venerdì 8 novembre 2024

La memoria delle parole




Nel dialetto che parlavo quand'ero ragazzo e che ancora capisco, c'erano delle parole di origine greca. Tanto tempo fa, nel 1937, un filologo tedesco, Gerhard Rohlfs, scrisse un articolo nel quale tentò di dimostrare che una parte almeno di quelle parole veniva dal greco classico. Il Cilento, dove abitavo, ha sul suo territorio i ruderi di Poseidonia (Paestum) e di Elea (Velia). Il culto diffuso in Germania per il patrimonio culturale della Grecia classica aiuta a intravedere le ragioni di una tale pensata. Rohlfs con ogni probabilità aveva torto. I grecismi del Cilento corrispondono spesso a parole latine di origine greca e, se proprio hanno a che fare con una presenza greca nella zona, è più sensato pensare all'insediamento di numerosi monaci bizantini in un'epoca successiva che non alle colonie cancellate in quanto tali dalla dominazione romana già nel terzo secolo avanti Cristo. 

Come che sia, alcune tra le parole di origine greca nei dialetti cilentani conservano per me un fascino che con l'età è andato addirittura crescendo. Ho lasciato quei luoghi da giovane e non sono più tornato. Allora la parola greca che ritorna nella memoria si carica di tutto il peso di un passato che, pur appartenendomi, si colloca ormai fuori della mia portata. Quella parola porta con sé una ventata di esotismo, mi conduce a riflettere su quanto possa essere incerta la nozione di identità. Sono stato il ragazzo che usava senza pensarci troppo certe espressioni, sono sempre la stessa persona ma non sono più in grado di tenere una conversazione decente in quel dialetto. Mi rimangono alcune parole e mi danzano nella testa. Volendo, agiscono come la madeleine in Proust. Sono l'occasione che scatena il ricordo. Si tirano dietro tutto un mondo di sensazioni, sapori, odori, immagini.  
Vediamo alcuni esempi.

Artéteca è una parola che si usa tanto a Napoli quanto nel Cilento. Arthron in greco sta per giuntura, articolazione. La radice greca è passata attraverso il latino e, nel nuovo contesto ha prodotto al tempo del tardo impero e dei regni romano-barbarici il termine arthritis. Una febbre reumatica accompagnata da forti spasmi involontari alle articolazioni veniva allora detta arthritica. Da arthritica a artéteca il passo è breve. Il termine dialettale artéteca non designa più una malattia in senso clinico, serve a designare la mobilità estrema che spesso e volentieri caratterizza i bambini: un piccolino che non sta mai fermo ha [“tiene”]  l’arteteca, in quanto appare dotato di un temperamento vivace e irrequieto. Un equivalente francese è bougeotte, che però indica la tendenza a spostarsi, a viaggiare.

Cárcara: Rohlfs definisce la cárcara come “parte del mulino dove gira la ruota e dove esce l’acqua”. Esiste tuttavia un altro significato della parola: “piccola fabbrica di calce” (vocabolario di Sicilì). Questa poteva anche ridursi a una buca o una fossa scavata nel terreno. Ormai la calce si fabbrica in modo industriale. La fossa scavata nel terreno permetteva invece una produzione domestica. Era l’equivalente in campo edilizio del forno domestico per il pane. La pratica che risaliva al tempo dei greci e dei romani cessa solo negli anni Ottanta del Novecento. Nel mio ricordo la cárcara nell’orto sotto casa corrisponde all’immagine di una impresa spettacolare. La calce che ribolle e che non si può toccare tanto è calda. Una grande macchia bianca. 

Carocchia. Il termine napoletano e cilentano deriva dal greco “karà”, testa. Indica un tipo particolare di percossa, un colpo secco e doloroso assestato al capo e portato con movimento veloce dall’alto verso il basso usando le nocche maggiori delle dita della mano serrata a pugno. Una possibile traduzione italiana potrebbe essere nocchino”, che è pure un termine regionale. Non è risolutiva in quanto corrisponde a un piccolo gesto ripetuto, mentre la carocchia è una sola botta decisaCambia l’intensità: il nocchino è un colpetto più o meno indolore, la parola napoletana invece si avvicina nel significato alla batosta. Nell’espressione ‘na brutta carocchia il senso è proprio quello di batosta: un duro colpo riguardo al lavoro, alla salute o all’autostima. Notevole anche il proverbio “A carocchie, a carocchie, Pulecenella accerette ‘a mugliera”. Pulcinella uccise la moglie con ripetute botte in testa, ossia continui piccoli danni possono provocare grave nocumento.

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giovedì 7 novembre 2024

L'ombra di Elon Musk


Aldo Cazzullo, Il ritorno e i motivi, Corriere della Sera, 7 novembre 2024

 Trump torna ricco e spietato, ma la vera sorpresa non è questa. Non è il miracolo di sopravvivere alla sconfitta del 2020, al tentativo di colpo di Stato, alla traversata del deserto in un’America per metà ostile, in un partito repubblicano i cui ultimi leader lo detestano. Il suo vero miracolo è essere tornato senza cambiare se stesso. Non vince nonostante sia Trump; vince perché è Trump. 
Trump torna come il conte di Montecristo senza rinunciare a nulla, anzi mostrandosi ancora più rozzo, volgare, aggressivo. Voleva vendetta; e vendetta ha avuto. Ha stravinto senza seguire nessuno dei buoni consigli dei collaboratori, non a caso licenziati di continuo. Senza rinunciare a nessuna delle cose che feriscono, indignano, fanno ridere gli avversari.
Trump non è cambiato; si è espanso. Ad esempio è sbarcato su Tiktok, i suoi video sono stati visti da decine di milioni di giovani, e molti hanno votato per lui. Come il poeta Fernando Pessoa, può dire di sé: «Sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi, mi sono spogliato, mi sono dato, e in ogni angolo della mia anima c’è un altare a un dio differente». Il suo, ovviamente, non è il Dio cristiano pregato in ogni suo comizio, il Dio che lui pensa abbia deviato il proiettile di Thomas Matthew Crooks, l’attentatore della Pennsylvania; è il denaro. Trump ne ha fatto molto meno del suo nuovo amico Elon Musk; ma ne ha fatto comunque tanto, e sempre vendendo se stesso, dedicando la vita al proprio brand, piazzando vari prodotti — i grattacieli Trump, l’università Trump, i casinò Trump, il vino Trump — uniti da un solo dettaglio comune: il suo nome. Per questo sul palco della vittoria ha elogiato la moglie: «Il libro di Melania è in testa alla classifica!» (non è vero, su Amazon è terzo; mai però sporcare con la verità una storia a lieto fine).

L’antipolitico

Trump ha fatto lo stesso in politica. Nonostante le tre campagne presidenziali e i quattro anni alla Casa Bianca, non è percepito come un politico. Se lo votano sia le classi popolari sia i milionari, è perché entrambe le categorie possono dire: «Donald è uno di noi». Lui stesso ama definirsi un povero con i soldi, il campione di quella «white trash», spazzatura bianca, che in questi anni ha pagato l’inflazione e l’impoverimento, e non ha digerito né la lezioncina morale del politicamente corretto, né il declino della potenza americana.

Trump adora i dittatori, e i dittatori adorano lui. Gli uomini forti del pianeta si sono affrettati a congratularsi. Putin, Erdogan, Xi si rallegrano, si compiacciono, un po’ si specchiano. E pure per qualche leader democratico, per primo Netanyahu, non poteva esserci notizia migliore. Ma proprio perché la dimensione personale e autoritaria del potere è in ascesa in tutto il mondo, gli americani volevano al posto di comandante in capo un uomo — non una donna — percepito come forte, o almeno come imprevedibile: il «cane pazzo» che nessuno molesta perché nessuno sa come reagirà. E chissà perché tutti ora si aspettano la pace: in Ucraina, in Medio Oriente, nel pianeta. Come se Trump avesse un altro modo di fare la pace diverso dal disimpegno: che se la vedessero tra loro, russi e ucraini, e tutti gli altri.

Poi certo i democratici ci hanno messo del loro. Hanno fatto le primarie per confermare Biden nonostante la seminfermità, hanno atteso che sparassero a Trump per cambiare candidato, e poi si sono illusi che Kamala Harris, nonostante le palesi lacune di leadership, potesse batterlo o almeno tenergli testa. La sconfitta invece è netta: persi tutti gli Stati in bilico, il Senato, la Camera, il voto popolare, e pure la faccia. Ancora una volta, i sondaggi hanno sottovalutato Trump, non hanno colto il movimento in suo favore negli ultimi giorni.


L’abbaglio


A ben vedere, l’errore culturale dei democratici americani è lo stesso degli europei: pensare che Trump sia un leader debole, che debba pagare un prezzo alla sua scorrettezza politica — diciamo pure maleducazione —, alla sua immediatezza – o meglio rozzezza —, alla sua tracotanza. È vero il contrario: Trump ai suoi piace anche per questo, perché non pensa, non sente, non parla come un politico o un moralista o un intellettuale, ma come una star, cui tutto è concesso. Anche nella sua New York è andato meglio del previsto. La sua America è in maggioranza bianca, maschia, cristiana, ma hanno votato per lui molti latinos, molti neri, e molte donne. Perché, se tante lo vedono giustamente come un pericolo alla loro libertà, altrettante adorano Trump; e non soltanto le ragazze vestite di rosso che l’altra sera spingevano come forsennate per avvicinarsi al palco ornato da cinquanta bandiere americane e cinquanta aquile, pettinate come lui, con il ciuffo da uccello da preda.

Gli europei, già abbastanza divisi di loro, hanno davanti quattro anni durissimi. Anche l’Europa è stata spazzata dal vento anti-sistema, antiélites, anti-establishment, anti-politico che infuria qui in America. Solo che l’Europa, finora, aveva resistito: i populisti sono andati al governo in uno solo tra i grandi Paesi (indovinate quale). Ma ora i centristi — Von der Leyen, Macron — e i progressisti — Scholz che l’anno prossimo perderà le elezioni, Sánchez inseguito dagli alluvionati con i bastoni — se la dovranno vedere con Trump. Che disprezza apertamente gli europei e l’Unione europea, non la riconoscerà, e tratterà direttamente con i singoli Stati, certo da posizioni di forza. Minaccerà dazi, prometterà favori, chiederà più soldi per la Nato. Dividerà per imperare. L’ha già fatto la prima volta; ma allora Macron era all’inizio, non alla fine; e la Germania aveva Angela Merkel.

Oggi il vento del sovranismo che in Europa spira da Est sarà più forte. In Italia vince ovviamente Salvini, ma pure la Meloni esce rafforzata nei rapporti con Bruxelles, Parigi, Madrid, Berlino. Nella speranza che la nuova era Trump diventi un vantaggio strategico, non un richiamo della foresta populista. E c’è un messaggio pure per Elly Schlein: se la sinistra non si rende conto che il prezzo dell’immigrazione incontrollata lo pagano le classi popolari, in termini di diritti, sicurezza, salari, perderà pure le prossime elezioni, e le prossime ancora.

Quattro anni di Trump non implicano solo un’incognita in politica estera. Non significano soltanto che sarà lui a officiare riti sportivi di immenso impatto, dai Mondiali di calcio del 2026 all’olimpiade di Los Angeles 2028. Significa una pericolosa battuta d’arresto nella lotta contro il cambio climatico. Trump denunciò gli accordi di Parigi, Biden riportò l’America al tavolo, il Trump conte di Montecristo si chiamerà di nuovo fuori; e a questo punto perché India e Cina dovrebbero impegnarsi? E davvero non si capisce perché la destra mondiale consideri il cambio climatico un’ubbìa da progressisti, e non avverta la responsabilità che nella Bibbia Dio assegna all’uomo e che dovrebbe essere cara ai conservatori: custodire il creato, proteggere la natura.


I fedelissimi


Ma il vero capo della nuova destra globale non è Trump. Trump ha 78 anni. Ha davanti un periodo importante, cruciale, denso, ma limitato. Dietro di lui qualcuno intravede l’ombra della figlia Ivanka, l’altra sera peraltro non nominata, a differenza del più piccolo, Barron, il figlio di Melania, che non è più il bambino visto sbadigliare in mondovisione otto anni fa, ma ha la stessa aria spaurita di allora. Personaggio interessante è il vicepresidente, J.D. Vance. Stavolta Trump non si affiderà a generali e a personaggi dell’establishment; si circonderà di fedelissimi; farà di testa sua, e vedremo cosa saprà fare.

Il vero capo della nuova destra globale, però, è Elon Musk. Se un miliardario asiatico o africano avesse messo in palio un milione di dollari al giorno tra gli elettori indecisi, gli osservatori Usa avrebbero invalidato le elezioni per brogli. I magistrati della Pennsylvania prima hanno bloccato la lotteria, poi l’hanno sbloccata con tante scuse. Musk ha versato a Trump 130 milioni di dollari, e ne ha guadagnati 13 miliardi solo con il balzo di Tesla a Wall Street. Ma ormai è chiaro che per Musk i soldi sono solo un mezzo per il suo vero obiettivo: il potere sulle anime. La politica non cambierà il mondo; Musk sì, o almeno è convinto di farlo, di esplorare lo Spazio e l’uomo, sino ai confini dell’immortalità. Per Trump e quelli come lui è il nuovo sogno americano; per altri è un incubo. Di sicuro Musk ha comprato Twitter, gli ha cambiato nome, l’ha messo al servizio di Trump, e «intervistandolo» ha detto la frase più agghiacciante del nuovo secolo: «A Hiroshima e Nagasaki ora ci sono di nuovo delle città». La bomba atomica, che sarà mai. Davvero hanno vinto i pacifisti? Di sicuro, la maggioranza del popolo americano pensa che si stava meglio quattro anni fa, e ha fiducia di stare meglio tra quattro anni. E il popolo americano, si sa, è irrequieto, ribelle, ottimista. Molto ottimista.

mercoledì 6 novembre 2024

La filastrocca delle lucciole




C'erano nel dialetto cilentano della mia infanzia delle parole derivate dal greco. Il filologo tedesco Gerhard Rohlfs ha perfino voluto sostenere che quei vocaboli almeno in parte avessero a che fare con la antica presenza dei coloni greci nella zona. Ipotesi discutibile. 
La derivazione diretta dall’antichità greca accantonata e messa da parte, quel che resta è un bel repertorio di parole dall'aria esotica. Alcune, non tutte, sono molto belle. Catacatascio, catecatascia per lucciola fa pensare al gioco danzante dell’insetto nel buio, ma non contiene nessun richiamo al pur modesto splendore dell’insetto. L'origine greca del termine è almeno probabile per via del prefisso "cata" (sotto). L' etimologia di "catascia", "catascio" dà invece luogo a opinioni divergenti. Innegabile è la consonanza onomatopeica della parola che richiama l'alternanza dell'accensione e dello spegnimento. Le sillabe ripetute facevano da motivo conduttore in una crudele filastrocca al tempo di me bambino o ragazzo:

Catacatascio
a monte e abbascio
Vieni vieni
ca mo’ te scascio

Lucciola che vai su e giù, vieni vieni che ora ti rovino”.
Ne esiste una variante che dice:

Catacatàscia, scinni abbàscio:
mo' te véo, mo' te scascio
"

Lucciola, vieni giù, ora ti vedo, ora ti rovino". 
La versione toscana di questa filastrocca è molto più fantasiosa e gentile:

Lucciola lucciola gialla gialla
metti la briglia alla cavalla
che la vuole il figlio del re
lucciola lucciola vieni con me

Ugualmente gentile e graziosa è la versione tradizionale italiana:

Lucciola lucciola vien da me
ti darò il pan del re
pan del re e della regina
lucciola lucciola vien vicina

Il greco si ritrova altrove nel Sud, con la rima in -asce. Così a Trevico (Avellino):

Cata catascia
scinn abbasce
ie te chiure
e tu ti skascie
e si skascie la cascatella
vien abbasce quera cchiù bella.

Lucciola vieni giù, io ti chiudo e tu ti rompi e se cascando ti rovini, viene giù quella più bella”. Per "skascie la cascatella" non sarebbe da escludere una sequenza legata al gioco della ripetizione meccanica senza un significato chiaro. 
Decisamente crudele il testo di Calitri, sempre dalle parti di Avellino:

Botta catascia scinn’ abbasc’
ramm’ la chiav’ r’ la cascia
tu te ‘nghiur’ e ij t’ skasce

Avanti lucciola vieni giù, dammi le chiavi della cassa, tu ti chiudi e io ti rovino”.

Nomen omen. Nel Sud, il nome greco è stato portatore di morte per le lucciole. Tutto questo per via delle assonanze con certe parole dialettali. Più fortunato il termine italiano lucciola, che sembra quasi un vezzeggiativo. E lasciamo stare la metafora che porta a usare la parola come sinonimo di prostituta. Vale la pena di ricordare da ultimo il valore simbolico dell'insetto: associata alla luce interiore, la lucciola incarna la speranza che ci invoglia a resistere nei momenti di sconforto. Proiettata nel mondo dei sogni, in alcune leggende giapponesi, essa rimanda alle anime dei condottieri morti in battaglia. Nel pensiero magico, viene collegata all'elemento del fuoco e simboleggia lo spirito. 



La merda piace




Alfonso Berardinelli, Paura di Trump? Ok, ma sappiate che il peggio deve ancora venire. Il Foglio, 6 novembre 2024

Mi sembra che si stia diffondendo, più fra la gente comune, cioè la maggioranza delle persone, che nei giornalisti, cioè gli addetti all’attualità, un senso di disperazione, di non speranza e di pessimismo sul come vanno e possono andare le cose nel mondo. Qualche giorno fa ho incontrato uno scienziato americano, un sismologo, che con una sola parola mi ha confermato una tale impressione. Interrogato sulle prossime elezioni, ha detto, quasi con pudore e a bassa voce, che negli Stati Uniti si nota, in crescita, un istinto di distruzione e autodistruzione, un istinto suicida che porterà gli elettori a votare Trump.
Senza dare importanza scientifica alla frase di uno scienziato della Terra, dei vulcani e dei terremoti (è in Italia per studiare cosa può succedere al monte Pollino in Calabria), qualche ragione dovrà esserci se un individuo abituato a ragionare secondo metodi scientifici, per esperienze e prove, azzarda una diagnosi psicosociale e psicopolitica come quella della pulsione, reale e metaforica, al suicidio.
Del resto mi pare che il pessimismo, anche in chi non ne parla, stia diventando molto più diffuso dell’ottimismo. Perfino gli ottimisti ideologici o caratteriali sembrano non sapere più su che cosa precisamente sperare. Se non di disperazione, si tratta di una non speranza suggerita, indotta dai fatti. Si “vuole” essere ottimisti almeno a parole, per evitare di pensare al peggio, una cosa senza dubbio poco piacevole e che non fa bene alla salute. Stando alle notizie date dai giornali e da tutti i media, ci vuole molta pazienza e buona volontà per scovare nel mondo qualche segno che incoraggi all’ottimismo.
I fenomeni climatici sono impazziti, anomali e fuori controllo, con effetti drammatici che non sappiamo come affrontare e mitigare. I comportamenti elettorali sono spesso irrazionali e soprattutto esprimono scarsissima fiducia nella politica, sia da parte dei più giovani che dei più anziani. Non si va a votare perché non si crede che ci sia un tipo di governo capace, piuttosto che un altro, di risolvere i maggiori problemi. La biochimica del pianeta è alterata da micro e macrofenomeni che in superficie o dai fondi marini arrivano a minacciare la nostra salute, dalle nuove possibili epidemie o pandemie alla quantità di polvere di plastica insediata nei nostri organi. Si scopre ogni tanto l’ombrello, cioè che avere Internet in tasca ci rende sia schiavi dell’informazione spazzatura sia accessibili agli spionaggi e a uno sfruttamento illecito e per noi dannoso dei dati personali. La geopolitica mondiale, dall’asia all’africa, alle Americhe e all’Europa, è sempre più sul punto di deflagrare. La vita sociale quotidiana, perfino in Europa occidentale, è sempre meno sicura. Gli adolescenti ansiosamente ossessivi non mostrano neppure di capire che cos’è un crimine. I “normali” e insospettabili uomini maturi ammazzano le mogli per gelosia o stuprano le ragazzine. Gli scienziati in carriera si imbottiscono di psicofarmaci fino a impazzire, stressati dalla competizione professionale. Le religioni sono moralmente impotenti. La devozione e la fede non migliorano il comportamento dei credenti e anzi esasperano i conflitti etnico-culturali e territoriali. La famiglia è più o meno sparita e non educa a niente. La scuola soffre di mancanza di motivazioni e di buone regole, nonché di insegnanti all’altezza della situazione. Le arti sono in via di sparizione, sostituite dall’idea di creatività indiscriminata e a vuoto. I cosiddetti artisti mancano di attitudini e di capacità tecnico-artigianali: in sostanza, non hanno pazienza di migliorare i loro prodotti. Le scienze servono soprattutto alla sovrapproduzione ingegneristica e allargano il mercato di merci tecnologiche. Ovviamente scienza, arte e politica in sé sono solo idoli retorici: le scienze “sono” chi oggi le pratica, come la politica e le arti “sono” chi oggi le fa.
Per essere ottimisti si dovrebbe credere, come gli antichi, da Socrate a Hume, alle “virtù” degli esseri umani, i quali lavorano invece con tutti i mezzi a dimenticare il senso della parola “virtù”. Ci credono un po’ gli sportivi. Ma lo sport ha una fissazione, un difetto di base: superare i record, chissà perché, e vincere gli avversari solo allo scopo di alzare in alto una coppa. Un po’ poco.
Tempi duri e bui come una volta e come sempre? Forse sì, ma il peggio esiste e non smette di farsi vivo. Il diavolo, cioè il male, ci mette la sua coda o zampa. Mostra di esistere in tutti coloro che ci tengono a farlo esistere. Le mostruosità, anche quelle minuscole e insensate, vanno di moda, attirano. Sono in vetrina, in prima fila e sul palco, sugli schermi e sui display. Come diceva un mio caro amico, non è che non si distingue ciò che è merda, è che la merda piace. C’è da ridere, ma anche da piangere. Ora se vince Trump per l’occidente non c’è speranza.

https://machiave.blogspot.com/2024/10/voltaire-se-la-prende-con-i-creduloni.html


domenica 3 novembre 2024

Il monologo di Molly Bloom

 


Ulisse
di James Joyce (1921), traduzione di Marilena Beltramini

Le ultime parole famose

Che ora bestiale mi dà l'idea che in Cina si stanno alzando a quest'ora e si pettinano i codini per la giornata tra poco le monache suoneranno l'angelus non c'è nessuno che vada a disturbare i loro sonni se non qualche prete per le funzioni della notte la sveglia di quelli accanto al primo chicchirichì mi fa uscire il cervello a forza di far fracasso guardiamo un po' se riesco ad addormentarmi 1 2 3 4 5 che razza di fiori sono quelli che hanno inventato come le stelle la carta da parati di Lombard street era molto più carina quel grembiule che mi ha dato assomigliava un po' solo che l'ho portato solo due volte meglio abbassare la lampada e provare ancora in modo da alzarsi presto voglio andare da Lambes là vicino a Findlaters e farmi mandare dei fiori da mettere per casa nel caso lo portasse qui domani cioè oggi no no il venerdì porta male prima voglio fare un po' di pulizie la polvere sembra che si ammucchi mentre dormo poi un po' di musica e qualche sigaretta posso accompagnarlo prima devo pulire i tasti del piano col latte cosa mi devo mettere porterò una rosa bianca o quelle brioches di Lipton mi piace l'odore di un bel negozio di lusso a sette penny e mezzo la libbra o quelle altre con le ciliegine e lo zucchero rosa 11 pence un paio di libbre di quelle e poi una bella piantina in mezzo alla tavola si trova a minor prezzo da un momento dove le ho viste non è mica tanto io amo i fiori vorrei che la casa nuotasse nelle rose Dio del cielo non c'è niente come la natura le montagne selvagge poi il mare e le onde galoppanti poi la bella campagna con campi d'avena e di grano e ogni specie di cose e tutti quei begli animali in giro ti farebbe bene al cuore veder fiumi laghi e fiori ogni specie di forme e odori e colori che spuntano anche dai fossi primule e violette e questa la natura e quelli che dicono che non c'è un Dio non darei un soldo bucato di tutta la loro sapienza perché non provano loro a creare qualcosa gliel'ho chiesto spesso gli atei o come diavolo si chiamano vadano e si lavino un po' prima e poi strillano per avere il prete quando stanno per morire e perché perché perché hanno paura dell'inferno per via della loro cattiva coscienza ah sì li conosco bene chi è stato il primo nell'universo prima che ci fosse qualcun altro che ha fatto tutto chi ah non lo sanno e nemmeno io eccoci tanto vale che cerchino di impedire che domani sorga il sole il sole splende per te disse lui quel giorno che eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth con quel suo vestito di tweed grigio e la paglietta il giorno che [gli] feci fare la dichiarazione sì prima gli passai in bocca quel pezzetto di biscotto all'anice e era un anno bisestile come ora sì 16 anni fa Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo più fiato sì disse che ero un fior di montagna sì siamo tutti fiori allora un corpo di donna sì è stata una delle poche cose giuste che ha detto in vita sua e il sole splende per te oggi sì perciò mi piacque sì perché vidi che capiva o almeno sentiva cos'è una donna e io sapevo che me lo sarei rigirato come volevo e gli detti quanto più piacere potevo per portarlo a quel punto finchè non mi chiese di dir di sì e io dapprincipio non volevo rispondere guardavo solo in giro il cielo e il mare e pensavo a tante cose che lui non sapeva di Mulvey e Mr Stanthope e Hester e papà e il vecchio capitano Groves e i marinai che giocavano al piattello e alla cavallina come dicevano loro sul molo e la sentinella davanti alla casa del governatore con quella cosa attorno all'elmetto bianco povero diavolo mezzo arrostito e le ragazze spagnole che ridevano nei loro scialli e quei pettini alti e le aste [vendite] la mattina i Greci e gli Ebrei e gli Arabi e il diavolo chi sa altro da tutte le parti d'Europa e Duke Street e il mercato del pollame un gran pigolio davanti a Larby Sharans e i poveri ciuchini che inciampavano mezzi addormentati e gli uomini avvolti nei loro mantelli addormentati all'ombra sugli scalini e le grandi ruote dei carri dei tori e il vecchio castello e vecchio di mille anni si e quei bei mori tutti in bianco e turbanti come re che chiedevano di metterti a sedere in quei buchi di botteghe e Ronda con le vecchie finestre delle posadas fulgidi occhi celava l'inferriata perché il suo amante baciasse le sbarre e le gargotte mezzo aperte la notte che perdemmo il battello ad Algeciras il [guardiano] che faceva il suo giro con la lampada e Oh quel pauroso torrente laggiù in fondo Oh e il mare il mare qualche volta cremisi come il fuoco e gli splendidi tramonti e i fichi nei giardini dell'Alameda sì e tutte quelle stradine curiose e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e i gerani e i cactus e Gibilterra da ragazza dov'ero un Fior di montagna sì quando mi misi la rosa nei capelli /come facevano le ragazze andaluse o ne porterò una rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco /e io pensavo beh lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora sì allora mi chiese se io volevo sì dire di sì mio fior di montagna e per prima cosa gli misi le braccia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva come impazzito e sì dissi sì voglio sì. 

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Nicola Lagioia, E Molly (ri)creò il mondo, la Repubblica, Robinson, 3 novembre 2024

Quando ho riletto Ulisse non più ventenne, ma da trentenne e quarantenne, i miei favori e il mio affetto hanno cominciato a spostarsi verso Leopold Bloom. «L’uomo medio sensuale » , come l’aveva definito Ezra Pound, cominciò ad apparirmi ben più eroico (e comico) dello spigoloso Stephen ( Dedalus). Cos’è che ho iniziato ad amare in Leopold? La pazienza, certo, ma anche gli appetiti, la capacità di sopportare dolori e frustrazioni, ma anche la curiosità, la composita natura del combustibile che lo fa errare in lungo e in largo per Dublino.
...  La mia esperienza da cinquantenne dell’Ulisse si concentra invece su Molly. (Non posso non trovare singolare che la mia predilezione, nel tempo, si sia mossa in parallelo a come, nello spazio del romanzo, è dato progressivo risalto ai tre personaggi). Nel dormiveglia di Molly tutto precipita nella notte e tutto si ricompone. È lei in definitiva – Penelope, non Ulisse; la Grande Madre più che il figlio ribelle e il padre putativo – la vera narratrice del romanzo. La tela, del resto, ha che fare con la trama.
Non starò ad analizzare i tantissimi momenti prodigiosi del monologo finale, è stato fatto in maniera eccellente e per fortuna incompleta, dal momento che questo libro non è ancora esaurito dalle interpretazioni di tutti quelli che vi si sono avvicendati. Dirò due piccole cose, minuscole intuizioni da sottoporre a verifica, pronte a essere spazzate da letture più illuminanti.
La prima è che, dietro certi pensieri frivoli di Molly, pulsa una coscienza gigantesca, una conoscenza notturna, sotterranea, acquorea, l’anima del mondo di cui il corpo della donna (indistinguibile a un certo punto dal suo pensiero) è la parte per il tutto. Il ventre per tutti i ventri, verrebbe da dire. È qui che il flusso di Molly-Penelope dialoga, ho l’impressione, con almeno tre gigantesche entità. La prima è l’Odissea anteriore a Omero, cioè il racconto orale (e corale) delle gesta di Odisseo, così mobile e vivo, che ha preceduto per secoli la successiva cristallizzazione nel testo scritto. L’intera cifra di Ulisse,la sua polilingua, elettrica e sensuale, che nel monologo di Molly Bloom raggiunge il suo culmine, si può considerare un tentativo di risvegliare-resuscitare – dall’interno dell’umanità, dal nostro inconscio – quel “morto orale” che è la vera vittima di 2500 anni di letteratura scritta. Gli altri due classici del pensiero occidentale a cui James Joyce, attraverso Molly Bloom, dà del tu nel monologo finale mi sembrano ilDe rerum natura di Lucrezio eLe metamorfosi di Ovidio, libri dei mutamenti e dell’eternità. Il mito (come scopriranno per pochi istanti anche l’Ulrich e la Agathe dell’Uomo senza qualità nelle pagine più belle e struggenti del libro di Musil) non possiede una vera origine, un momento ontologico a cui tornare, tutto il contrario, è l’esito di un gioco infinito ed eterno, il frutto di una continua negoziazione tra le forze più belle e perturbanti del cosmo, alle quali la nostra parte migliore può cercare, quando riesce, di accordarsi.
Questo porta alla seconda piccola intuizione su Penelope. Riguarda il « sì » finale. A una lettura superficiale l’avverbio in questione si riduce a una semplice risposta alle richieste di Leopold, addirittura un cedimento. La classica lettura dell’Ulisse legge quel «sì», piuttosto, come una generale accettazione della vita: tutto ciò che non riescono a risolvere prima Stephen e poi Leopold lo scioglie Molly accogliendo la vita con tutto il suo splendore e i suoi drammi, i suoi dolori e i piccoli momenti di gloria. Da qualche tempo a questa parte, quella parola finale a me sembra, però, anche altro, più potente dell’accoglimento di una richiesta, più vasto persino di un’accettazione generalizzata. Quello di Molly, credo oggi, è anche un « sì » generativo. È pronunciando quella sillaba che Molly Bloom genera la storia che abbiamo appena finito di leggere. Senza quel «sì» le complicate e banali e così care vicende di Molly e Leopold e Milly e Boylan e Rudy non si sarebbero mai intrecciate tra loro, così come non si sarebbero incrociati in quel modo, sul far della notte, Leopold e Stephen. È con quel « sì » che Molly crea il mondo.
«In principio era il Verbo» scrive san Giovanni. Bene. Spostare quel Verbo dalla bocca di Dio ai pensieri di una donna stesa nel suo letto al 7 di Eccles Street, a Dublino, è tra i gesti più audaci che uno scrittore abbia mai compiuto, l’uscita (attraverso un libro magico) di noi lettori dall’incubo della narrazione storiografica, proprio mentre la Storia [...]  si preparava ad allestire nuovi incubi.




venerdì 1 novembre 2024

Canti cilentani

 


Franco Antonicelli, nel suo racconto del confino, parla delle ottave cilentane. Esistono ormai diverse raccolte di canti popolari pubblicate da editori improbabili che sembrano inventati per l’occasione: Assessorato al Turismo della Regione Campania, Urania, A. Testaferrata, Poligraf art grafiche, Edizioni di storia e folklore del Cilento, Thyrus, Centro di promozione culturale per il Cilento.

Ecco i testi principali:

Guido Gugliucci, Canti e itinerari cilentani, 1954;

Giuseppe Stifano, Canti popolari cilentani, 1973;

Giovanni Rizzo, Raccolta di canti popolari cilentani, 1977;

Giuseppe Stifano, Canti sociali e politici del Cilento, 1978;

Giuseppe Mollo Antonio Orlando, Strambotti: canti e proverbi cilentani, 1990;

Enrico Renna, Carmina Cilenti, 1995;

Canti cilentani di Caterina Scarpa, con il patrocinio del Comune di Ogliastro Cilento, 2010.

Nessuno di questi libri è presente in una biblioteca dell’Italia settentrionale. Tre si trovano alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze: Gugliucci, Strambotti di Mollo e Orlando e i Canti cilentani di Caterina Scarpa. C’è da sperare che vi sia un giorno un etnomusicologo disposto a riprendere questi materiali per fare il punto e pubblicare un testo più largamente accessibile. Nel 1978, Silvana Pepe e Giovanni Pico pubblicarono un volumetto dal titolo: Torchiara: canti e tradizioni (Tipografia Europa, Salerno). Contiene una cinquantina di pezzi che spaziano dal tema dell’amore variamente declinato alla devozione religiosa. Uno riecheggia Fenesta ca lucive, ma fa rimpiangere l’originale napoletano.  

Rispetto alla canzone napoletana, una differenza salta all’occhio. La canzone napoletana sembra appartenere a un mondo in cui le differenze sociali non contano. Era de maggio, O' sole mio, ‘E spingule francese, Comme facette mammeta, ‘O surdato nnammurato esaltano la meraviglia dell’esistenza femminile di fronte al desiderio del maschio. Lui corteggia, lei si lascia corteggiare.

Nei canti cilentani, invece, prevale la semplice esibizione del desiderio, con qualche accenno ogni tanto ai problemi posti dalla differenza sociale o lavorativa.

Tu saresti ricca, ma io non è per questo che ti amo.

Bella nun t’amo pe denari
manco si n’avissi nu trasoro
t’amo pe stu genio ca me rai

Trasoro vale tesoro. Genio è “desiderio”. Nun tengo genio sta per non ho voglia. “Non ti amo per soldi, nemmeno se avessi un tesoro” [e non è detto che tu ce l’abbia, questo tesoro]. Ti amo per questa voglia che mi ispiri”.

Ora è la ragazza a parlare: non voglio sposare un contadino ma un pastore, per sfuggire al lavoro nei campi e avere la garanzia del cibo. Questo dicono con un’altra eleganza le metafore del testo.

Mamma nu lu voglio lu ualano
vogliu nu pasturiello ca me cummene
lu ualanu me porta a zappare
lu pasturiello a la seggia me tene
vene nu iuorno ca nun tene pane
na ricuttella fresca me mantene.

Ualano sta per “galano”, gualano [voce dei dial. merid., dal provenz. galan «giovane, garzone»]: nell’Italia meridionale, lavoratore agricolo a contratto annuo, addetto alla custodia di terre o alla cura e al governo di animali (equini e bovini) che impiega nei lavori di trasporto o di aratura (Treccani). Cummene = conviene. Seggia = sedia. Iuorno, giorno.

Non sposare uno di Cicerale, faresti una brutta fine.

Bella figliola te voglio avvertire
a Cicerale nun te maritare
Lu primo iuorno vai cu li scarpuni
e lu sicondo li puorci a guardare
te rano a mangià pane e vezzuni
chistu è lu pane si lu buò mangià
n’anti voglio esse cuonzo re allina
e nu a Cicerale me maritare
.

Negli ultimi versi cambia il soggetto. “Questo è il pane se lo vuoi mangiare” simula una ingiunzione rivolta alla donna dal marito o dalla famiglia di lui. Poi è la donna a prendere la parola: “piuttosto voglio essere una scodella di gallina, e non sposarmi a Cicerale”. Te rano a mangià pane e vezzuni, “ti danno da mangiare pane e fave”.
Lui appartiene a “sangue gentile” e lei è una ragazza di “bassa mano”.

Uocchi neurielli chiù de n’auliva,
ccu bui nun me pozzo apparentare
Mamma toa m’a mannato a dice
ca lu figlio suo nun m vole rare.
Vui pruveniti ra sango gentile
e io puverella da la bassa mano.
N' segretezza t lu mannu a dice
mamma nu bole e nui n'amamo.

Occhi morettini più di un’oliva, con voi non mi posso imparentare. Tua madre mi ha mandato a dire che non mi vuole dare [in sposo] suo figlio”. Ciò nonostante, la ragazza alla fine conclude: “Mamma non vuole e noi ci amiamo”.

Apriamo una parentesi. Tra i canti che Franco Antonicelli trascrive per Anita Rho, mentre si trova al confino ad Agropoli, uno ha ugualmente per protagonista una donna che si tira indietro, vuole essere presa per morta, in quanto è stata considerata dalla madre del suo innamorato socialmente indegna di aspirare a un matrimonio con il figlio. Il testo si trova in una lettera del 22 agosto 1935:

Scòrdate de me, dolce figliolo,
scordatìnne come fossi morta
La vostra mamma m'ha mandato a dire
ca nun era j' la para vostra.

J' non son nata per la signoria
nemmeno per venire in casa vosta;
e r' na cosa ringrazio Dio,
so piccerella e nun me manca sorta. 

 

Scordati di me, dolce figliolo,
scordatene come se fossi morta
La vostra mamma mi ha mandato a dire
che non sarei la vostra pari.

Non sono nata io per la signoria
nemmeno per venire a casa vostra:
sono piccolina e non mi manca la (buona) fortuna. 

Torniamo alla raccolta torchiarese. C’è perfino una serenata in cui la fanciulla amata viene vista “morta di freddo e insonnolita” e allora viene invitata a chiudere la finestra. La premura suggerisce tenerezza e aggiunge verità al gesto galante.

Tutto stanotte voglio ì cantanno
mo ca lu lietto mio nun pozzo rorme
a la funestra me stai aspettanno
morta re friddo e sceccata r suonno
T preo bella mia trasitenne
nu boglio ca p me pierdi lu suonno
Io t’aggio amato iuorni, misi e anni
e mo t’avessa perde p nu iuorno.

Tutta questa notte voglio andare cantando, ora che nel mio letto non posso dormire. Mi stai tutta infreddolita e morta di sonno aspettando alla finestra. Ti prego, bella mia, rientra, non voglio che tu per me perda il sonno. Ti ho amata per giorni, mesi e anni non ti voglio perdere ora per un  giorno (solo). 

Nel campo della morale sessuale, è interessante la soluzione offerta dal sogno al problema del contatto fisico: l’innamorato riesce a contemplare il corpo nudo della ragazza, ma resta prudente nelle mosse successive.

Sera passai e tu bella rurmivi
tutto lu tuovo ciardino caminai
E te truvai a lietto ca rurmivi
ieri a la nura e te cummegliai
Truvai roie labbra gentili
e pe crianza mia nun le vasai
Ngera lu fuoco
e nun me cagliendai.

Per una volta l’idillio prende forma, emerge una dolce sollecitudine che si esprime in un piccolo gesto e in un atto di muta contemplazione. La chiusura lascia trasparire una certa delusione: c’era il fuoco e non mi scaldai. Rurmivi, dormivi. A la nura: nuda. Cummegliai, coprii. Roie, due. Crianza, creanza, educazione, rispetto delle buone maniere. Vasai, baciai. Ngera, c'era. 

Si capisce che quella cilentana è una società dominata dall’assillo della sussistenza e dall’attenzione per lo svolgimento quotidiano della vita. Francesco Volpe, nel suo libro sul Cilento nel secolo 17 (Ferraro, Napoli 1981), fa notare la grande importanza che viene attribuita nella mentalità locale al possesso della roba, della proprietà e dei beni materiali.



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