Giuseppe Berta
Hirschman, il riformismo e l’azione collettiva
Europa, 28 settembre 2013
La morte sopraggiunta nel dicembre scorso ha sottratto Albert O.
Hirschman al silenzio che, immeritatamente, aveva cominciato a scendere
su di lui. La sua scomparsa e la pubblicazione, qualche mese dopo, della
grande biografia dedicatagli dallo storico Jeremy Adelman (Wordly Philosopher,
Princeton University Press 2013) hanno ridestato l’attenzione su una
figura unica, nella sua originalità, di scienziato sociale del
Novecento. Un secolo che Hirschman ha attraversato quasi per intero (era
nato in Germania nel 1915), sviluppando una propria singolarissima
coerenza forgiatasi tra l’Europa e le Americhe del Nord e del Sud.
Al momento della sua morte, l’Economist ha scritto che non
aveva ricevuto il Premio Nobel, per il quale aveva tutti i requisiti,
soltanto perché la sua opera era difficile da inquadrare entro un
distinto alveo disciplinare. Hirschman era un economista, per la
precisione (e per chi crede alle divisione fra i settori accademici) un
economista dello sviluppo, grazie ai suoi studi sull’America Latina
frutto di anni e anni di lavoro di consulenza sul campo. Ma in realtà fu
sempre molto di più: un autore che si collocava all’incrocio fra le
scienze sociali, con una forte sensibilità di tipo storico e politico,
che emerge da tutti suoi scritti. Fra i quali spicca un piccolo e
densissimo libro del 1970, probabilmente il più citato fra quelli
firmati da Hirschman (insieme con l’altro suo capolavoro, The Passions and the Interests, 1977), Exit, Voice and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations and the State (tradotto in italiano da Bompiani, ma oggi non più disponibile).
In
un’analisi condotta con un argomentazione serrata quanto elegante,
Hirschman prende in considerazione le due strade che si profilano
davanti a chi non condivide più il modo di operare l’organizzazione in
cui è coinvolto. La prima, la più semplice e la più immediata, è quella
della exit, cioè della defezione. Si tratta della via più
congeniale all’approccio degli economisti, che di fronte ai risultati
insoddisfacenti generati da un’impresa o da un’attività economica
postulano semplicemente il ritiro del consenso. Così il consumatore
smette di acquistare un certo prodotto o il dipendente cerca un’altra
occupazione. Ma non sempre le cose vanno a questo modo, sostiene
Hirschman, e non è affatto detto che la soluzione più semplice sia la
migliore.
Esiste un’altra strada, quella che consiste nel dare voce alla
propria disaffezione, articolando una protesta orientata a incidere sul
funzionamento dell’organizzazione di cui si fa parte. È anche la via che
preferisce Hirschman e che esalta la qualità politica dell’azione
collettiva, verso la quale traspaiono le sue preferenze.
L’esempio cui ricorre (polemizzando con Milton Friedman) è quello
della scuola pubblica: immaginate dei genitori che non siano soddisfatti
di come funziona la scuola dei loro figli. La scelta economica
razionale, secondo Friedman, è quella di ritirare i ragazzi per
iscriverli a una scuola privata, di cui possano controllare la qualità.
Ma è una scelta per pochi, per chi ha i mezzi per permetterselo; gli
altri o non saranno in grado di intervenire o, se consapevoli del
problema, agiranno per organizzare la loro protesta e correggere i
difetti della scuola pubblica. Così facendo non tuteleranno soltanto i
loro figli, ma porranno le condizioni per un sistema scolastico
migliore.
Hirschman credeva nelle riforme sociali. Ma ancor più credeva in un
processo di riforme attivato dalla volontà collettiva, di chi si
organizza per cercare da sé la risposta ai problemi da cui è afflitto.
Ne deriva che il cammino delle riforme non è qualcosa che possa essere
guidato dall’alto; al contrario, richiede aggiustamenti e correzioni
continue, dovendo fronteggiare situazioni nuove e inaspettate, che non
possono essere preventivate a priori. Qui sta il bello delle riforme (e
della sfida che esse rilanciano incessantemente).
E della loyalty, che si può dire? Che forse è l’aspetto più
controvertibile della visione (non parliamo di teoria, un termine che a
lui non piaceva, giacché non si considerava un teorico) di Hirschman. Il
suo universo di riferimento è ancora fortemente strutturato: chiama in
causa imprese e organizzazioni politiche dove è ancora molto solido il
senso di appartenenza e di identità. Anche dalla disaffezione traspariva
il cemento della solidarietà, magari tradita. Ma oggi? Oggi esercitare
la voice è molto più difficile di quarant’anni fa. E la tentazione di tagliare i nodi scegliendo l’exit sta crescendo.
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