Stefano Malatesta
Neruda e il gigante
Quei funerali al canto dell’Internazionale
Quarant’anni
fa moriva il poeta cileno. Lo accompagnarono nell’ultimo viaggio
centinaia di giovani che sfidarono la polizia di Pinochet schierata
E un oratore d’eccezione, lo scrittore Francisco Coloane
la Repubblica, 28 settembre 2013
Pablo Neruda morì quarant’anni fa, nel settembre del 1973, pochi giorni
dopo il golpe dei militari cileni. Anni prima era stato candidato alla
presidenza del Cile, ma i medici a Parigi, gli trovarono una malattia
che lasciava poche speranze e al suo posto venne eletto Salvador
Allende, il primo e unico presidente delle Americhe che si autodefiniva
marxista.
Così Pablo tornò in Cile per l’ultima volta perché voleva essere
seppellito sulla spiaggia di Isla Negra vicino a Valparaiso, dove aveva
costruito una casa come un “barco”, in cima alle dune, come se fosse
stata spinta lassù dalle lunghe ondate del Pacifico. Era nato a Temuco,
un paesetto del Sud, nascosto in quelle vallate che dalle Ande scendono
verso il tratto di mare più pescoso del mondo, percorso dalla corrente
gelida di Humboldt, dove si incontrano banchi immensi di sardine pescate
con un sistema di idrovore, che in poco tempo ingoiano tutto il banco.
Questi erano territori che appartenevano agli auraucani, grande popolo
guerriero, gli unici indios che furono capaci di fermare i tercios
spagnoli, guidati da Valdivia e di sconfiggerli. A Temuco, un posto dove
piove sempre, non c’era molto da fare e si poteva anche morire di noia,
ma il giovane Neruda passava molto del suo tempo ascrivere i suoi versi
incantato dal rumore che facevano le gocce sulla lamiera di ferro
ondulato, l’unica copertura delle case povere cilene. Quando costruì la
casa di Isla Negra, fece ricoprire la sua camera da letto dello stesso
materiale: quella pioggia lo faceva tornare giovane.
Non so bene perché Pablo non venne seppellito, come aveva desiderato
sulla spiaggia di Isla Negra. Morì in un’altra casa seminascosta tra le
montagne che dominano Santiago. Una costruzione pendula che stava tra la
capanna di Tarzan sugli alberi e il rifugio del barone rampante di
Calvino. Quando arrivai sul posto, insieme con tutti i giornalisti
presenti in città e il mio amico Saverio Tutino, che era stato
corrispondente da Cuba per l’Unità e Le Monde, trovammo cinque o
seicento ragazzi venuti da tutto il paese con il rischio di essere
catturati dalla polizia scatenata dai gendarmi di Pinochet.
Davanti alla casa di Pablo i ragazzi avevano di fronte centinaia di
agenti dei servizi speciali che stavano fotografando e filmando tutti i
presenti alla cerimonia. All’uscita del feretro, questi ragazzi alzarono
il braccio sinistro con il pugno chiuso nel saluto comunista. Tutti
sapevano che la sera stessa qualcuno avrebbe bussato alla loro porta,
per prelevarli e spedirli all’isola di Dawson, nella Tierra del Fuego,
un carcere infame da cui non era facile tornare. Ma nessuno di loro
avrebbe rinunciato a dare l’ultimo saluto al loro più grande poeta. Poi
qualcuno intonò l’Internazionale subito seguito da un coro potente che
fece irrigidire gli agenti della polizia.
Io non ho un passato di militante comunista, ma anche io, come molti
altri giornalisti, cantai l’Internazionale e forse avrei cantato anche
Bandiera rossa, quello era il momento. Gli uomini dei servizi speciali
che stavano a sentire quella canzone, posarono le macchine fotografiche
per terra e tolsero i fucili mitragliatori dalla tracolla per puntarli
contro la processione. Ma gli uomini della Cia che avevano appoggiato e
manovrato il golpe dopo i primi massacri avevano consigliato la massima
prudenza a Pinochet, soprattutto in presenza di giornalisti.
La tensione si allentò quando prese la parola un gigante dai capelli
corvini, abbronzato come un marinaio. L’uomo indossava un maglione blu.
Il gigante, che sembrava arrivare direttamente dallo stretto di Drake,
fece l’elogio di Pablo con voce tonante. Alla fine molti ragazzi
piangevano e i giornalisti avevano inforcato gli occhiali da sole per
non fare vedere gli occhi arrossati.
Dopo il golpe sono ritornato due o tre volte in Cile, l’ultima una
decina di anni fa, non per scrivere un reportage politico, ma per
intervistare Francisco Coloane, il cantore del mondo australe che aveva
scritto racconti bellissimi su Cabo de Hornos e sulla Tierra del Fuego.
Io non lo avevo mai incontrato ma avevo contribuito a far diffondere i
suoi libri in Italia. Negli anni precedenti qualcuno del governo,
vergognandosi che la casa di Neruda fosse stata svaligiata dalla polizia
durante i giorni del golpe, l’aveva trasformata in un museo recuperando
tutta la meravigliosa collezione di Polene, le decorazioni di legno che
Pablo aveva trovato in giro per il mondo.
Il pomeriggio tornai a Santiago per l’appuntamento con Coloane. Lo
trovai seduto su un divano perché aveva avuto da poco una paresi ad una
gamba e non riusciva a camminare. La casa aveva pochi mobili
estremamente eleganti, di genere marinaro, alla parete era appesa una
pelle di guanaco conciata dagli indios e si vedevano dappertutto
utensili del folklore australe soprattutto ami e coltelli fatti di osso e
magnificamente scolpiti e un paio di revolver che dovevano essere stati
usati molti anni prima. L’accoglienza di Coloane fu estremamente
calorosa, io rimasi incantato dai racconti dello scrittore che parlava
delle sue avventure nell’estremo sud americano popolato una volta dagli
indios yamanes e onas, sterminati dai terratenientes che si volevano
impadronire dei loro territori per allevare i merinos.
Parlò ininterrottamente per tre o quattro ore e vedendolo un po’
affaticato lo interruppi per raccontare come era andata la mattina la
mia visita a Isla Negra. E un po’ di sfuggita accennai che nel settembre
’73 io ero a Santiago e avevo partecipato ai funerali di Neruda,
rimanendo molto impressionato da un oratore dalla voce tonante. Coloane,
a sentire quello che stavo raccontando, diventò prima pallido con le
mani che gli tremavano per l’emozione, poi tentò di alzarsi in piedi e
solo allora mi accorsi che era un gigante, più alto di me, e aveva folti
capelli che un tempo dovevano essere corvini. Con la sua voce diventata
roca mi disse: «Non te requerde? Ero jo quell’oratore». Mi diede un
grande abbraccio e poi consegnandomi un pennarello mi indicò il vasto
quadro che stava di fronte al divano dove c’erano tutte le firme dei
suoi amici e mi disse: «Vai al quadro e metti la tua firma sotto quella
di Pablo».
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