Tommaso Nencioni, I tre cardini del Pd a trazione democristiana, il manifesto, 17 agosto 2022
Anche a dispetto dell’evidenza, è oramai invalsa la tendenza a giudicare l’evoluzione (o involuzione) del Pd alla luce della storia del comunismo italiano. Senza prendere in considerazione l’altra componente che in quel partito è confluita, quella democristiana. Per cui, valutato nella prospettiva del comunismo, ci si appella all’unione attorno al Pd come “la sinistra" o, in maniera alternativa ma speculare, ci si scaglia contro per i suoi "tradimenti".
Questo potrebbe dipendere dalla maggiore inclinazione intellettuale - se non grafomania - della sinistra: quelle che scrivono sul Pd e ne costruiscono la narrazione sono le componenti che ne sono entrate a far parte, o se ne sono allontanate, da sinistra. Perciò si stende una cortina fumogena che impedisce di cogliere con esattezza quanto si muove in quel partito. Gli ex comunisti scrivono; gli ex democristiani, nel frattempo, comandano.Se per una volta si provasse a valutare la parabola storica e l’attuale collocazione nel sistema politico del Pd non alla luce dell’esperienza comunista, ma di quella democristiana, probabilmente ne ricaveremmo bussole più esatte per l’agire politico.
Una disamina del Pd come erede della Dc sarebbe possibille da diversi punti di vista, ma una valutazione complessiva richiederebbe l’analisi di una molteplicità di fattori impossibili da riassumere per intero.
Pertanto è utile concentrarsi su tre aspetti sostanziali di cultura politica, tutti rintracciabili nella parabola del partito degasperiano e moroteo, e tutti largamente ereditati dal Pd. 1) La Dc è stata il garante del vincolo esterno in Italia, nella sua oppia versione atlantica ed europea; quando (raramente) i due vincoli sono entrati in contrasto tra di loro, la Dc ha sempre scelto la fedeltà a quello atlantico. 2) La Dc ha sempre identificato la salvezza della (debole) democrazia italiana con la propria centralità nel sistema politico del Paese. 3) La politica delle alleanze della Dc, pur a geometria variabile, è sempre stata subordinata alla tenuta dei due fattori precedenti. Per cui ogni alleanza, anche la più spregiudicata, è stata ritenuta possibile,
a patto che questa non mettesse in forse il vincolo esterno e non minacciasse la centralità democristiana.
Ora sembra abbastanza agevole rintracciare queste caratteristiche ereditate dalla cultura politica democristiana nel comportamento del Pd degli ultimi anni, e in questa campagna elettorale. Il Partito democratico ha sempre favorito la nascita di governi solo parzialmente rispondenti al voto elettorale, identificando la propria presenza in maggioranza con la salvezza della democrazia, di volta in volta sottoposta ad oscure minacce esterne. Il discrimine ultimo è sempre stato quello della fedeltà al vincolo esterno, nella doppia variante europeista (nascita del governo Monti e commissariamento della politica economica del Paese) ed atlantista (governo Draghi e guerra in Ucraina). Finalmente, la scelta elettorale apparentemente suicida di abbandonare il dialogo con Conte da un lato nasconde una paura - che il rapporto con una forza di peso tendenzialmente equivalente ne mini la centralità, rischio corso col Conte II; dall’altro una conclamata esigenza - quella cioè che gli alleati siano “affidabili” in politica estera: questo è stato risposto esplicitamente a chi chiedeva il motivo per cui “Fratoianni sì e Conte no”.
A complicare la situazione del Pd rispetto a quella che fu la Dc vi è un dettaglio di non poco conto: la centralità della Dc nel sistema politico era resa possibile dal proprio effettivo peso elettorale, oltre che dall’impossibilità che si verificasse un’alternanza data la natura particolare dell’opposizione comunista nel contesto della guerra fredda. Nella situazione attuale, al contrario, non c’è nessun elemento sistemico che impedisca la messa all’opposizione del Pd. Di qui alcune ricostruzioni che analizzano le mosse suicide del Pd in questa campagna elettorale in modo apparentemente arzigogolato, ma forse non lontano dal vero.
Con la scelta di rompere con Conte, il Pd emargina il M5S, si rafforza come partito pur in presenza di una annunciata sconfitta della coalizione, e scommette tutto sull’implosione della destra ad urne chiuse, per riproporre surrettiziamente la propria funzione di garanzia nel prossimo parlamento. Se così fosse, si tratterebbe di un errore di prospettiva dal prezzo salato. La destra è molto più coesa di quanto possa sembrare, mentre le lamentazioni sulla sua inaffidabilità internazionale sono buone solo per la nostra provincia. Washington è in tutt’altre e ben più gravi faccende affaccendata. E storicamente la destra italiana, anche nelle sue versioni più estreme, non l’ha mai infastidita più di tanto, per usare un eufemismo.
Il lavoro politico da fare per le forze di progresso è tutto interno alla società italiana, e ci sono sempre più dubbi sulla possibilità che sia il Pd lo strumento più adatto per portarlo avanti.
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