giovedì 30 gennaio 2025

Il potere dell'uno




Se risaliamo il tempo lungo della storia, scopriamo che la democrazia si è più volte tramutata in tirannide. Ciò significa che il governo dei molti è destinato per sua natura a cedere il passo al governo dell’uno? E che tipo di potere è la tirannide? Questi gli interrogativi che hanno alimentato la riflessione politica da Tacito a Machiavelli, da Bodin a Spinoza e che sono tornati oggi di grande attualità.

Negli Annali Tacito racconta che l’imperatore Tiberio fu costretto dalle circostanze, contro il suo volere, a diventare un tiranno per porre fine definitivamente a discordie e guerre civili. Secoli dopo, all’inizio dell’età moderna, sembrò ripetersi una storia simile quando in tutta Europa le repubbliche cedettero il passo al principato. Così, la ricostruzione di Tacito, da poco riscoperto, divenne il modello sul quale i filosofi moderni imbastirono la loro riflessione intorno al tema della tirannide. Savonarola e Machiavelli, Guicciardini e Bodin, Shakespeare e Spinoza ne mostrarono però i limiti. I due poli di questo confronto ideale furono Tacito e Spinoza poiché proposero due concezioni opposte del potere e, di conseguenza, due posizioni antitetiche nei confronti del governo di uno solo: se per Tacito era una necessità ineluttabile, per Spinoza era un male da evitare a tutti i costi. È significativo, però, che unanime fu l’interpretazione della tirannide: un potere opaco, ‘velato’, dai contorni e dalle finalità occulte. Un potere che oggi sembra tornare a stendere la propria ombra sulla nostra società. (presentazione editoriale)

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Nella recensione scritta da Luciano Canfora per il Corriere della Sera l'antitesi tra Tacito e Spinoza rimane in ombra, mentre quello rappresentato dalla tirannide è visto come un problema insolubile. Il filosofo olandese è nominato appena e collegato solo all'idea di libertà.
Nel testo della recensione la democrazia non è mai nominata. Compare una volta sola l'aggettivo "democratica", tra virgolette. Ed ecco il problema senza soluzione: a fronte dell'uno che, pur dotato di efficacia nella conduzione degli affari pubblici, tende ad abusare del suo potere, e spesso ne abusa, si viene a trovare la massa dispersa e confusa di un popolo ondivago, incapace di adottare una politica e di metterla in atto. Già al tempo di Spinoza, tuttavia, non si afferma solo l'idea di libertà, torna in auge la democrazia come regime auspicabile
Canfora poi si riferisce per lo più alla tirannide quando ragiona sul potere dell'uno, ma in una articolazione importante del suo discorso tira fuori invece il dispotismo, che era un po' un'altra cosa. Viene trascurato l'atteggiamento del popolo che non è lo stesso nei due casi: adesione sia pure parziale per la tirannide, rifiuto per il dispotismo.  

Luciano Canfora, Anatomia del tiranno, Corriere della Sera, 30 gennaio 2025

Al tempo nostro, che indulge così spesso alla guerra lessicale contro i «despoti» altrui, giova l’ammonimento di Thomas Hobbes nel De cive: il tiranno è il sovrano come è visto dai suoi nemici. Ben venga dunque un libro di studio su materia così bistrattata nella cronaca corrente. L’ha scritto uno studioso dell’età del Rinascimento, Michele Ciliberto, e sarà presto in libreria.

Quando Concetto Marchesi decise, ormai più che quarantenne, e già professore ordinario di Latino a Messina, di laurearsi in Giurisprudenza onde avere un mestiere di riserva nel caso il fascismo gli avesse tolto la cattedra, scelse come argomento della tesi «Il pensiero politico e giuridico di Tacito». E a Tacito dedicò, poco dopo (1924), un libro importante ancora oggi dopo un secolo dalla sua pubblicazione. Del pensiero politico di Tacito aveva parlato anche a Milano, al Circolo filologico, alla fine del ’23, in una conferenza cui diede molto rilievo il «Corriere della Sera». Il suo tema era «il potere dell’uno», il principato come risoluzione del problema politico.


Bene ha fatto dunque Michele Ciliberto, nell’imminente saggio laterziano Il potere velato. Tirannide, eguaglianza, libertà da Tacito a Spinoza, a porre in relazione Tacito, come letto da Marchesi, con la riflessione di Guicciardini sullo stesso tema. Tema che è al centro di una più che bimillenaria riflessione sul problema insolubile della «migliore forma di governo»: almeno a partire dal dialogo erodoteo a somma zero (III, 80-82), al termine del quale la soluzione monarchica si afferma (e magari appare anche proficua), ma con l’inganno. 


Ciliberto mette a frutto anche Pace e libertà nel mondo antico di Arnaldo Momigliano (lezioni a Cambridge gennaio-marzo 1940) edite in italiano nel 1996. Nello stesso torno di tempo, Momigliano recensiva sul «Journal of Roman Studies» l’importante libro di Ronald Syme The Roman Revolution (1939): un libro che, in prefazione, alludeva all’opportunità di optare per la pax anche a costo di sacrificare la libertas. Il che a Momigliano in fuga dall’Italia razzista non molto piacque. 


Ma a questo punto si impone la questione della qualità del princeps. Marchesi, partendo da Tacito prospettava apertamente la soluzione del «buon» principe (dispotismo illuminato): soluzione aleatoria — egli osservava interpretando Tacito — perché il princeps può essere Nerva ma può anche essere Nerone o Domiziano, o caso molto più complicato — Tiberio. E quanto ad Augusto, lo stesso Tacito dava un giudizio ancipite (Annali I, 9-10). Di Tiberio, Marchesi si ricorderà nel 1956 nel fuoco delle polemiche retroattive sull’opera di Stalin: «Tiberio, grande e infamato imperatore di Roma, ebbe come giudice Cornelio Tacito, a Stalin, meno fortunato, toccò Nikita Krusciov» (intervento all’VIII Congresso del Pci, dicembre 1956).


Ciliberto si spinge oltre Guicciardini, fino a Spinoza e alla sua idea di libertà. Ma la culla, gli incunaboli della discussione dell’insolubile problema erano nell’esperienza greca. In Tucidide che rivaluta il governo di Pisistrato e deride la confusione, tipica della propaganda «democratica», tra oligarchia e tirannide. E soprattutto nel cimento dei due maggiori storici tra V e IV secolo a.c., Tucidide e Teopompo, rispettivamente alle prese con le due figure «demoniche» del potere; Alcibiade e Filippo il Macedone. Ad un certo punto della sua riflessione, Tucidide, che approderà alla fine anche lui alla soluzione del buon princeps (cioè Pericle: II, 65), affronta il caso Alcibiade e constata che gli Ateniesi, togliendo il comando a lui (che pur aveva ricondotto Atene alla vittoria) perché «per la sua vita privata lo ritenevano aspirante alla tirannide», mandarono in rovina la città (VI, 15). Il caso di Teopompo, soggiogato dalla figura inquietante di un facitore di storia quale Filippo il Macedone, è perfetto. Polibio, cui dobbiamo la conoscenza di quella pagina memorabile di Teopompo, non capiva e pensava di cogliere Teopompo in contraddizione: «Sarebbe da biasimare — scriveva — soprattutto Teopompo, il quale — dopo aver detto all’inizio della sua opera che l’Europa non aveva mai generato una personalità della statura di Filippo il Macedone — poi per il resto dell’opera lo descrive come immorale: intemperante, ingiusto, fedifrago etc.» (VIII, 9). Quella di Teopompo era la scelta che fu poi di Ibn Haldun, massimo storico arabo, il quale nell’anno 1400 si recò da Tunisi fino a Damasco «per vedere Tamerlano» da vicino: per vedere da vicino il grande «despota» vincente.


Quasi mezzo secolo fa un grecista italiano di mente moderna, Diego Lanza, scrisse un libro che riguarda il teatro ateniese del grande secolo (Il tiranno e il suo pubblico, Einaudi 1977) ma che è di fatto un libro sul potere, e sulla rappresentazione del potere sulla scena, che ad Atene significava l’intera città: molto prima di Re Lear.

Il problema è ancora lì.

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