mercoledì 31 agosto 2022

Gorbaciov, un messaggio per il futuro

Fulvio Scaglione, L'uomo che fece a braccio di ferro con la Storia, Avvenire, 2 marzo 2021 La lobbia, la voglia sulla fronte, la battuta, il sorriso della moglie Raissa. Mikhail Sergeevic Gorbaciov, che oggi fa novant’anni, è stato anche questo. Un leader che la voglia di cambiare, di rendere più azzurro il cielo dell’Urss ingrigito dallo zastoy (stagnazione) brezhneviano, la trasmetteva fin dalla persona, dal modo, dall’atteggiamento. Un messaggio vivente, efficace persin più delle parole d’ordine, perestroyka (ristrutturazione, lanciata nel 1985) e glasnost’ (trasparenza, 1986) che pure hanno fatto il giro del mondo e hanno segnato un’epoca. Non si poteva vedere Gorbaciov, dopo il volto di granito di Andropov e la statua di sale di Cernenko, per brevissimo tempo segretari del Pcus prima di lui, senza capire quanto fosse necessario scuotersi e darsi una mossa. Quando diventa segretario generale, l’11 marzo del 1985, Gorbaciov ha solo 54 anni ed è il più giovane leader del Pcus di sempre. La sorpresa è grande. All’estero, ma anche in Russia. E forse persino in casa Gorbaciov. Brillante attivista, ottimo laureato, svelto funzionario del partito fino alla nomina, nel 1970, a segretario regionale. Tutto a Stavropol’, la sua città d’origine, prima dell’indispensabile salto a Mosca nel 1979. Nulla, però, che facesse presagire il Gorbaciov di pochi anni dopo. Ci vuole anche fortuna, per certe ascese, e lui ce l’ha. A Stravropol’ milita nella 'corrente' di Fyodor Davydovic Kulakov, che è membro effettivo dell’Ufficio Politico (Politburo) del Pcus. Kulakov muore giovane d’infarto e Gorby diventa membro supplente. Una volta a Mosca, fa coppia con Piotr Mironovic Masherov, astro nascente del riformismo di partito. Questi però muore in un incidente stradale e Gorby diventa membro effettivo del Politburo. La vera chiave, però, si chiama Jurij Andropov. Il presidente del Kgb è di Stavropol’ come lui e, soprattutto, sa come stanno le cose, è il suo lavoro. Andropov diventa segretario del partito nel 1982, due giorni dopo la morte di Brezhnev. Non brilla per glasnost’, ma non manca di perestroyka: in un anno e mezzo, liquida 18 ministri e una quarantina di alti funzionari del Pcus. Ma soprattutto spiana la strada al pupillo Gorbaciov, che la imbocca di corsa appena si conclude il breve mandato di Cernenko. Da un certo punto di vista, Gorby è sempre stato un mistero. Se è consentita una piccola memoria personale, le interviste che ho avuto con lui sono state davvero noiose. Non c’era nulla nel suo cursus honorum che facesse presagire tutta quella rivoluzione. Com’è successo, quindi, che alcune delle decisioni più importati e coraggiose del Novecento siano state prese proprio da lui e da un manipolo di riformatori sempre più isolati nella tenaglia tra i nostalgici conservatori e gli innovatori radicali? La risposta sta in un fatto che si tende a rimuovere: Gorbaciov credeva nell’Unione Sovietica e nel suo futuro. Voleva salvarla. Era convinto che si potesse rimetterla in sesto rendendo più trasparenti i processi decisionali e ristrutturando l’economia. Glasnost’ e perestroyka, appunto. Oppure, come disse in 'Meeting Gorbaciov', il film biografico che gli ha dedicato Werner Herzog: «Volevamo più democrazia e più socialismo». Di riformare l’Urss non gli è riuscito. E in questi vent’anni dalle dimissioni e dall’ammaina falce e martello del 25 dicembre 1991, ha continuato a ricevere insulti e minacce da quelli che lo accusano di averla colpita al cuore. Ma intanto… Nel 1987 firma con Ronald Reagan il Trattato che smantella i missili nucleari, nel 1988 avvia il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan (dopo dieci anni di guerra, 30mila russi e 18mila soldati afghani morti, 80mila mujaheddin caduti e almeno un milione di vittime civili), nel 1989 consente la rimozione del Muro di Berlino. Decisioni che hanno cambiato l’Europa e il mondo, prese provando intanto a rinnovare l’Urss (nel 1988 vara la Legge sulle Cooperative che reintroduce la proprietà privata in alcuni settori dell’industria e del commercio) e diffondendo nel Patto di Varsavia un contagioso esempio riformista, mentre la Storia faceva il suo corso con la solita mancanza di rispetto: nel 1986 il disastro di Cernobyl, nel 1990 (l’anno in cui ebbe il premio Nobel per la Pace) i moti nazionalisti nel Caucaso (con la strage degli armeni in Azerbaigian) e nel Baltico. Oggi, si diceva, Gorby ne fa novanta in una Russia che poco gli somiglia e che ha fatto di tutto per dimenticarlo. Inevitabile. Ma anche impossibile. Perché non si può dimenticare un uomo che ha fatto a braccio di ferro con la Storia. La Storia ha vinto, ma lui non ha perso.

sabato 27 agosto 2022

Alla ricerca di un paesaggio perduto

Terra fatta di onde come il mare, cielo bigio con uno spiraglio di luce bianca. Il tutto lontano e improbabile, spettacolo di un altro pianeta, idea platonica della Toscana in riva al mare.
Ocram, Escape from landscape, 2009. Mario Luzi, Dalla torre Questa terra grigia lisciata dal vento nei suoi dossi nella sua cavalcata verso il mare, nella sua ressa d’armento sotto i gioghi e i contrafforti dell’interno, vista nel capogiro degli spalti, fila luce, fila anni luce misteriosi, fila un solo destino in molte guise, dice :”guardami sono la tua stella” e in quell’attimo punge più profonda il cuore la spina della vita. Questa terra toscana brulla e tersa ove corre il pensiero di chi resta o cresciuto da lei se ne allontana.

giovedì 25 agosto 2022

Draghi, il discorso di Rimini







 


Grazie per la vostra accoglienza. Grazie per il calore di questo applauso. Mi chiedo se vado oltre la commozione. Questo vostro entusiasmo mi colpisce molto in profondo. 

Parlerò soprattutto ai giovani in questo momento.
Voi vivete la politica come ideali da condividere, impegno sociale per la loro affermazione e, soprattutto, la testimonianza di una vita coerente con questi ideali.
Voi insieme riflettete, combattete, sperate, costruite.
Ecco perché questo vostro entusiasmo oggi e questa accoglienza mi colpiscono molto: voi siete la speranza della politica.

Presidente Scholz,
Direttore Forlani,
Signore Ministre,
Sindaco Sadegholvaad,
Prefetto Forlenza,
Autorità tutte, 
Signore e signori,

È un grande, grandissimo piacere essere qui a Rimini con voi in questo ‘Meeting’. 
Voglio ringraziare naturalmente, soprattutto il Presidente Scholz e il Direttore Forlani, per l’invito. Lei, Presidente, ha ricordato il calore della vostra accoglienza due anni fa qui a Rimini, e naturalmente lo ricordo anche io, e lo ricordavo quando mi preparavo per questo intervento. 
Eravamo in una fase acuta e dolorosa della pandemia e qui però al Meeting si provava già a riflettere su come ricostruire la nostra società, la nostra economia dopo quel terribile trauma.
Nel mio intervento provai a disegnare una politica economica adatta a un momento così duro.
Parlai dell’assoluta necessità di sostenere le famiglie, le imprese, in un periodo di recessione profonda, e dissi di tornare a una crescita sostenibile e condivisa.
Parlai della distinzione tra “debito buono” e “debito cattivo”, ovvero tra la spesa che permette a un’economia di rafforzarsi e quella per interventi che non fanno crescere né la produzione né l’equità sociale; dell’importanza di sostenere i più deboli e i più giovani.
Queste idee hanno ispirato l’azione del governo di unità nazionale che il Presidente della Repubblica mi ha poi chiesto di guidare, qualche mese dopo, per rispondere alle crisi che stavamo attraversando.
Adesso come allora, il Meeting è un’occasione unica per guardare avanti, con immaginazione e anche con pragmatismo.
Per ragionare sul Paese che siamo, su quello che vogliamo diventare.

Anche oggi ci troviamo in un momento estremamente complesso, per l’Italia e per l’Europa.
Il quadro geopolitico è in rapida trasformazione, con il ritorno della guerra sul nostro continente, le tensioni nello stretto di Taiwan.
La congiuntura economica è segnata da profonda incertezza:
il notevole aumento del tasso d’inflazione è partito dal costo dell’energia, si è trasmesso ai beni alimentari, e oggi pesa in modo molto gravoso sui bilanci delle famiglie e delle imprese;
il rallentamento della crescita globale si ripercuote negativamente sulle esportazioni;
le condizioni di accesso al credito cominciano a peggiorare, questo avrà sicuramente effetti sugli investimenti.

I cambiamenti climatici si manifestano in modo minaccioso e richiedono una risposta decisa e urgente.
Fenomeni meteorologici estremi sono sempre più comuni, con conseguenze spesso tragiche.  
Penso al dramma della siccità, che ha colpito in particolare il bacino del Po; allo scioglimento dei ghiacciai come quello della Marmolada; ai violenti nubifragi.

Queste crisi – geopolitiche, economiche, ambientali – hanno origini che sono spesso fuori dai confini del nostro Paese.
Ma spetta a chi ha responsabilità di governo dire la verità e, allo stesso tempo, rassicurare i cittadini con risposte chiare e concrete.
Le sfide sono molte, e di non facile soluzione: come continuare a diversificare gli approvvigionamenti energetici e calmierare le bollette per famiglie e imprese; come accelerare sulla strada delle energie rinnovabili per combattere il cambiamento climatico; come mantenere il giusto impulso nelle riforme e negli investimenti, per preservare la crescita, la stabilità dei conti pubblici, l’equità; come continuare ad assicurare all’Italia un ruolo da protagonista nel mondo, all’interno dell’Unione Europea e del legame transatlantico.
Queste questioni, nel loro insieme, presentano un passaggio storico drammatico, che deve essere affrontato con profondità di analisi e coraggio di azione.
Le decisioni che prendiamo oggi sono destinate a segnare a lungo il futuro dell’Italia.
Nel febbraio dello scorso anno, quando è iniziata l’esperienza dell’esecutivo, eravamo in un contesto diverso da quello attuale, ma altrettanto difficile.
La pandemia sembrava essere fuori controllo e - come avevamo osservato proprio qui al Meeting - generava in noi un’incertezza paralizzante.
L’occupazione delle terapie intensive era a un livello critico, mentre le vaccinazioni progredivano lentamente, tra difficoltà di approvvigionamento e di distribuzione.
Il bollettino di deceduti e malati di Covid-19 restituiva ogni giorno un quadro tragico.
Le scuole erano spesso chiuse e la didattica a distanza non riusciva a rappresentare un’alternativa valida ed equa all’insegnamento in presenza.
L’economia faceva fatica a uscire dalla più grave contrazione dal dopoguerra, con imprese e lavoratori che soffrivano per le conseguenze delle pur necessarie misure di contenimento dell’epidemia, per il crollo dell’attività.
In Italia e all’estero c’era scetticismo rispetto alla nostra capacità di presentare e iniziare ad attuare un Piano valido per riformare la nostra economia e spendere bene i fondi che ci erano stati assegnati con il Next Generation EU.
Sembravamo avviati verso una ripresa lenta e incerta.

A diciotto mesi di distanza, possiamo dire che non è andata così.
Gli italiani hanno reagito con coraggio e concretezza, come spesso hanno fatto nei momenti più difficili, e hanno riscritto una storia che sembrava già decisa.
Insieme, abbiamo dimostrato ancora una volta che l’Italia è un grande Paese, che ha tutto quello che serve per superare le difficoltà che la storia ci mette di nuovo davanti.
Il governo ha fatto del proprio meglio:
per rispondere con prontezza alle esigenze degli italiani;
per compiere tutte le scelte necessarie con indipendenza di giudizio;
per mantenere alta la credibilità di fronte ai cittadini e ai partner internazionali;
e per cercare sempre l’unità di intenti, il dialogo, la coesione sociale.
Questo è stato il nostro metodo di lavoro.

Tra poche settimane gli italiani sceglieranno la composizione del nuovo Parlamento, che darà la fiducia a un nuovo governo, sulla base di un nuovo programma.
A questo proposito: invito tutti ad andare a votare. 
Voglio ringraziare tutti i ministri, tecnici e politici, per la dedizione e le competenze che hanno messo al servizio dell’Italia.
Nei mesi che abbiamo avuto a disposizione, abbiamo gestito le emergenze che si sono presentate e cominciato a disegnare un Paese più forte, equo, moderno.
Molto però resta da fare, in un contesto che, come ho accennato, è ostico e non consente soste. 
Guidare l’Italia è un onore per cui sono grato al Presidente Mattarella, al Parlamento, alle forze politiche che ci hanno sostenuto, a tutti gli italiani che come voi mi hanno accompagnato con il loro affetto. 
Mi auguro che chiunque avrà il privilegio di farlo, di guidare il Paese, saprà preservare lo spirito repubblicano che ha animato dall’inizio il nostro esecutivo.
Sono convinto che il prossimo governo, qualunque sia il suo colore politico, riuscirà a superare quelle difficoltà che oggi appaiono insormontabili – come le abbiamo superate noi l’anno scorso.
L’Italia ce la farà, anche questa volta.

Soprattutto nei momenti di crisi, l’azione di governo dev’essere rapida, convinta.
Mancano pochi giorni all’inizio dell’anno scolastico e voglio ricordare come la riapertura delle scuole sia stato uno dei nostri principali obiettivi sin dall’inizio della campagna vaccinale. 
Avremmo potuto aspettare il superamento di una soglia di vaccinazione più alta nella popolazione, l’eliminazione di tutte le restrizioni delle attività commerciali prima di riaprire le scuole.
Ma non sarebbe stato giusto, soprattutto nei confronti dei giovani che avevano dovuto rinunciare a lungo alla didattica in presenza.
Abbiamo scelto di riaprire appena è stato possibile.
Lo abbiamo fatto consci del ‘rischio calcolato’ a cui andavamo incontro, nonostante le molte voci scettiche che ci davano degli irresponsabili.
Il risultato ci ha premiati: gli studenti sono tornati tra i banchi, le scuole sono restate aperte, la pandemia e la pressione sugli ospedali sono rimaste sotto controllo.
Il governo aveva semplicemente valutato correttamente l’impatto delle vaccinazioni. Ma ha poi scelto nel suo insieme con coraggio e senso di responsabilità.

Anche la crisi energetica dovuta all’invasione russa dell’Ucraina ha richiesto rapidità d’azione.
In pochi mesi, abbiamo ridotto in modo significativo le importazioni di gas dalla Russia, un cambio radicale nella politica energetica italiana.
Abbiamo stretto nuovi accordi per aumentare le forniture – dall’Algeria all’Azerbaigian. 
Gli effetti sono stati immediati: l’anno scorso, circa il 40% delle nostre importazioni di gas è venuto dalla Russia. 
Oggi, in media, è circa la metà.
Abbiamo accelerato lo sviluppo delle rinnovabili – essenziali per ridurre la nostra vulnerabilità energetica, per abbattere le emissioni. 
Nei soli primi otto mesi di quest’anno ci sono state richieste di nuovi allacciamenti ad impianti di energia rinnovabile per una potenza pari a quasi quattro volte quella istallata complessivamente nel 2020 e nel 2021.
La nostra agenda di diversificazione dal gas russo è stata fondamentale per dare a cittadini e imprese maggiore certezza circa la stabilità delle forniture.
Se sarà realizzata nei tempi previsti l’istallazione di due nuovi rigassificatori, l’Italia sarà in grado di diventare completamente indipendente dal gas russo a partire dall’autunno del 2024.
È un obiettivo fondamentale per la sicurezza nazionale, perché la Russia non ha esitato a usare il gas come arma geopolitica contro l’Ucraina e i suoi alleati europei.
Si parla molto di sovranità, ma dipendere, come è accaduto in passato, per quasi metà delle proprie forniture di gas da un Paese che non ha mai smesso di inseguire il suo passato imperiale è l’esatto contrario della sovranità. 
Non deve accadere mai più.

I risultati dei nostri sforzi sono già visibili.
A differenza di altri Paesi europei, le forniture di gas russo in Italia sono sempre meno significative, e una loro eventuale interruzione avrebbe un impatto minore di quanto avrebbe avuto in passato.
Il livello di riempimento degli stoccaggi ha ormai toccato l’80%, in linea con l’obiettivo di raggiungere il 90% entro ottobre.
Il governo ha predisposto i necessari piani di risparmio del gas, con intensità crescente a seconda della quantità di gas che potrebbe venire eventualmente mancare. Ma avete sentito il ministro Cingolani e cosa preveda per quanto riguarda il risparmio energetico.

Il mantenimento dei volumi delle forniture di gas non impedisce però l’aumento dei costi, che hanno raggiunto livelli insostenibili.
Il prezzo del gas sul mercato di riferimento è da diversi giorni largamente sopra i 200 euro per MWh, con picchi poco sotto i 300 euro - più di dieci volte il valore storico.
Il governo italiano ha spinto molto a livello europeo per avere un tetto massimo al prezzo del gas russo che importiamo.
Alcuni Paesi continuano a opporsi a questa idea, perché temono che Mosca possa interrompere le forniture. Però i frequenti blocchi nelle forniture di gas russo avvenuti quest’estate hanno dimostrato i limiti di questa posizione. 
Oggi l’Europa, e soprattutto questi Paesi più di noi, si trova con forniture incerte di gas russo e anche prezzi esorbitanti.
La Commissione è al lavoro su una proposta per introdurre un tetto al prezzo del gas, che sarà presentata al prossimo Consiglio Europeo. Non so quale esito avrà perché – come dico. le posizioni sono molto diverse. Ma la Commissione presenterà anche una riflessione su come slegare il costo dell’energia elettrica dal costo del gas.
Questo legame che c’è tra il costo dell’energia elettrica prodotta con le rinnovabili, e quindi acqua, sole, vento, e il prezzo massimo del gas ogni giorno è un legame che non ha più senso. I produttori di energia rinnovabili in un mondo dominato dalla produzione di gas potevano aver bisogno di essere sussidiati e lo sono stati, e lo sono molto anche oggi. Ma oggi non ha più senso che il prezzo dell’energia elettrica sia legato al prezzo massimo del gas e i produttori di energia rinnovabili sono quelli che oggi hanno conseguito i profitti più alti.
Comunque, qualunque sia la nostra idea sul futuro noi avremo questa discussione al Consiglio Europeo e su questa riflessione della Commissione immagino ci sia molto più accordo e molto più sostegno da parte di tutti i paesi. 
Detto questo, in questa fase del ciclo economico, però, era giusto dare e non prendere, e così abbiamo fatto. Il governo non ha mai aumentato le tasse – con la sola eccezione delle tasse sugli extraprofitti delle imprese del settore energetico.
Queste aziende, come dicevo ora per i produttori di rinnovabili e per altri comparti, hanno registrato utili senza precedenti solo a causa dell’aumento dei prezzi dei combustibili fossili – un aumento che, allo stesso tempo, penalizza la maggioranza di cittadini e le imprese.
È stato giusto chiedere alle imprese del settore energetico di contribuire di più – ed è essenziale che lo facciano, invece di rimandare o addirittura evitare di pagare quanto gli viene chiesto.
Per le altre aziende e per i cittadini, il governo ha iniziato un percorso di riduzione delle tasse, per quanto compatibile con l’equilibrio di bilancio e con il tempo che ci è stato dato.
Mi riferisco all’abbattimento dell’IVA sulle bollette, alla revisione dell’IRPEF, alla riduzione del cuneo fiscale. L’obiettivo è stato quello di iniziare a rendere il fisco più leggero, e allo stesso tempo più equo.
Eliminare ingiustizie e opacità non vuol dire aumentare le tasse.
Questo è lo scopo della riforma del catasto: aumentare la trasparenza sui valori delle abitazioni, far emergere le cosiddette “case fantasma”, su cui i proprietari non pagano nulla o meno di quanto dovuto.
Abbiamo avviato la riforma della riscossione e ci siamo impegnati perché non ci fossero nuovi condoni prima del suo completamento.
L’evasione fiscale non deve essere né tollerata né incoraggiata. Quest’agenda di politica economica ha avuto chiaramente un impatto positivo sulla crescita. Il prodotto interno lordo è aumentato del 6,6% lo scorso anno e la crescita acquisita per quest’anno è già del 3,4%. Siamo tornati ai livelli di PIL che registravamo prima della pandemia in anticipo rispetto alle stime della Commissione Europea.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale cresceremo più di Francia, Germania e della zona euro nel suo complesso. Anche il tasso di occupazione è cresciuto e ha toccato i livelli più alti dal 1977, che è l’inizio delle serie storiche. A giugno di quest’anno c’erano 900mila occupati in più rispetto a febbraio del 2021 di cui quasi il 40% con contratti a tempo indeterminato.
Il mercato del lavoro italiano continua però a essere caratterizzato da stipendi bassi e precarietà diffusa, soprattutto tra i giovani. La pandemia e il ritorno dell’inflazione hanno colpito in modo particolarmente severo i più deboli.
Tuttavia, l’aumento dei posti di lavoro, il taglio delle tasse per le famiglie, le corpose misure di sostegno hanno permesso di frenare l’aumento delle diseguaglianze.
Il governo si è mosso in modo particolare per sostenere le famiglie.

Con la riforma dell’IRPEF e l’assegno unico per i figli abbiamo stanziato a regime quasi 14 miliardi in più per le famiglie, riorganizzato e semplificato i benefici fiscali.
Abbiamo aumentato la durata del congedo parentale, esteso il diritto all’indennità di maternità a nuove categorie di lavoratrici, riformato l’assistenza ai non autosufficienti.
Abbiamo consentito a decine di migliaia di giovani con meno di 36 anni di acquistare una casa con tasse ridotte e mutui garantiti dallo stato.
Nella seconda metà dello scorso anno, le richieste di mutuo degli under-36 sono cresciute del 54% rispetto a un anno prima.
Questa è stata la nostra agenda sociale: crescita, occupazione, dare agli anziani dignità nella vecchiaia, ai giovani fiducia e mezzi per raggiungere i propri obiettivi.  

Quest’anno, aiuti e sostegni a famiglie e imprese non hanno avuto bisogno di alcuno scostamento di bilancio.
Abbiamo confermato i nostri obiettivi di indebitamento.
Il debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo è sceso di 4,5 punti percentuali nel 2021 e il governo prevede continui a calare anche quest’anno di altri 3,8 punti percentuali.
Il rapporto debito/PIL resta a livelli molto alti, ma se queste previsioni dovessero confermarsi, si tratterebbe del maggior calo in termini assoluti in un biennio a partire dal dopoguerra. 
Il miglioramento dei conti pubblici non dipende soltanto dalla presenza di una fase economica espansiva.
Mai negli ultimi venti anni in Italia l’uscita da una recessione era stata accompagnata da una riduzione significativa nel rapporto debito/PIL.
E se è vero che l’inflazione contribuisce alla riduzione del rapporto debito/PIL, non è sufficiente a spiegarla, poiché anche i confronti tra l’Italia e gli altri Paesi europei ci sono favorevoli.
Si prevede che il rapporto tra debito e PIL in Francia e Germania alla fine di quest’anno sarà prossimo al livello del 2020, a fronte invece del forte calo in Italia.
L’economia internazionale è ora in forte peggioramento e questo peggioramento ha iniziato a colpire il nostro Paese.
La politica economica che abbiamo seguito in questi mesi ci mette però su basi solide, e mostra un possibile percorso da seguire.
Crescita economica, giustizia sociale, sostenibilità dei conti pubblici sono pienamente compatibili fra loro, e possono rafforzarsi a vicenda.

La credibilità dell’azione di ogni governo sta anche nella risposta che riceve dai cittadini.
Penso alla campagna vaccinale, uno sforzo logistico imponente per cui ringrazio ancora una volta il personale sanitario, l’esercito, la Protezione Civile, i volontari.
Ci siamo posti obbiettivi ambiziosi e abbiamo dato priorità ai più anziani e ai fragili, secondo il principio della vulnerabilità – l’unico eticamente corretto.
Davanti alla serietà delle istituzioni, gli italiani hanno reagito con senso di responsabilità e spirito civico davvero eccezionali.
In soli sei mesi, tra febbraio e agosto 2021, 38 milioni di persone hanno ricevuto la prima dose.
Ricordo con piacere le parole di elogio verso il nostro Paese del Cancelliere tedesco Olaf Scholz durante la sua prima visita a Roma.

La credibilità interna deve andare di pari passo con la credibilità internazionale.
Questa è fondamentale perché l’Italia abbia un peso in Europa e nel mondo coerente con la sua storia, con le aspettative dei suoi cittadini.
L’Italia è un Paese fondatore dell’Unione Europea, protagonista del G7 e della NATO. 
Il nostro debito pubblico – tra i più alti del mondo – è detenuto per oltre il 25% da investitori esteri.
Migliaia di aziende straniere si riforniscono dalle nostre imprese, fanno i loro ordini o impiegano i loro capitali in Italia e contribuiscono alla crescita, all’occupazione, al bilancio pubblico.
È per questi motivi che protezionismo e isolazionismo non coincidono con il nostro interesse nazionale.
Dalle illusioni autarchiche del secolo scorso alle pulsioni sovraniste che recentemente spingevano a lasciare l’euro, l’Italia non è mai stata forte quando ha deciso di fare da sola.

Il posto dell’Italia è al centro dell’Unione Europea e ancorato al Patto Atlantico, ai valori di democrazia, libertà, progresso sociale e civile che sono nella storia della nostra Repubblica.
È con questa visione che i nostri padri, i nonni hanno ricostruito l’Italia e reso la sua economia una delle più dinamiche del mondo, con uno degli stati sociali più generosi.
È grazie alla nostra appartenenza al mercato unico che siamo riusciti a costruire su queste basi un’economia con forti tutele per lavoratori e consumatori.  
Ed è grazie alla partecipazione dell’Italia da Paese fondatore se l’Europa è diventata un’Unione di pace e di progresso.
L’Italia ha bisogno di un’Europa forte tanto quanto l’Europa ha bisogno di un’Italia forte.

In questi mesi non abbiamo mai rinunciato alle nostre proposte – dal miglioramento degli approvvigionamenti di vaccini, al tetto al prezzo del gas importato dalla Russia, all’allargamento dell’Unione Europea all’Ucraina.
Lo scorso dicembre, insieme al Presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, abbiamo descritto i principi che secondo noi dovrebbero essere alla base delle nuove regole europee di bilancio.
Quelle attuali sono poco credibili, poco trasparenti e non permettono di utilizzare la politica di bilancio in modo efficace durante una recessione.
Inoltre, non è chiaro come le ambizioni dell’Unione Europea in termini di politica industriale, transizione ecologica, difesa comune possano essere compatibili con queste regole.
Non è chiaro come, con esse, si possa costruire una “sovranità europea”, un obiettivo oggi particolarmente importante alla luce delle condizioni geopolitiche in Europa.
Il governo italiano ha spiegato le proprie posizioni, cercato alleanze, provato a guidare l’Unione verso risultati che sarebbero nell’interesse di tutti.
Sulle regole di bilancio, guarderemo con grande interesse alla proposta della Commissione Europea e ci auguriamo possa essere un buon compromesso tra le varie posizioni in campo.
L’Italia sa essere un Paese autorevole ed è con l’autorevolezza che viene il rispetto degli altri.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è una prova essenziale della nostra credibilità.
I nostri partner europei si sono impegnati a tassare in futuro i propri cittadini per permettere oggi all’Italia di riprendersi più velocemente dalla crisi pandemica, di modernizzare la sua struttura produttiva.
La maggioranza degli italiani si aspetta da tempo riforme e investimenti che rendano l’economia più efficiente, equa, sostenibile, che mettano al centro del Paese il Sud, i giovani, le donne.
Questo spirito anima e ha animato le politiche che abbiamo messo in campo – dalla concorrenza, alla corposa agenda di semplificazioni, alla giustizia.
Questo spirito guida gli investimenti che abbiamo avviato, dagli asili nido, alle ferrovie, al miglioramento della rete idrica.
L’erogazione dei finanziamenti del PNRR – pari a 191,5 miliardi di euro – dipende dalla valutazione che la Commissione Europea fa del Piano e della sua attuazione.
Dipende, quindi, dalla nostra capacità di realizzare le politiche innovative che abbiamo ideato nei tempi stabiliti – come abbiamo fatto sinora.
Abbiamo conseguito tutti gli obiettivi previsti dalle prime due scadenze del piano, e siamo al lavoro per raggiungerne il più alto numero possibile prima del cambio di governo.

L’invasione russa dell’Ucraina ha trovato un’Italia che ha definito con chiarezza la propria posizione: al fianco del popolo ucraino, del suo diritto a difendersi e decidere del proprio destino.
È una posizione che abbiamo concordato con gli altri membri dell’Unione Europea e i nostri alleati.
È una posizione che è stata sostenuta con convinzione dal Parlamento – sia dalla maggioranza sia dal principale partito di opposizione. 
Ed è una posizione che ha incrociato il grande senso di solidarietà degli italiani, con la loro commovente accoglienza dei profughi nelle case, nelle scuole, nelle parrocchie.
Voglio ancora una volta ringraziare le famiglie, il terzo settore, gli insegnanti, per questo sforzo collettivo di generosità e di organizzazione.
L’Ucraina è un Paese libero, sovrano, democratico, che è stato brutalmente attaccato dalla Russia. 
Non possiamo dirci europei se non siamo pronti a difendere la dignità dell’Ucraina e dell’Europa.

Allo stesso tempo, dobbiamo essere pronti a cogliere le opportunità per raggiungere una pace che sia duratura e sostenibile. 
Non c’è alcuna contraddizione tra la ricerca della pace, il sostegno all’Ucraina, l’attuazione di sanzioni efficaci contro la Russia. 
L’Italia si è impegnata da subito perché si arrivasse allo sblocco di milioni di tonnellate di cereali bloccate nei porti del Mar Nero.
Questo successo diplomatico – merito della mediazione della Turchia e delle Nazioni Unite – limita il rischio di una catastrofe alimentare in molti dei Paesi più poveri del mondo.
Può inoltre costituire una prima opportunità di dialogo tra le parti. E speravo fino a ieri che la decisione di permettere l’accesso della centrale nucleare di Zaporizhzhia a ispettori dell’Onu fosse un altro di questi segni.
Purtroppo stanotte missili russi hanno bombardato la zona intorno alla centrale e quindi non posso che associarmi alle parole del Santo Padre perché si eviti un disastro nucleare.
In ogni caso, in questa ricerca della pace è essenziale che le promesse siano sincere, che siano seguite da azioni concrete e che, soprattutto, sia l’Ucraina a decidere quali termini di pace siano accettabili.

La nostra credibilità – interna ed esterna – ha molto beneficiato della coesione che tutti abbiamo saputo mostrare di fronte alle avversità.
Questa coesione è stata in parte il prodotto dell’unità nazionale, che ha visto – almeno per un po’ - i partiti mettere da parte le proprie differenze per trovare punti d’incontro nell’interesse degli italiani. 
Terminata l’esperienza dell’unità nazionale, questa coesione avrà naturalmente una declinazione diversa.
Il dialogo fra le forze politiche è necessario anche nel confronto e nello scontro tra posizioni diverse: 
la coesione si dovrà ritrovare nel sentire comune di tutti i protagonisti, nel loro senso di appartenenza agli stessi ideali propri della nostra Repubblica e della nostra Unione Europea.
Ma questa coesione è stata anche il prodotto di un’interazione costante con tutte le forze sociali e le istituzioni impegnate nella vita del Paese.
Nelle parole di Vaclav Havel, “libertà e democrazia richiedono partecipazione e pertanto responsabilità da tutti noi”.
Il confronto con i sindacati e le parti sociali è stato particolarmente importante, perché buone relazioni industriali sono fondamentali per la crescita sociale ed economica del Paese.
Il governo lo ha cercato con costanza e convinzione – dalla gestione della pandemia, all’impegno contro le morti sul lavoro, alla stesura dei provvedimenti contro il carovita.
Altrettanto essenziale è stata la collaborazione con gli enti territoriali, che hanno avuto e continueranno ad avere un ruolo centrale nell’attuazione del PNRR.
In particolare, vorrei ringraziare i sindaci per l’impegno paziente e fattivo a favore delle loro comunità, che ho auto modo di apprezzare all’assemblea dell’ANCI lo scorso novembre a Parma.
Voglio poi ricordare il ruolo del Terzo Settore che, come ha detto qui il Cardinale Matteo Zuppi “è un interlocutore importante e decisivo per le istituzioni presenti e future”.
Infine, la capacità dell’Italia di reagire di fronte alle crisi si deve anche all’impegno delle associazioni e dei volontari, che ogni giorno prestano aiuto ai più deboli, rafforzano lo spirito di comunità.

Molte volte mi è stato chiesto di descrivere la mia “agenda” che - nelle intenzioni di chi vuole che si descriva – dovrebbe essere un insieme di proposte da lasciare al prossimo governo.
Ma io credo che saranno gli italiani, con il loro voto, a scegliere i loro rappresentanti per la prossima legislatura e quindi il programma del futuro esecutivo.
Io posso solo fare – come fatto con voi oggi - una sintesi dei principi e del metodo che hanno guidato l’azione del nostro governo e dei risultati che ne sono conseguiti.
Ora vi guardo e vedo una platea formata prevalentemente di giovani: è sempre vero, ma in questa occasione in particolare la parola deve essere di verità, ma anche di speranza.
Non bisogna tacere le difficoltà che abbiamo di fronte, ma non è onesto descriverle come delle calamità che ci vedono inerti. 
No. Con le vostre energie, con la vostra serietà, con il vostro amore per la vita e per l’Italia, voi, noi tutti, supereremo questi ostacoli, vinceremo queste sfide.
La fiducia nel futuro si fonda su questa consapevolezza e sarà la nostra forza.
Grazie.

martedì 23 agosto 2022

Dugin

 

                                                    Diego Fusaro a cena con Dugin e Savoini

 

 Anna Zafesova, Dugin, sacerdote del putinismo che vuole cancellare l'Ucraina, La Stampa, 22 agosto 2022

Qualcuno dice che non ha mai incontrato Vladimir Putin in vita sua, altri lo definiscono il "cervello di Putin". Sicuramente, nel variopinto e popoloso mondo della propaganda ideologica russa, Aleksandr Dugin è il personaggio che più si presta a interpretare il ruolo di guru del regime. La lunga barba ispirata a Dostojevskij e ai suoi monaci veggenti, l'eloquio forbito e la padronanza di sei lingue, il conservatorismo religioso e una ricca bibliografia di titoli dedicati alla "geopolitica", alla "etnosociologia" e all'"eurosianesimo" ne fanno non un semplice propagandista dei tanti che popolano le televisioni russe. Pur non avendo un percorso di studi ufficiale, vanta dottorati in filosofia, sociologia e politologia, e si presenta come un intellettuale, un filosofo, un pensatore visionario. E sicuramente la stella polare della sua filosofia è Putin, "l'uomo del destino", "il Putin-Sole", a essere precisi, quello che si stacca dal razionale pragmatismo "lunare" di un leader integrato nel sistema internazionale per sfidare il resto del mondo ricostruendo un impero russo che dominerà «dall'Atlantico al Pacifico».
Lo stesso Dugin nelle interviste non risponde mai alla domanda se e quanto spesso frequenta il presidente russo, e spiega le assonanze nelle loro idee con il fatto che «leggiamo le stesse scritture, incise in lettere dorate nel cielo della storia russa». Il putinismo è stato l'approdo finale di un percorso lungo quanto coerente: il filosofo era un nazionalista e un reazionario già negli anni Ottanta, quando frequentava circoli che idolatravano le SS e si era iscritto alla prima formazione neonazista e antisemita nata con la perestroika, Pamyat. Negli anni Novanta, quando la Russia sognava di diventare in pochi anni parte dell'Europa e dell'Occidente, aveva fondato con Eduard Limonov il partito nazionalbolscevico. Tempi in cui i neonazisti russi erano un movimento emarginato, ai limiti dell'underground, quando Dugin si poteva incontrare negli scantinati dove suonavano metallari ricoperti di rune celtiche, e leggere in riviste ciclostilate dai nomi altisonanti come "Iperborea" e "Cospirologia", dove si parla di complotti globali, di templari dello spirito, e si scrive la parola "tradizione" rigorosamente con la maiuscola. Un sottobosco ideologico al quale è rimasto fedele rigorosamente con la maiuscola: "Tradizione" era anche il nome del festival dove era andato con sua figlia Daria la sera dell'attentato che le è costato la vita. Ma è stato il mondo a cambiare: quello che il trentenne Dugin predicava come una ideologia per pochi ribelli, oggi è il mainstream del Cremlino e viene raccontato da decine di politici e propagandisti nelle tv federali.
Non è stato il 60enne "ideologo del mondo russo", come si autodefinisce con orgoglio, a inventare la miscela esplosiva di nostalgia sovietica, imperialismo militarista, eccezionalismo ortodosso e suprematismo russo, che è diventata l'ideologia del fascismo putinista. Dugin però può rivendicare il merito di averlo nobilitato dandogli una forma "colta", e inserendolo nel contesto del pensiero di estrema destra europea che ha importato nella Russia postsovietica, da Julius Evola alla Nouvelle Droite di Alain Benoist, insieme alla passione per la "geopolitica" condita dal complottismo. Del resto chi meglio del figlio di un generale del Gru, lo spionaggio militare sovietico/russo, avrebbe potuto sintetizzare il revanscismo sovietico con il messianesimo della Santa Rus' che si opponeva a un Occidente ritenuto «il Male dell'atlantismo liberale globale». Un mix che aveva giustificato nelle menti non troppo oberate dalla cultura degli ex membri del Pcus e del Kgb il fallimento del comunismo. Il sincretismo ideologico duginiano, condito di termini altisonanti come "paradigma millenario", "rivoluzione conservatrice" e "passionarietà dell'etnos", dal misticismo ortodosso e dal romanticismo della "razza nordica dei guerrieri-sacerdoti ariani", ha fatto presa sui personaggi più diversi: negli anni, Dugin è stato consigliere prima del presidente comunista della Duma Gennady Seleznyov, ex direttore della Pravda, e poi del capo dello spionaggio estero Sergey Naryshkin. È stato il guru del gruppo degli ultranazionalisti che per conto del Cremlino hanno ispirato e realizzato l'invasione del Donbass nel 2014: il comandante militare Igor Strelkov e il "premier" dei filorussi di Donetsk Aleksandr Boroday sono stati suoi seguaci, così come il famigerato "oligarca ortodosso" Konstantin Malofeev.
Un clan che all'epoca si era rivelato troppo estremista perfino per i gusti di Putin, e il presidente aveva allontanato il filosofo dalla cattedra di sociologia delle relazioni internazionali dell'Università di Mosca, dopo che aveva proclamato pubblicamente che gli ucraini andavano «uccisi, uccisi, uccisi, ve lo dico come professore». All'epoca, al Cremlino c'era ancora un equilibrio tra i seguaci del "Sole" e i pragmatici "lunari", ma oggi Dugin – che non occupa più cariche di qualche rilievo o prestigio, e gira senza scorta per festival all'aperto di neonazisti - festeggia il suo trionfo. Non è stato lui a lanciare l'invasione dell'Ucraina, ma ha fatto di tutto per ispirarla e presentarsi come suo ideologo, e quindi un bersaglio visibile per tutti: per l'opposizione interna alla Russia come simbolo del "rascismo", per i pragmatici putiniani come icona dei falchi nazionalisti, e per questi ultimi come martire perfetto della loro causa. —

domenica 21 agosto 2022

Sanna Marin e la festa

 


Massimo Recalcati, Sanna Marin, la sua gioia di vivere è una lezione politica, la Repubblica, 21 agosto 2022

Sanna Marin - coraggiosa premier finlandese - è entrata nell'occhio del ciclone social e mediatico perché un video divenuto pubblico la riproduce mentre in una festa tra amici balla e si diverte. L'accusa non è solo sfacciatamente moralistica - perché una figura con responsabilità politiche non avrebbe il diritto di divertirsi? - ma merita di essere considerata con attenzione.

Al centro c'è innanzitutto, ancora una volta, la passione accanita dell'invidia. Tommaso d'Aquino la definiva come la tristezza causata per il bene altrui che impedisce l'affermazione della propria eccellenza. Più sinteticamente, Lacan affermava che l'invidia è sempre invidia della vita. Nello sguardo risentito dell'invidioso ciò che, infatti, risulta intollerabile, è proprio la manifestazione della gioia della vita.

Non a caso i soggetti sui quali solitamente si scarica la pioggia acida dell'invidia sono soggetti che sanno, in modo differenti, incarnare la potenza di quella gioia. È una lezione della psicoanalisi: non si invidia mai l'estraneo, ma si invidia sempre la vita che si vorrebbe essere e non si riesce ad essere. L'invidiato è, cioè, sempre l'ideale inconscio dell'invidioso.

Lo stile consuetudinariamente anemico della politica viene giustamente sconvolto dalla forza vitale delle immagini che ci restituiscono una giovane donna - con grandi responsabilità politiche nazionali e internazionali - che sa vivere una festa. La divisa d'ordinanza del politico borghese non rivela affatto - come in altri noti casi nostrani è purtroppo avvenuto - l'immoralità e l'irresponsabilità di comportamenti segreti che possono avere ricadute pubbliche gravi. Sanna Marin non propone agli amici coi quali si diverte di diventare rappresentanti della cosa pubblica, non li nomina sottosegretari, non li porta al governo o in Parlamento. Nessuno dei suoi comportamenti di giovane donna libera può renderla ricattabile.

L'odio invidioso per la giovinezza è un tratto che ricorre in ogni atteggiamento moralistico o paternalistico. Allo stesso modo quello che si accanisce verso le donne. In particolare verso quelle che si impegnano in politica magari ottenendo risultati significativi e che possono pure giustamente vantarsi di avere una bella immagine. Ricordo come l'allora presidente della camera Boldrini o l'allora ministra Boschi - per fare solo due esempi tra i tanti possibili - furono prese di mira da commenti squallidamente maschilisti da parte dei loro avversari politici.

La femminilità e la giovinezza hanno infatti qualcosa in comune che l'ideologia patriarcale e maschilista non può tollerare. Sono entrambe espressioni della vitalità della vita, della vita che è più viva, della vita che sa essere viva. Gettare fango su questa forza significa volerla sottomettere. È un tipico modus operandi del moralismo di ogni genere: macchiare la bella immagine mostrandola corrotta e pervertita. Si sarà drogata? Avrà fatto sesso? Avrà abusato dell'alcool? Si sarà dimenticata delle sue enormi responsabilità?

Una premier giovane, bella e intelligente è un insieme di qualità insopportabile per l'ideologo machista che vive nell'invidia di voler essere al suo posto. Nell'ideologia patriarcale e nel suo moralismo di fondo c'è, infatti, qualcosa di insopportabile nell'immagine stessa della festa perché ogni festa infrange un ordine, rompe degli schemi, esalta la potenza gioiosa del gioco. È quello che sanno bene i bambini, i quali possono trasformare ogni cosa in una festa ed è proprio per questa ragione che a loro e non ad altri viene promesso il Regno: essi sanno fare della vita una festa infinita.

Ebbene, questa donna che ha preso decisioni difficili in un tempo di grande crisi (pandemia, guerra in Ucraina), che ha portato il suo Paese verso la Nato, che ha rivendicato l'autonomia del suo popolo di fronte alla prepotenza bellica della Russia, sa anche godere della vita, sa vivere una festa. È forse questo il peccato che deve espiare?

Ma cosa sarebbe la politica stessa senza che vi fosse il sentimento profondo della festa? Non è forse quello che ci vorrebbe veramente? Non l'invidia accecata per ottenere una poltrona, ma la riforma innanzitutto dei cuori. Non si tratterebbe di rialzare il grigiore stantio della piccola politica alla dignità della festa e del suo coraggio? Sapere prendere decisioni che sanno rompere le dighe, introdurre il vento della giovinezza, cambiare gli orizzonti ai quali eravamo abituati. Non dovrebbe essere al cuore della politica un'idea di festa intesa in questo modo?

Lo sappiamo per esperienza, difficilmente chi non sa fare festa sa vivere la vita. Piuttosto la può solo osservare da distanza sempre pronto al giudizio severo. Per questo Dante, nel girone popolato dagli invidiosi li rappresenta con gli occhi cuciti da fili di ferro.

 

venerdì 19 agosto 2022

L'alibi della superiorità morale

E questa sarebbe l'eredità comunista sfruttata dal Pd. Una foglia di fico atta a coprire l'aridità o l'incapacità politica. Oh, per carità, i comunisti sopravvissuti non fanno meglio. 

 


Francesco Piccolo

Sono in vacanza con un gruppo di amici, e in più, attraverso chat con altri amici, l’argomento più presente, sia nelle cene estive sia nei messaggi, è la politica. La campagna elettorale. Tutte queste persone che conosco, che sento parlare, con cui mi confronto, voteranno Pd, o più a sinistra, o più al centro (Calenda). Nessuno (non è un sondaggio, è solo un censimento tra i miei amici) vota Cinquestelle, men che meno la coalizione di centrodestra.
Bene. L’argomento principale di tutti, davvero di ognuno di questi amici, anche di quelli che voteranno il Pd, è una critica continua, serrata, costante, sarcastica, al Pd. Da questa piccola comunità di amici, che per la maggioranza voterà Pd, viene una costante critica al partito. Di ogni tipo: di politica, di metodo, di uomini, di storia. Penso che non esista un partito più odiato del Pd da molti decenni: lo detestano gli avversari perché è il nemico maggiore e più costante - mentre altri sono apparsi e scomparsi; e lo detestano quelli di centro sinistra: sia quelli di centro, sia quelli di sinistra, sia quelli che lo votano. L’accanimento nei confronti del Pd (e non sto qui giudicando se giusto o sbagliato, se eccessivo o legittimo, ma solo constatando) è alla base della storia di questo partito.
Anzi, è cominciata prima questa storia. Adesso, tra i vari argomenti di critica (ma è solo uno dei tanti), si dice per esempio che Enrico Letta non sia brillante. Vorrei far notare che nemmeno di Berlinguer era la prima parola che ti veniva in mente; e nemmeno di Natta, il suo successore; e nemmeno di Occhetto. I brillanti sono arrivati dopo, subito dopo, quando il Partito comunista si è trasformato in modo traumatico e improvviso, e ha cominciato a perdere la prima costola. Ecco, da quel momento in poi è cambiato tutto nel fare politica dei grandi dirigenti del partito: la lotta interna è diventata molto più importante della lotta esterna. Ci sono stati grandi dirigenti che hanno attraversato l’intera carriera politica osteggiando e criticando la sinistra o il partito principale. Dopodiché, quando è nato il Partito Democratico, unendo le due anime del centro e della sinistra riformista, questa battaglia interna è aumentata, si è stabilizzata, si è evoluta, ed è diventata la seguente: esco dal partito e ne fondo un altro perché il partito non mi piace, o non misoddisfa, o è andato in mano a gente estranea. Avendo unito tutte le anime progressiste, ha ottenuto per paradosso l’effetto contrario: ha cominciato a disunirsi, altri partiti hanno cominciato a proliferare, tutti piccoli, e che devono la propria sopravvivenza, sia politica sia di conquista di spazio elettorale, al danno che riescono a procurare al Pd.
E così, da parecchi anni, tutta la questione politica dei partiti di centro sinistra riguarda il centro sinistra. Quello che è successo in queste settimane è esemplare: a sinistra del Pd si rimproverava il Pd di andare verso il centro; a destra del Pd si rimproverava il Pd di andare verso sinistra. Una questione vecchissima. Il problema politico del Pd, quindi, di conseguenza, e da molti anni, non è l’avversario politico opposto, ma sono i suoi satelliti intorno.
E così, anno dopo anno, e forse contemporaneamente ai dirigenti politici, anche gli elettori si sono abituati e concentrati sulla battaglia interna. E così alle cene di questo agosto elettorale, gli elettori di centro sinistra, e per la maggior parte del Pd, si concentrano su dei litigi tra quelli che dicono che Calenda ha ragione o che Calenda ha torto, che non si può andare troppo a sinistra e che non si può andare troppo al centro.
Cosa ha fatto il Pd per evitare tutto questo? Poco, non c’è dubbio. Si è fatto sempre trovare pronto alla bisogna davanti ai momenti di crisi del Paese, non conquista da molto tempo (insieme ad alleati) una vittoria elettorale nazionale stabile e significativa. Sembra anch’esso impreparato, come tutti gli altri partiti, a questa campagna elettorale improvvisa. Mentre un grande partito riformista dovrebbe costruire un programma politico di lunga gittata, che punti a vincere nel momento in cui gli elettori si convinceranno della serietà e della bontà. Invece il Pd dà l’impressione difficilmente confutabile di aver improvvisato un programma elettorale (che tra l’altro ha alcuni punti interessanti).
E qui si arriva alla seconda questione che viene fuori questa estate dal mio piccolo censimento di amici di sinistra. Sia i partiti, sia gli elettori di sinistra ritengono di non dover badare ai programmi politici, ma di essere detentori di una questione etica. E anche questo pensiero si è formato negli anni, e sarà duro da estirpare. Non avendo programmi convincenti per gli italiani, non essendo riusciti a formare alleanze stabili e costruttive ma anzi continuando a litigare e a perdere pezzi, la formula antica, cominciata nell’era berlusconiana e poi proseguita per Salvini e adesso per la Meloni, è la questione etica. Mentre il centrodestra mette insieme un programma politico discutibile (e proprio sulla sua discutibilità c’è uno spazio politico enorme per contrastarlo), i partiti e gli elettori di sinistra non si caricano di una battaglia politica (contrapponendo una sensatezza programmatica e seriamente riformista) ma di una supremazia etica contro la paura del fascismo, contro la fiamma tricolore. Tutti timori sacrosanti, che valgono in generale, per la storia di questo Paese; ma che sono argomenti messi in campo troppo tardi e che sembrano denunciare più che la supremazia etica, l’aridità politica.
Ecco, probabilmente si ricorre ad argomenti etici contro la Meloni, così come si ricorreva ad argomenti etici contro Berlusconi, per incapacità politica. Invece la questione etica è da dipanare negli anni, deve portare a vigilare con serietà; ma non può essere argomento unico nelle ultime settimane di campagna elettorale. Altrimenti si finisce per fare agli elettori la solita richiesta, che sembra l’unica vera richiesta elettorale che viene fatta da molti anni: vota per noi per principio, perché noi siamo i giusti. È questa richiesta che sento venire dai partiti, che sento nelle cene con i miei amici, sento e ho sentito da molti e molti anni in questo Paese. E a questa richiesta, tra l’altro, gli italiani hanno risposto quasi sempre con un’alzata di spalle.
Ecco cosa vogliono fare i partiti di centro sinistra: combattere battaglie interne al proprio possibile schieramento, e imporre una superiorità etica sugli avversari; ecco cosa vogliono fare gli elettori di centro sinistra: criticare senza pietà la propria parte, in special modo il partito maggiore, e imporre una superiorità etica sugli avversari. Succede da così tanto tempo, che ci siamo abituati, e non ci accorgiamo più che è, fin dall’origine, la strada sbagliata.

giovedì 18 agosto 2022

La logica democristiana del Pd


 

Tommaso Nencioni, I tre cardini del Pd a trazione democristiana, il manifesto, 17 agosto 2022

  Anche a dispetto dell’evidenza, è oramai invalsa la tendenza a giudicare l’evoluzione (o involuzione) del Pd alla luce della storia del comunismo italiano. Senza prendere in considerazione l’altra componente che in quel partito è confluita, quella democristiana. Per cui, valutato nella prospettiva del comunismo, ci si appella all’unione attorno al Pd come “la sinistra" o, in maniera alternativa ma speculare, ci si scaglia contro per i suoi "tradimenti".
Questo potrebbe dipende
re dalla maggiore inclinazione intellettuale - se non grafomania - della sinistra: quelle che scrivono sul Pd e ne costruiscono la narrazione sono le componenti che ne sono entrate a far parte, o se ne sono allontanate, da sinistra. Perciò si stende una cortina fumogena che impedisce di cogliere con esattezza quanto si muove in quel partito. Gli ex comunisti scrivono; gli ex democristiani, nel frattempo, comandano.Se per una volta si provasse a valutare la parabola storica e l’attuale collocazione nel sistema politico del Pd non alla luce dell’esperienza comunista, ma di quella democristiana, probabilmente ne ricaveremmo bussole più esatte per l’agire politico. Una disamina del Pd come erede della Dc sarebbe possibille da diversi punti di vista, ma una valutazione complessiva richiederebbe l’analisi di una molteplicità di fattori impossibili da riassumere per intero. Pertanto è utile concentrarsi su tre aspetti sostanziali di cultura politica, tutti rintracciabili nella parabola del partito degasperiano e moroteo, e tutti largamente ereditati dal Pd. 1) La Dc è stata il garante del vincolo esterno in Italia, nella sua oppia versione atlantica ed europea; quando (raramente) i due vincoli sono entrati in contrasto tra di loro, la Dc ha sempre scelto la fedeltà a quello atlantico. 2) La Dc ha sempre identificato la salvezza della (debole) democrazia italiana con la propria centralità nel sistema politico del Paese. 3) La politica delle alleanze della Dc, pur a geometria variabile, è sempre stata subordinata alla tenuta dei due fattori precedenti. Per cui ogni alleanza, anche la più spregiudicata, è stata ritenuta possibile,
a pat
to che questa non mettesse in forse il vincolo esterno e non minacciasse la centralità democristiana.
O
ra sembra abbastanza agevole rintracciare queste caratteristiche ereditate dalla cultura politica democristiana nel comportamento del Pd degli ultimi anni, e in questa campagna elettorale. Il Partito democratico ha sempre favorito la nascita di governi solo parzialmente rispondenti al voto elettorale, identificando la propria presenza in maggioranza con la salvezza della democrazia, di volta in volta sottoposta ad oscure minacce esterne. Il discrimine ultimo è sempre stato quello della fedeltà al vincolo esterno, nella doppia variante europeista (nascita del governo Monti e commissariamento della politica economica del Paese) ed atlantista (governo Draghi e guerra in Ucraina). Finalmente, la scelta elettorale apparentemente suicida di abbandonare il dialogo con Conte da un lato nasconde una paura - che il rapporto con una forza di peso tendenzialmente equivalente ne mini la centralità, rischio corso col Conte II; dall’altro una conclamata esigenza - quella cioè che gli alleati siano “affidabili” in politica estera: questo è stato risposto esplicitamente a chi chiedeva il motivo per cui “Fratoianni sì e Conte no”.A complicare la situazione del Pd rispetto a quella che fu la Dc vi è un dettaglio di non poco conto: la centralità della Dc nel sistema politico era resa possibile dal proprio effettivo peso elettorale, oltre che dall’impossibilità che si verificasse un’alternanza data la natura particolare dell’opposizione comunista nel contesto della guerra fredda. Nella situazione attuale, al contrario, non c’è nessun elemento sistemico che impedisca la messa all’opposizione del Pd. Di qui alcune ricostruzioni che analizzano le mosse suicide del Pd in questa campagna elettorale in modo apparentemente arzigogolato, ma forse non lontano dal vero. Con la scelta di rompere con Conte, il Pd emargina il M5S, si rafforza come partito pur in presenza di una annunciata sconfitta della coalizione, e scommette tutto sull’implosione della destra ad urne chiuse, per riproporre surrettiziamente la propria funzione di garanzia nel prossimo parlamento. Se così fosse, si tratterebbe di un errore di prospettiva dal prezzo salato. La destra è molto più coesa di quanto possa sembrare, mentre le lamentazioni sulla sua inaffidabilità internazionale sono buone solo per la nostra provincia. Washington è in tutt’altre e ben più gravi faccende affaccendata. E storicamente la destra italiana, anche nelle sue versioni più estreme, non l’ha mai infastidita più di tanto, per usare un eufemismo.Il lavoro politico da fare per le forze di progresso è tutto interno alla società italiana, e ci sono sempre più dubbi sulla possibilità che sia il Pd lo strumento più adatto per portarlo avanti. 

lunedì 15 agosto 2022

Chi ha paura di Giorgia Meloni?

 


 

Paola Di Caro, Corriere della sera, 14 agosto 2022

Meloni ricorda come il sistema a cui pensa FdI sia quello semi-presidenziale alla francese , che «Letta dovrebbe apprezzare peraltro, da amico ed estimatore della Francia...», e che era quello per cui l’allora presidente della Bicamerale D’Alema si schierò. Ma «anche nel 2013, quando al governo c’era Letta, praticamente tutto il Pd convergeva sulla proposta: da Veltroni, a Zanda a Finocchiaro a Prodi, a Bersani, perfino a Speranza! E oggi Renzi, non un esponente della destra, è favorevole».

Però una cosa è un sistema che nasce da un confronto tra schieramenti in equilibrio, altra la bandiera di una corazzata - quella guidata appunto da lei, Salvini e Berlusconi - che anche grazie a questa legge elettorale potrebbe imporre tutto ciò che vuole. «Questa legge elettorale — la replica secca — siamo stati gli unici a non votarla. Per il resto, noi cerchiamo il dialogo, abbiamo tutte le intenzioni di fare riforme il più possibile condivise, cercando di bilanciare al meglio i pesi e i contrappesi per un sistema che funzioni». Anche con un organismo ad hoc, tipo una Bicamerale? «Se c’è volontà di collaborare, perché no?», apre Meloni. Ma è chiara su un punto: «Se il Pd ne fa oggi un referendum, da una parte i buoni che vogliono tenere il sistema com’è e dall’altra i cattivi che vogliono il presidenzialismo, allora vedremo cosa scelgono gli elettori. Perché è la volontà popolare che conta».