sabato 18 novembre 2023

Il messaggio dello sciopero

 
 

 
Marco Revelli, Se i dimenticati battono un colpo, La Stampa, 18 novembre 2023
 
Lo sciopero generale è pienamente riuscito. «Piazze strapiene come non si vedevano da anni», ha detto dal palco a Roma Maurizio Landini, comprensibilmente soddisfatto. Cortei affollati non solo di lavoratori, ma anche di cittadini comuni, e si sono rivisti persino gli studenti. Evidentemente il tentativo del ministro delle Infrastrutture nonché vice-premier Matteo Salvini di indebolire la mobilitazione con un atto d'imperio non è riuscito, e anzi forse ha ottenuto il risultato opposto, spingendo a scendere in piazza anche chi normalmente non lo fa, aggiungendo alle motivazioni economiche quella, evidentemente sentita, di difendere un diritto costituzionalmente garantito come quello di sciopero.
I Grandi Dimenticati hanno battuto un colpo. Non solo contro una manovra finanziaria abborracciata e considerata priva di responsabilità sociale, ma più in generale come risposta a una condizione di disagio economico ed esistenziale diffuso, tra chi lavora e chi il lavoro non ce l'ha, tra i giovani senza futuro e gli anziani senza riconoscimenti: un piano inclinato lungo il quale si è scivolati per anni, e che ora sembra aver raggiunto un punto non più sopportabile in silenzio. Per una combinazione non certo voluta, ma significativa, nello stesso giorno della mobilitazione sindacale la Caritas Italiana, potremmo chiamarla il Sindacato dei Poveri, ha diffuso il proprio rapporto annuale 2023 sulle povertà intitolato "Tutto da perdere". Ed è una drammatica conferma di uno stato di degrado "sistemico" non più ignorabile. Apprendiamo non solo (dato ufficiale Istat) che le persone in condizione di povertà assoluta (cioè prive del minimo indispensabile per condurre una "vita dignitosa") sono salite a 5 milioni e 674mila, 357mila in più rispetto all'anno scorso (la popolazione di una città come Firenze). E che di queste 1 milione e 270mila sono minori, vittime innocenti di una clamorosa ingiustizia sociale. Ma apprendiamo anche, e la cosa costituisce uno scandalo nello scandalo, che quasi la metà dei nuclei famigliari in condizioni di povertà assoluta (un totale di 2,7 milioni di persone) risulta avere il capofamiglia occupato, cioè un classico working poor, uno che pur lavorando, tuttavia rimane povero "assoluto", non può offrire ai propri figli due pasti regolari al giorno, una casa decente, il riscaldamento e la cura delle malattie.
Nel meridione il 20% degli occupati è in questa condizione, nelle Isole lo è il 21,9%! E i dati non tengono ancora conto dell'impatto prodotto dalla cancellazione, per molte di queste famiglie, di quel piccolo rivolo di risorse che era offerto dal Reddito di cittadinanza, su cui si è accanito nei mesi scorsi il governo. Alla luce di tutto ciò, come giustificare la guerra da tempo dichiarata da parte della maggioranza, e non solo, a un istituto come quello del salario minimo, che non sanerebbe certo tutte queste piaghe, ma permetterebbe di contenerne, sia pur in piccola parte, gli aspetti più devastanti? E dall'altra parte come stupirsi che, alla chiamata delle grandi organizzazioni sindacali, vi sia una risposta così robusta, nonostante le tante delusioni subite in questi anni, le troppe prove di divisione e d'incertezza, gli impacci le lungaggini e le inerzie delle ottuse burocrazie d'organizzazione centrali e periferiche? Lo si può considerare non solo come la denuncia di un disagio a cui la politica, tutta, è chiamata a dare risposte serie, ma anche come un segno di vitalità della nostra società e della nostra malconcia democrazia. Le democrazie vivono della partecipazione e della mobilitazione dei propri cittadini (una sofferenza senza segni di reazione genera necrosi dell'organismo). E nessuna precettazione di questo o quel ministro potrà mai spegnerle, pena la caduta in un limbo autoritario.

 

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