mercoledì 31 agosto 2022
Gorbaciov, un messaggio per il futuro
Fulvio Scaglione, L'uomo che fece a braccio di ferro con la Storia, Avvenire, 2 marzo 2021
La lobbia, la voglia sulla fronte, la battuta, il sorriso della moglie Raissa. Mikhail Sergeevic Gorbaciov, che oggi fa novant’anni, è stato anche questo. Un leader che la voglia di cambiare, di rendere più azzurro il cielo dell’Urss ingrigito dallo zastoy (stagnazione) brezhneviano, la trasmetteva fin dalla persona, dal modo, dall’atteggiamento. Un messaggio vivente, efficace persin più delle parole d’ordine, perestroyka (ristrutturazione, lanciata nel 1985) e glasnost’ (trasparenza, 1986) che pure hanno fatto il giro del mondo e hanno segnato un’epoca.
Non si poteva vedere Gorbaciov, dopo il volto di granito di Andropov e la statua di sale di Cernenko, per brevissimo tempo segretari del Pcus prima di lui, senza capire quanto fosse necessario scuotersi e darsi una mossa. Quando diventa segretario generale, l’11 marzo del 1985, Gorbaciov ha solo 54 anni ed è il più giovane leader del Pcus di sempre. La sorpresa è grande. All’estero, ma anche in Russia. E forse persino in casa Gorbaciov. Brillante attivista, ottimo laureato, svelto funzionario del partito fino alla nomina, nel 1970, a segretario regionale. Tutto a Stavropol’, la sua città d’origine, prima dell’indispensabile salto a Mosca nel 1979. Nulla, però, che facesse presagire il Gorbaciov di pochi anni dopo.
Ci vuole anche fortuna, per certe ascese, e lui ce l’ha. A Stravropol’ milita nella 'corrente' di Fyodor Davydovic Kulakov, che è membro effettivo dell’Ufficio Politico (Politburo) del Pcus. Kulakov muore giovane d’infarto e Gorby diventa membro supplente. Una volta a Mosca, fa coppia con Piotr Mironovic Masherov, astro nascente del riformismo di partito. Questi però muore in un incidente stradale e Gorby diventa membro effettivo del Politburo. La vera chiave, però, si chiama Jurij Andropov. Il presidente del Kgb è di Stavropol’ come lui e, soprattutto, sa come stanno le cose, è il suo lavoro. Andropov diventa segretario del partito nel 1982, due giorni dopo la morte di Brezhnev. Non brilla per glasnost’, ma non manca di perestroyka: in un anno e mezzo, liquida 18 ministri e una quarantina di alti funzionari del Pcus.
Ma soprattutto spiana la strada al pupillo Gorbaciov, che la imbocca di corsa appena si conclude il breve mandato di Cernenko. Da un certo punto di vista, Gorby è sempre stato un mistero. Se è consentita una piccola memoria personale, le interviste che ho avuto con lui sono state davvero noiose. Non c’era nulla nel suo cursus honorum che facesse presagire tutta quella rivoluzione. Com’è successo, quindi, che alcune delle decisioni più importati e coraggiose del Novecento siano state prese proprio da lui e da un manipolo di riformatori sempre più isolati nella tenaglia tra i nostalgici conservatori e gli innovatori radicali? La risposta sta in un fatto che si tende a rimuovere: Gorbaciov credeva nell’Unione Sovietica e nel suo futuro.
Voleva salvarla. Era convinto che si potesse rimetterla in sesto rendendo più trasparenti i processi decisionali e ristrutturando l’economia. Glasnost’ e perestroyka, appunto. Oppure, come disse in 'Meeting Gorbaciov', il film biografico che gli ha dedicato Werner Herzog: «Volevamo più democrazia e più socialismo». Di riformare l’Urss non gli è riuscito. E in questi vent’anni dalle dimissioni e dall’ammaina falce e martello del 25 dicembre 1991, ha continuato a ricevere insulti e minacce da quelli che lo accusano di averla colpita al cuore.
Ma intanto… Nel 1987 firma con Ronald Reagan il Trattato che smantella i missili nucleari, nel 1988 avvia il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan (dopo dieci anni di guerra, 30mila russi e 18mila soldati afghani morti, 80mila mujaheddin caduti e almeno un milione di vittime civili), nel 1989 consente la rimozione del Muro di Berlino. Decisioni che hanno cambiato l’Europa e il mondo, prese provando intanto a rinnovare l’Urss (nel 1988 vara la Legge sulle Cooperative che reintroduce la proprietà privata in alcuni settori dell’industria e del commercio) e diffondendo nel Patto di Varsavia un contagioso esempio riformista, mentre la Storia faceva il suo corso con la solita mancanza di rispetto: nel 1986 il disastro di Cernobyl, nel 1990 (l’anno in cui ebbe il premio Nobel per la Pace) i moti nazionalisti nel Caucaso (con la strage degli armeni in Azerbaigian) e nel Baltico.
Oggi, si diceva, Gorby ne fa novanta in una Russia che poco gli somiglia e che ha fatto di tutto per dimenticarlo. Inevitabile. Ma anche impossibile. Perché non si può dimenticare un uomo che ha fatto a braccio di ferro con la Storia. La Storia ha vinto, ma lui non ha perso.
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