giovedì 16 novembre 2023

Armi nascoste

Questo racconto fu poi ripreso con il titolo "Il gatto e il poliziotto" in "Ultimo viene il corvo" (Einaudi, Torino 1949). Durante un rastrellameno di armi nascoste, in una casa di righiera un gatto resiste con efficacia all'intrusione di un poliziotto.



Italo Calvino, Armi nascoste, l'Unità edizione piemontese 28 agosto 1948


Da qualche tempo erano cominciati nella città i rastrellamenti delle armi nascoste. I poliziotti
montavano sulle camionette con in testa i caschi di cuoio che davano loro fisionomie uniformi e
disumane, e via per i quartieri poveri a suon di sirena verso qualche casa di manovale o d’operaio, a
scompigliare biancheria nei cassettoni e a smontar tubi di stufe. Una struggente angoscia
s’impadroniva in quei giorni dell’animo dell’agente Baravino.
Baravino era un disoccupato che da poco tempo s’era arruolato nella polizia. Da poco tempo
quindi egli aveva saputo d’un segreto che esisteva in fondo a quella città apparentemente placida e
operosa: dietro le mura di cemento che s’allineavano lungo le vie, in recinti appartati, in scantinati
oscuri, una foresta d’armi lucide e minacciose giaceva guardinga come aculei d’istrice. Si parlava di
giacimenti di mitragliatrici, di miniere sotterranee di proiettili; c’era, si diceva, chi dietro una porta
murata teneva un cannone intero in una stanza. Come tracce metallifere che indicano l’approssimarsi d’una regione mineraria, nelle case della città si riscontravano pistole cucite dentro i materassi, fucili inchiodati sotto gli impiantiti. L’agente Baravino si sentiva a disagio in mezzo alla sua gente; ogni tombino, ogni catasta di rottami gli sembrava custodisse incomprensibili minacce.
Una sera la polizia fece una corsa nei quartieri operai e circondò tutta una casa. Era un grande
edificio dall’aria sfatta, come se il sostenere tanta umanità assiepata ne avesse deformato i piani e i
muri, avesse ridotto anch’essi ad una vecchia carne porosa, callosa ed incrostata. Intorno al cortile ingombro di barili d’immondizie correvano a ogni piano le ringhiere dei ballatoi di ferro rugginose e storte; ed a queste ringhiere, e a spaghi tirati dall’una all’altra, panni appesi e stracci, e lungo i ballatoi porte-finestre con legni al posto di vetri, traversati dai neri tubi delle stufe, e al termine dei ballatoi, uno sopra l’altro come in scrostate torri, le baracche dei cessi, tutto così un piano sopra l’altro, intervallati dalle finestrelle dei mezzanini rumorose di macchine da cucire e vaporose di minestra, fino in cima, alle inferriate delle soffitte, alle gronde sbilenche, ai cenciosi abbaini aperti come forni.
Un labirinto di logore scale traversava dalle cantine al tetto il corpo della vecchia casa, come nere
vene dalle ramificazioni innumerevoli, e sulle scale, sparpagliate come a caso, s’aprivano le porte
dei mezzanini e dei promiscui appartamenti. Gli agenti salivano senza riuscire a cambiare il suono
lugubre dei propri passi, e cercavano di decifrare i nomi segnati sulle porte.
Baravino era in mezzo a loro, indistinguibile da loro sotto il casco di automa che gettava una
cruda ombra sui suoi nuvolosi occhi celesti; ma il suo animo era in preda a confusi turbamenti. Dei
loro nemici, gli era stato detto, nemici di loro poliziotti e gente d’ordine, si nascondevano dentro
quella casa. L’agente Baravino guardava con sgomento dagli usci socchiusi nelle stanze: in ogni
armadio, dietro qualsiasi stipite potevano celarsi armi terribili; perché ogni inquilino, ogni donnetta
li guardava con pena mista ad ansia? Se qualcuno tra loro era il nemico, perché non avrebbero
potuto esserlo tutti? Dietro i muri delle scale le immondizie buttate nei condotti verticali cadevano
con tonfi; non potevano essere le armi di cui ci s’affrettava a sbarazzarsi?
Scesero in una stanza bassa, dove una famigliola stava cenando a un desco a quadrettoni rossi. I
bambini gridarono. Solo il più piccolo, che mangiava sulle ginocchia del babbo, li guardò zitto, con
occhi neri e ostili. "Ordine di perquisire la casa", disse il brigadiere accennando un attenti e
facendo sobbalzare i cordoncini colorati sul suo petto. "Madonna! A noi povera gente! A noi onesti
tutta la vita!" disse una donna anziana, con le mani al cuore. Il babbo era in maglietta, una faccia
larga e chiara, punteggiata di barba dura a radere; imboccava il piccino a cucchiaiate. Prima li
guardò con un’occhiata traversa e forse ironica; poi scrollò le spalle e badò al bimbo.
La stanza era piena di poliziotti che non ci si poteva rigirare. Il brigadiere dava ordini inutili e
impicciava invece di dirigere. Con sgomento Baravino guardava ogni mobile, ogni stipo.
Quell’uomo in maglietta, ecco, era il nemico: e certo se non l’era stato fino a quel momento, ormai
lo era diventato, irreparabilmente, a vedersi rovesciare i cassetti e sradicare dai muri i quadri delle
madonne e dei parenti morti. E se era loro nemico, ecco, la sua casa era piena d’insidie: nel
canterano ogni cassetto poteva contenere mitragliatrici smontate tutte in ordine; se apriva gli
sportelli della credenza baionette inastate di fucili potevano puntarglisi sul petto; sotto le giacche
appese all’attaccapanni forse penzolavano nastri di proiettili dorati; ogni casseruola, ogni tegame
covava una guardinga bomba a mano.
Baravino muoveva impacciato le lunghe esili braccia. Tintinnò un cassetto: pugnali? No: posate.
Rimbombò una cartella: bombe? Libri. La camera da letto era ingombra da non potersi attraversare:
due letti matrimoniali, tre brandine, due pagliericci abbandonati in terra. E, all’altro estremo della
stanza, seduto in un lettino, c’era un bambino con il mal di denti che si mise a piangere. L’agente
già voleva aprirsi un varco tra quei letti per rassicurarlo; ma se fosse stato poi di sentinella a un
arsenale mascherato, se sotto a ogni giaciglio fosse nascosto un fusto di mortaio?
- Non un passo di più, - disse una voce, - sei sotto il tiro della mia pistola.
Sullo scalino della grande finestra c’era accoccolata una ragazza coi capelli lunghi sulle spalle,
dipinta, con le calze di seta e senza scarpe, che con voce raffreddata compitava alle ultime luci della
sera su di un giornale tutto fatto di figure e di poche frasi in stampatello.
- Pistola? - disse Baravino e le prese un polso come per aprirle il pugno. Appena lei schiuse le braccia, un gatto raggomitolato a palla sul suo petto saltò in aria, contro di lui, agente Baravino, digrignando i denti. Balzò da un tetto all'altro e fuggì via per la finestra. Affacciato alla bassa ringhiera, Baravino lo vide correre libero e sicuro per i tetti. - E Mary vide presso il suo letto, - continuava a leggere la ragazza, - il baronetto in frac con l’arma puntata.
Fuori s’accendevano le luci nelle case operaie alte e solitarie come torri. L’agente Baravino
vedeva l’enorme città stendersi intorno: costruzioni di ferro geometriche s’alzavano dentro i recinti delle
fabbriche, rami di nuvole si muovevano sui fusti delle ciminiere traversando il cielo.
"Volete le mie perle, Sir Enrico? - compitava ostinata quella intasata voce raffreddata. - No, voglio te, Mary"
Dall'interno della casa si sentivano i comandi, i gridi di spavento, le proteste. A un alzarsi di vento Baravino vide contro di sé quella intricata distesa di cemento e ferro; come se da mille nascondigli l’istrice rialzasse i suoi aculei. Capì chiaro, allora, per la prima volta, quanto quel loro lavoro era sbagliato; capì che in ogni stanza che mettevano a soqquadro, erano loro a lasciare quel seme da cui germogliavano le armi; capì che le armi nascoste sarebbero state sempre dietro ai loro passi, non davanti.
- Ho la ricchezza e l’eleganza, abito in un lussuoso palazzo, ho la servitù e gioielli, cosa posso
chiedere di più dalla vita? - proseguiva la ragazza con i neri capelli che le piovevano sul foglio
istoriato di donne serpigne e uomini dal lucido sorriso.
"Baravino!- si sentì la voce del brigadiere. - Dove è andato a cacciarsi quell'addormentato?". Doveva andare. Avrebbe voluto fuggire sotto le catene di nuvole del cielo, seppellire la sua pistola in una grande buca scavata nella terra. 

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