domenica 5 novembre 2023

Ai margini della storia





Non tutti gli articoli che Italo Calvino ha pubblicato nell'edizione piemontese dell'Unità sono rimasti sepolti tra le pagine del giornale. Alcuni sono stati ripresi in una raccolta dal titolo "Ultimo viene il corvo", pubblicata da Einaudi nel 1949 (una seconda edizione dello stesso libro è uscita, sempre da Einaudi nel 1958  con un nuovo titolo: "I racconti"). Nove articoli in tutto. Il più antico reca la data del 23 giugno 1946 e parla di una Italia remota in un tempo sospeso ai margini della storia. La guerra è finita, anche se il montanaro Baciccin non è proprio convinto di ciò. Di Resistenza non si parla. I personaggi sono quattro in tutto, Baciccin il Beato e sua figlia Costanza (Costanzina, Tancina), il narratore e suo padre. La città e il mondo sono visti da lontano. Compaiono nelle parole di Tancina che così ragisce a una domanda del narratore:

- Ti piace più Colla Bella o la città, Tancina?
- In città c'è il tiro a segno, - rispose, - i tram, la gente che spinge, il cinema, il gelato, la spiaggia con gli ombrelloni

Nel racconto Colla Bella è nominata prima ed è descritta dal narratore come "gialla e gerbida e deserta", in alto su un rilievo con ai piedi la città e il mare. Lassù c'era una casa sperduta, la più alta casa prima del bosco, la casa di Baciccin il Beato. La narrazione è quanto mai scarna. Non succede quasi nulla. La cagna di Baciccin leva a più riprese una lepre e la riporta al padrone tante volte finché non viene da lui uccisa. Tutto qui, in fondo. Una specie di idillio campestre. Non mi sembra che ci siano equivalenti nella letteratura italiana di quegli anni. Un buon termine di paragone è offerto invece da Eric Newby, Amore e guerra negli Appennini, Il Mulino, Bologna 1955. In Francia un quadro simile era presente in Regain di  
Jean Giono (1930).

Italo Calvino, L'uomo nei gerbidi, L'Unità edizione piemontese, 23 giugno 1946

Al mattino presto si vede la Corsica: sembra una nave carica di montagne sospesa laggiù sull'orizzonte. Se si fosse in un altro paese ne sarebbero nate delle leggende; da noi, no: la Corsica è un paese povero, più povero del nostro, nessuno ci è mai andato e nessuno ci ha mai pensato. Quando di mattina si vede la Corsica è segno che l'aria è chiara e ferma e non accenna a piovere.
In una di queste mattine, sull'alba, mio padre ed io salivamo su per i pietreti di Colla Bella, col cane alla catena. Mio padre aveva attorcigliato petto e schiena di sciarpe, mantelline, cacciatore, gilecchi, bisacce, borracce, cartuccere, in mezzo a cui nasceva una bianca barba caprina; alle gambe aveva un paio di schinieri di cuoio tutti graffiati. Io avevo un giubbotto liso e striminzito che mi lasciava scoperti i polsi e e le reni, e calzoni lisi e striminziti anch'essi e camminavo a passi lunghi come mio padre, ma con le mani seppellite nelle tasche e il lungo collo appollaiato sulle spalle. Tutt'e due avevamo vecchi fucili da caccia, di buona fattura, ma maltenuti e zigrinati dalla ruggine. Il cane era da lepre, orecchie abbandonate che scopavano terra, pelo corto e spinoso sui femori che logoravano la pelle; si trascinava dietro una catenaccia che sarebbe andata bene per un orso.
- Tu ti fermerai qui col cane, - disse mio padre. - Di qui batti due sentieri. Io andrò all'altro passo. Quando arrivo fischio e tu slegherai il cane. Tieni aperti gli occhi, che è un momento a passare la lepre.
Mio padre continuò per il pietreto e io m'acculai in terra col cane che uggiolava perché voleva seguirlo. Colla Bella è un'altura dalle pallide rive tutte terreni gerbidi, erbe dure a brucare e muri franati di antiche terrazze. Più sotto comincia la nera nuvolaglia degli uliveti, più su i boschi fulvi e spelacchiati dagli incendi, come schiene di vecchi cani. Le cose impigrivano nel grigio dell'alba come in un socchiudere di palpebre ancora assonnate. Al mare non si distinguevano confini, traversato fino in fondo da lame di foschia.
Si udì il fischio di mio padre. Il cane, sganciato dalla catena, partì a grandi zig-zag per il pietreto, azzannando l'aria di latrati. Poi si zittì, cominciò a nasare il terreno e corse via con nasate diligenti, a coda dritta con sotto una bianca macchia romboidale che sembrava illuminata.
Io tenevo lo schioppo puntato appoggiato alle ginocchia e lo sguardo appuntato appoggiato al crocicchio dei sentieri, che è un momento a passare la lepre. L'alba andava scoprendo i colori, a uno a uno. Prima il rosso delle bacche del tarassaco, dei tagli zonati sugli alberi di pino. Poi il verde, i cento, i mille verdi dei prati, dei cespugli, del bosco, poco prima tutti eguali: adesso invece ogni momento c'era un nuovo verde che nasceva e si distingueva dagli altri. Poi l'azzurro: quello urlante del mare che assordò tutto e fece restare pallido e timoroso il cielo. La Corsica sparì bevuta dalla luce, ma tra mare e cielo il confine non si quagliò: rimase quella zona ambigua e smarrita che fa paura guardare perché non esiste.
A un tratto case, tetti, vie nacquero a piè delle colline, in riva al mare. Ogni mattina la città nasceva così dal regno delle ombre, tutt'a un tratto, fulva di tegole, baluginante di vetri, calcinosa d'intonachi. La luce ogni mattino la descriveva nei particolari più minuti, raccontava ogni suo andito, enumerava tutte le case. Poi veniva su per le colline, scoprendo sempre nuovi dettagli: nuove fasce, nuove case. Arrivava in Colla Bella, gialla e gerbida e deserta, e scopriva una casa anche lassù, sperduta, la più alta casa prima del bosco, a un tiro di fucile dal mio fucile, la casa di Baciccin il Beato.
La casa di Baciccin il Beato all'ombra sembrava un mucchio di pietre; intorno aveva come una fascia d'una terra incrostata e grigia come quella della luna, da cui s'alzavano pietre striminzite come ci coltivassero stecchi. C'erano dei fili tesi, sembrava per stendere i panni, invece era la vigna con piante tisiche e scheletrite. Solo uno smilzo fico sembrava avesse la forza di sorreggere le foglie e si contorceva sotto il peso sull'orlo della fascia.
Uscì Baciccin: era magro che per vederlo bisognava si mettesse di profilo, se no si vedevano solo i baffi, che aveva grigi e spiegati nell'aria. Portava un passamontagna di lana in testa e un abito di fustagno. Vide me appostato e si avvicinò. 
- Lepre, lepre, - disse.
- Leore, sempre lepre, - risposi.
- Sparato la settimana scorsa a una grossa così su quella riva. Sbagliata.
- Scarogna.
- Scarogna, scarogna. Già io per la lepre non ci sono portato. Preferisco mettermi sotto un pino e aspettare i tordi. In una mattina cinque o sei botte si sparano.
- Così vi fate la pietanza, Baciccin Beato.
- Io poi li sbaglio tutti, però.
- Succede. Le cartucce, sono.
- Quelle che vendono sono imbrogli. Caricatevele da soli.
- Io me le carico da me, però. Forse le carico male.
- Eh, bisogna saperci fare.
- E già, e già.
Intanto s'era piantato a braccia aperte in mezzo al crocicchio e restava lì. La lepre non sarebbe mai passata se lui restava lì in mezzo. "Adesso gli dico che si levi", pensavo, ma non glielo dicevo e restavo appostato lì lo stesso.
- E non piove, e non piove, - diceva Baciccin.
- La Corsica stamattina, avete visto?
- La Corsica. È tutta secca. La Corsica.
- Annata cattiva, Baciccin Beato.
- Annata cattiva. Piantate le fave. Nate?
- Nate? No.
- Semenza cattiva, vi hanno venduto, Baciccin.
- Semenza cattiva, annata cattiva. Otto piante di carciofi.
- Perbacco.
- Dite quanto m'han reso.
- Dite.
- Tutti morti.
- Perbacco.
Uscì di casa Costanzina, la figlia di Baciccin il Beato. Poteva avere sedici anni, la faccia a forma di oliva, gli occhi, la bocca, le narici a forma di oliva e le treccine giù per le spalle. Anche i seni a forma di oliva doveva avere, tutta d'uno stile, raccolta come una statuetta, selvatica come una capra, le calze di lana ai ginocchi.
- Costanzina, - chiamai.
- Oh!
Ma non s'avvicinava, aveva paura di spaventare le lepri.
- Non abbaia ancora, non l'ha levata,- disse il Beato.
Tendemmo l'orecchio.
- Non abbaia, si può restare ancora, - e se ne andò-
Costanzina mi si sedette vicino. Baciccin il Beato s'era messo a girare per la sua fascia desolata, a potare le viti striminzite; ogni tanto smetteva e tornava a discorrere.
- Cos'è successo di nuovo in Colla Bella, Tancina? - chiesi. La ragazza cominciò a raccontare diligente:
- Ieri sera ho visto i leprotti saltare sotto la luna. Ghi! Ghi! facevano. Ieri è nato un fungo dietro la rovere. Velenoso, rosso coi punti bianchi. L'ho ucciso con una pietra. Una biscia, grande e gialla, a mezzogiorno è scesa per il sentiero. Abita in quel cespuglio. Non tirarle pietre, è buona.
- Ti piace abitare in Colla Bella, Tancina?
- Alla sera no: sale la nebbia alle quattro e la città scompare. Poi, a notte, si sente urlare il gufo.
- Paura il gufo?
- No, Paura le bombe, gli aeroplani.
S'avvicinò Baciccin.
- E la guerra, come va la guerra?
- Del bello che è finita la guerra, Baciccin.
- Ben. Quel che c'è al posto della guerra, allora. Io poi, che sia finita non ci credo. Tante volte che l'han detto, tante volte che ricominciava in un altro modo. Dico male?
- No, dite bene.
- Ti piace più Colla Bella o la città?
- In città c'è il tiro a segno, - rispose, - i tram, la gente che spinge, il cinema, il gelato, la spiaggia con gli ombrelloni.
- In città ci sono palazzi foderati di specchi, - raccontai, - con saloni che entrando ti fa l'effetto come di un albero di Natale, sai l'albero di Natale?
- Con candeline appese?
- Con donne nude sul petto e dietro; involte in stoffe di tutti i colori che si ripetono mille volte negli specchi.
- Bello. Mi ci porti?
- Questa qui, - disse Baciccin, - non ci ha tanta passione per andare in città, ma all'altra piaceva tanto che non è più tornata.
- Dov'è adesso?
- Ma.
- Ma, piovesse almeno.
- Davvero. Piovesse. La Corsica, stamattina. Dico male?
- Bene, dite.
Lontano cominciò uno scatenarsi di latrati.
- Il cane ha levato la lepre, - dissi.
Il Beato venne a a fermarsi sul passo, a braccia conserte.
- Batte. Batte bene, - disse. - Io avevo una cagna che si chiamava Cililla. Capace di star dietro a una lepre per tre giorni. Una volta l'andò a scovare in cima al bosco e me la portò a due metri sotto il fucile. Due botte, le tirai. Sbagliata.
- Tutte non possono andar bene.
- Non possono. Ben, continuò a battere la lepre per due ore...
Si sentirono due spari, ma poi il latrare ricominciò sempre più vicino.
- ... Dopo due ore, - riattaccò Baciccin, - mi riportò la lepre come prima. La sbagliai ancora, porcomondo.
A un tratto un leprotto apparve saettante sul sentiero, arrivò quasi sulle gambe a Baciccin, poi scartò nei cespugli e sparì. Io nemmeno avevo fatto in tempo a puntare.
- Perbacco! - gridai.
- Che c'è? - chiese il Beato.
- Niente, - dissi.
- Ben, - riprese il Beato, - quella cagna non continuò a battere la lepre e a riportarmela tante volte finché non la presi? Che cagna!
- Dov'è adesso?
- M'è scappata.
- Ben, tutte non possono andar bene.
Tornò mio padre col cane trafelato. Sacramentava.
- Per un pelo, Di qui a lì. Una bestia così. L'avete vista?
- Nulla, - disse il Beato.
Io misi lo schioppo a tracolla e prendemmo a scendere.





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