domenica 12 novembre 2023

Il giardino incantato

 

 

La felicità è un tempo sospeso

 

Italo Calvino, Il giardino incantato, l'Unità edizione piemontese 2 febbraio 1948


Giovannino e Serenella camminavano per la strada ferrata. Giù c’era un mare tutto squame
azzurro cupo azzurro chiaro; su, un cielo appena venato di nuvole bianche. I binari erano lucenti e
caldi che scottavano. Sulla strada ferrata si camminava bene e si potevano fare tanti giochi: stare in
equilibrio lui su un binario e lei sull’altro e andare avanti tenendosi per mano, oppure saltare da una
traversina all’altra senza posare mai il piede sulle pietre. Giovannino e Serenella erano stati a caccia
di granchi e adesso avevano deciso di esplorare la strada ferrata fin dentro la galleria. Giocare con
Serenella era bello. perché non faceva come tutte le altre bambine che hanno sempre paura e si
mettono a piangere a ogni dispetto: quando Giovannino diceva: - Andiamo là, - Serenella lo seguiva
sempre senza discutere.
Deng! Sussultarono e guardarono in alto. Era il disco di uno scambio ch’era scattato in cima a un
palo. Sembrava una cicogna di ferro che avesse chiuso tutt’a un tratto il becco. Rimasero un po’ a
naso in su
a guardare: che peccato non aver visto! Ormai non lo faceva più.
- Sta per venire un treno, - disse Giovannino.
Serenella non si mosse dal binario. - Da dove? chiese.
Giovannino si guardò intorno, con aria d’intendersene. Indicò il buco nero della galleria che
appariva ora limpido ora sfocato, attraverso il tremito del vapore invisibile che si levava dalle pietre
della strada.
- Di lì, - disse. Sembrava già di sentirne lo sbuffo incupito dalla galleria e vederselo tutt’a un
tratto addosso, scalpitante fumo e fuoco, con le ruote che mangiavano i binari senza pietà.
- Dove andiamo, Giovannino?
C’erano grandi agavi grige, verso mare, con raggere di aculei impenetrabili. Verso monte correva
una siepe di ipomea, stracarica di foglie e senza fiori. Il treno non si sentiva ancora: forse correva a
locomotiva spenta senza rumore e sarebbe balzato su di loro tutt’a un tratto. Ma già Giovannino
aveva trovato un pertugio nella siepe. - Di là.
La siepe sotto il rampicante era una vecchia rete metallica cadente.
In un punto, s’accartocciava su da terra come un angolo di pagina. Giovannino era già sparito per
metà e sgusciava dentro.
- Dammi una mano, Giovannino!
Si ritrovarono in un angolo di giardino, tutt’e due carponi in un’aiola, coi capelli pieni di foglie
secche e di terriccio. Tutto era zitto intorno; non muoveva una foglia.
- Andiamo, - disse Giovannino e Serenella disse: - Sì.
C’erano grandi e antichi eucalipti color carne, e vialetti di ghiaia. Giovannino e Serenella
camminavano in punta di piedi pei vialetti, attenti al fruscio della ghiaia sotto i passi. E se adesso
arrivassero i padroni?
Tutto era così bello: volte strette e altissime di foglie ricurve d’eucalipto e ritagli di cielo; restava
solo quell’ansia dentro, del giardino che non era loro e da cui forse dovevano esser cacciati tra un
momento. Ma nessun rumore si sentiva. Da un cespo di corbezzolo, a una svolta, s’alzò un volo di
passeri, con gridi. Poi ritornò silenzio. Era forse un giardino abbandonato?
Ma l’ombra dei grandi alberi a un certo punto finiva e si trovarono sotto il cielo aperto, di fronte
ad aiole tutte ben ravviate di petunie e convolvoli, e viali e balaustrate e spalliere di bosso. E
sull’alto del giardino, una grande villa coi vetri lampeggianti e tende gialle e arancio.
E tutto era deserto. I due bambini venivano su guardinghi calpestando ghiaia: forse le vetrate
stavano per spalancarsi tutt’a un tratto e signori e signore severissimi per apparire sui terrazzi e
grossi cani per essere sguinzagliati per i viali. Trovarono vicino a una cunetta una carriola.
Giovannino la prese per le staffe e la spinse innanzi: aveva un cigolo, a ogni giro di ruota, come un
fischio. Serenella ci si sedette sopra e avanzavano zitti, Giovannino spingendo la carriola con lei
sopra, fiancheggiando le aiole e i giochi d’acqua.
- Quello, - diceva Serenella a bassa voce di tanto in tanto, indicando un fiore. Giovannino
poggiava e andava a strapparlo e glielo dava. Ne aveva già dei belli in un mazzetto. Ma scavalcando
le siepi per scappare, forse li avrebbe dovuti buttar via!
Così arrivarono a uno spiazzo e finiva la ghiaia e c’era un fondo di cemento e mattonelle. E in
mezzo a questo spiazzo s’apriva un grande rettangolo vuoto: una piscina. Ne raggiunsero i margini:
era a piastrelle azzurre, ricolma d’acqua chiara fino all’orlo.
- Ci tuffiamo? - chiese Giovannino a Serenella. Certo doveva essere assai pericoloso se lui
chiedeva a lei e non diceva soltanto: - Giù! - Ma l’acqua era così limpida e azzurra e Serenella non
aveva mai paura. Scese dalla carriola e vi depose il mazzolino. Erano già in costume da bagno:
erano stati a cacciar granchi fino allora. Giovannino si tuffò: non dal trampolino perché il tonfo
avrebbe fatto troppo rumore, ma dall’orlo. Andò giù giù a occhi aperti e non vedeva che azzurro, e
le mani come pesci rosa; non come sotto l’acqua del mare, piena d’ombre informi verdi-nere.
Un’ombra rosa sopra di sé: Serenella! Si presero per mano e riaffiorarono all’altro capo, un po’ con
apprensione. No, non c’era proprio nessuno ad osservarli. Non era bello come s’immaginavano:
rimaneva sempre quel fondo d’amarezza e d’ansia, che tutto questo non spettava loro e potevano
esserne di momento in momento, via, scacciati.
Uscirono dall’acqua e proprio lì vicino alla piscina trovarono un tavolino col ping-pong.
Giovannino diede subito un colpo di racchetta alla palla: Serenella fu svelta dall’altra parte a
rimandargliela. Giocavano così, dando bòtte leggere perché da dentro alla villa non sentissero. A un
tratto un tiro rimbalzò alto e Giovannino per pararlo fece volare la palla via lontano; batté sopra un
gong sospeso tra i sostegni d’una pergola, che vibrò cupo e a lungo. I due bambini si rannicchiarono
dietro un’aiola di ranuncoli. Subito arrivarono due servitori in giacca bianca, reggendo grandi
vassoi, posarono i vassoi su un tavolo rotondo sotto un ombrellone a righe gialle e arancio e se ne
andarono.
Giovannino e Serenella s’avvicinarono al tavolo. C’era tè, latte e pan-di-Spagna. Non restava che
sedersi e servirsi. Riempirono due tazze e tagliarono due fette. Ma non riuscivano a stare ben seduti,
si tenevano sull’orlo delle sedie, muovendo le ginocchia. E non riuscivano a sentire il sapore dei
dolci e del tè e latte. Ogni cosa in quel giardino era così: bella e impossibile a gustarsi, con quel
disagio dentro e quella paura, che fosse solo per una distrazione del destino, e che presto sarebbero
chiamati a darne conto.
Quatti quatti, si avvicinarono alla villa. Di tra le stecche d’una persiana a griglia videro, dentro,
una bella stanza ombrosa con collezioni di farfalle alle pareti. E in questa stanza c’era un pallido
ragazzo. Doveva essere il padrone della villa e del giardino, lui fortunato. Era seduto su una sedia a
sdraio e sfogliava un grosso libro con figure. Aveva mani sottili e bianche e un pigiama accollato
benché fosse estate.
Ora, ai due bambini, spiandolo tra le stecche, si spegneva a poco a poco il batticuore. Infatti quel
ragazzo ricco sembrava sedesse e sfogliasse quelle pagine e si guardasse intorno con più ansia e
disagio di loro. E s’alzasse in punta di piedi come se temesse che qualcuno, di momento in
momento, potesse venire a scacciarlo, come se sentisse che quel libro, quella sedia a sdraio, quelle
farfalle incorniciate ai muri e il giardino coi giochi e le merende e le piscine e i viali, erano concessi
a lui solo per un enorme sbaglio, e lui fosse impossibilitato a goderne, ma solo provasse su di sé
l’amarezza di quello sbaglio, come una sua colpa.
Il ragazzo pallido girava per la sua ombrosa stanza con passi furtivi, accarezzava i margini delle
vetrine costellate di farfalle con le bianche dita, e si fermava in ascolto. A Giovannino e Serenella il
batticuore spento riprendeva ora più fitto. Era la paura di un incantesimo che gravasse su quella
villa e quel giardino, su tutte quelle cose belle e comode, come un’antica ingiustizia commessa.
Il sole s’oscurò di nuvole. Zitti zitti Giovannino e Serenella se ne andarono. Rifecero la strada pei
vialetti, di passo svelto, ma senza mai correre. E traversarono carponi quella siepe. Tra le agavi
trovarono un sentiero che portava alla spiaggia, breve e sassosa, con cumuli d’alghe che seguivano
la riva del mare. Allora inventarono un gioco bellissimo: battaglia con le alghe. Se ne tirarono
manciate in faccia uno con l’altra fino a sera. C’era di buono che Serenella non piangeva mai.

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