari e la
distribuzione di armi provenienti dai Paesi del Golfo — uniti per
sostenere i sunniti che avrebbero scardinato l’asse sciita se Damasco
fosse caduta — ha cambiato la situazione sul terreno, favorendo la
penetrazione militare dei gruppi islamisti e rendendo più difficile il
sostegno alle forze democratiche della resistenza. La Siria diventa
dunque l’epicentro dello scontro tra l’asse sciita e i suoi avversari
sunniti, ostaggio di una guerra per procura fatta prima di tutto per
controllare gli idrocarburi del Golfo. La vittoria di Assad
rafforzerebbe Teheran e, dietro all’Iran, la Russia, messa da parte in
Medio Oriente. È su questa mappa contrastata che si è aperto nel 2013 il
«terzo tempo» della dialettica delle rivoluzioni arabe: la reazione
contro i Fratelli musulmani. A quel punto, si è prodotto un importante
riallineamento nella regione, di cui hanno immediatamente tratto
profitto i dirigenti siriani, iraniani e russi: l’esplosione del blocco
sunnita in due fazioni rispetto al sostegno o all’ostilità verso i
Fratelli Musulmani. Questa spaccatura profonda separa la Turchia e il
Qatar, da una parte, e gli altri paesi del Golfo, Arabia Saudita in
testa.
Questo è il contesto in cui sono state usate le armi chimiche
nella periferia di Damasco. Se si scoprisse che il regime è l’autore di
questo bombardamento sarebbe una provocazione per la comunità
internazionale, per la quale questa rappresenta, come ha detto Obama,
una «linea rossa». È la violazione di questa norma morale che i
presidenti americano e francese invocano per agire in nome dell’umanità
contro la barbarie. Tuttavia, l’invocazione di questi principi riscuote
poco successo tanto nell’opinione pubblica dei paesi coinvolti che tra
gli alleati, dagli altri paesi europei alla Lega Araba. Soprattutto, la
riaffermazione russa cambia profondamente la situazione rispetto a
un’operazione militare. Mosca non vuole subire un nuovo Afghanistan. La
paradossale accoppiata francoamericana ha i mezzi per prolungare
l’unilateralismo che è prevalso dopo la caduta del muro di Berlino?
Oppure l’Occidente, diviso, è costretto ad agire nel quadro di un nuovo
multipolarismo?
(traduzione di Luis E. Moriones)
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