Carlo Vulpio
Allende, l'ironia contro i cannoni
La Lettura, Corriere della Sera, 1 settembre 2013
Furono, quelli di Salvador Allende, presidente socialista del Cile,
mille giorni che meritano di essere raccontati e studiati ancora oggi
come una lezione di storia e di politica. Perché furono mille giorni in
cui il Cile – un Paese povero, ma ricco di risorse (soprattutto rame e
salnitro) e geloso della propria dignità – alimentò una speranza:
sottrarsi alla scelta obbligata di finire sepolti o sotto le macerie
materiali e morali del «socialismo reale» di stampo sovietico oppure
sotto la odiosa «democratura» di élite finanziarie internazionali senza
scrupoli e senza controllo.
Questa speranza, questo progetto politico non velleitario, ma forte
di una storia che vedeva il Cile come una delle più antiche e stabili
democrazie del mondo («il cui Parlamento – come disse lo stesso Allende
in un applauditissimo discorso all’Assemblea dell’Onu
nel 1972 – non ha mai interrotto la sua attività dal giorno della sua
istituzione, centossessanta anni fa»), vennero disintegrati dallo
scellerato colpo di Stato militare dell’11 settembre 1973. Un colpo di
Stato «in diretta», con il presidente Allende che, asserragliato nel
Palazzo della Moneda, a Santiago, insieme con i suoi
fedelissimi, alle 7:55 del mattino comincia a parlare al popolo cileno
attraverso la radio e lo informa minuto per minuto su cosa sta
accadendo, fino a quando, bombardato il palazzo dall’aviazione e poco
prima che se ne impadroniscano i golpisti assassini, esattamente alle
9:10, Allende rivolge al Cile il suo ultimo discorso e poi sceglie di
darsi la morte con un colpo di fucile.
Quel discorso «non ha alcun precedente storico, perché mai è stato
pronunciato un addio come quello, sulla soglia della morte, e poi perché
fra tutti i grandi discorsi politici del secolo scorso, da John Kennedy a Martin Luther King a Charles De Gaulle, quello di Allende fu l’unico discorso improvvisato». Lo sostiene Jesùs Manuel Martìnez, spagnolo, docente all’Università Cattolica del Cile e autore di Salvador Allende. L’uomo. Il politico
(Castelvecchi, 325 pagine, 22 euro). «Quel discorso – dice ancora
Martìnez – è eterno ed è la “colonna sonora” di questo libro». Che,
diciamolo subito, è una biografia accurata, minuziosa, partecipe e
lucida, basata su fonti di prima mano e in parte vissuta in prima
persona dall’autore, che di Allende è stato anche amico. A riprova della
robustezza dell’opera, qualora ve ne fosse bisogno, una bibliografia di
95 titoli e un indice dei nomi di sei pagine.
Sullo svolgimento dei fatti e sui responsabili del golpe – l’amministrazione americana guidata da Richard Nixon, «le multinazionali minerarie del rame, la magacompagnia telefonica Itt, una cellula del governo degli Stati Uniti diretta dal consigliere per la Sicurezza nazionale Henry Kissinger»,
anche se quest’ultimo ha sempre negato il suo coinvolgimento – è stato
scritto e detto (quasi) tutto. Poco si sa, invece, dell’uomo Allende,
della sua vita privata, della sua famiglia, della sua formazione umana e
politica, del suo carattere. Su questo versante, la biografia di
Martìnez è davvero il libro che mancava. Ma prima di vedere come aveva
cominciato Salvador Allende, occorre ancora dire qualcosa su come finì.
Se non altro perché il protagonista negativo della storia fu la prima
potenza mondiale, gli Stati Uniti, che infatti, prima con il presidente Gerald Ford nel 1974 e poi con la Commissione senatoriale Church
nel 1975, non poterono che ammettere il proprio intervento in Cile per
sabotarne l’economia e demolirne la democrazia. E tuttavia, nonostante
questa ammissione, leggendo «la massa di documenti» si resta allibiti e
indignati, scrive Martìnez, «di fronte all’arroganza, all’ignoranza e
all’incompetenza di organismi e servizi che pretendevano di governare il
mondo».
La giustificazione, posticcia, fasulla, fondata su malferme ragioni
di Realpolitik dovute a un mondo spaccato in due dalla guerra fredda, è
sempre stata quella di evitare che in America latina si formasse «una
seconda Cuba». Quando invece da sempre Allende aveva
escluso la via castrista per il Cile, rifiutando la geniale idea della
sinistra comunista di istituire anche in Cile i soviet operai e
contadini «come in Russia» e affermando fino alla noia
che «non è rivoluzionario chi, con la forza, riesce a comandare
temporaneamente, ma chi, giungendo legalmente al potere, trasforma il
senso e la convivenza sociale, le basi economiche del Paese».
Queste parole, frutto genuino della sua avversione ai
totalitarismi, del suo essere non violento, marxista non ortodosso,
socialista libertario e anti-leninista, contrario al monopartitismo e
alla dittatura del proletariato, costeranno care ad Allende durante i
suoi mille giorni di governo. Quando era già chiaro dove si andava a
parare, i comunisti cileni, gli stessi che potevano vantare tra i propri
militanti il premio Nobel Pablo Neruda e che erano al governo con cattolici e radicali nella Unidad Popular guidata da Allende, chiesero aiuto a Leonid Brežnev e organizzarono un incontro a Mosca tra i presidenti dell’Urss
e del Cile. Ma il compagno Brežnev fu gelido. «Ogni rivoluzione – disse
ad Allende – deve sapersi difendere». Allende non ebbe bisogno di altre
parole, si alzò e chiuse lì l’incontro, ma poiché era davvero un hombre vertical
fece ricorso alla sua professione di medico per ricambiare la cortesia:
«Diagnosticò a Brežnev una forte influenza e gli consigliò un periodo
di riposo», racconta Martìnez.
Ecco, questo episodio è soltanto uno dei tanti che rendono meglio l’idea dell’uomo Allende, detto Chicho,
proprio come il diminutivo italiano Ciccio, da cui deriva. Un uomo che
si dichiarava orgogliosamente «medico, massone e pompiere», che modellò
la sua vita professionale e politica su quella del nonno, medico e
massone pure lui, benvoluto e ricordato da tutti per l’abnegazione verso
i più poveri.
Da ragazzo, al liceo, Salvador era stato campione nazionale
giovanile di decathlon e di nuoto e come medico e politico coltivò
l’idea fissa della salute per tutti (in un Paese che negli anni Quaranta
aveva la mortalità infantile più alta del mondo), un tema che fu al
centro della sua tesi di laurea e della sua prima, breve esperienza da
ministro della Sanità e che gli valse il plauso pubblico dell’autorevole
padre gesuita Alberto Hurtado, proclamato santo nel
2005, e più avanti dell’intera Compagnia di Gesù, «che in Cile,
dall’inizio del XX secolo, è stato il vero motore di cambiamento –
scrive Martìnez – per il suo altissimo livello sociale, intellettuale e
professionale».
Su Allende, dice Martìnez, sono state riversate tonnellate di
immondizia. Per fortuna era uno uomo di spirito e «grazie al clown che
era in lui» spesso riuscì a neutralizzare i denigratori con una battuta,
una trovata. Aveva una barca a remi, la fecero diventare uno yacht (fu El Mercurio, il giornale di Augustìn Edwards, concessionario in Cile e vicepresidente mondiale della Pepsi Cola, il cui presidente era Donald Kendall,
uno dei grandi patrocinatori della carriera politica di Nixon…).
Allende rimorchiò con l’auto la sua barca fino a Santiago e la «varò»
davanti al Palazzo della Moneda. Anni prima, da senatore, dopo uno
scambio reciproco di contumelie, aveva anche trovato il modo di
affrontare in duello con la pistola il collega Raùl Rettig (ma nessuno dei due fece centro), che lo stesso Allende nel 1970 avrebbe nominato ambasciatore in Brasile.
«Ma la mattina del golpe superò se stesso», ricorda Martìnez. A uno dei
generali traditori, che gli intimava la resa, Allende chiese come stava
con il cuore, visto che da poco aveva avuto un infarto, e come stava la
sua signora. Il generale rispose con garbo e con un certo imbarazzo.
Poi gli riferì il messaggio del capo dei golpisti, il noto criminale che
per diciassette anni sarà il dittatore del ile e che nel libro Martìnez
di proposito non nomina mai. Salvador Chicho Allende rispose così: «Gli dica di non fare il finocchio e di venire a prendermi di persona».
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