martedì 23 agosto 2022

Dugin

 

                                                    Diego Fusaro a cena con Dugin e Savoini

 

 Anna Zafesova, Dugin, sacerdote del putinismo che vuole cancellare l'Ucraina, La Stampa, 22 agosto 2022

Qualcuno dice che non ha mai incontrato Vladimir Putin in vita sua, altri lo definiscono il "cervello di Putin". Sicuramente, nel variopinto e popoloso mondo della propaganda ideologica russa, Aleksandr Dugin è il personaggio che più si presta a interpretare il ruolo di guru del regime. La lunga barba ispirata a Dostojevskij e ai suoi monaci veggenti, l'eloquio forbito e la padronanza di sei lingue, il conservatorismo religioso e una ricca bibliografia di titoli dedicati alla "geopolitica", alla "etnosociologia" e all'"eurosianesimo" ne fanno non un semplice propagandista dei tanti che popolano le televisioni russe. Pur non avendo un percorso di studi ufficiale, vanta dottorati in filosofia, sociologia e politologia, e si presenta come un intellettuale, un filosofo, un pensatore visionario. E sicuramente la stella polare della sua filosofia è Putin, "l'uomo del destino", "il Putin-Sole", a essere precisi, quello che si stacca dal razionale pragmatismo "lunare" di un leader integrato nel sistema internazionale per sfidare il resto del mondo ricostruendo un impero russo che dominerà «dall'Atlantico al Pacifico».
Lo stesso Dugin nelle interviste non risponde mai alla domanda se e quanto spesso frequenta il presidente russo, e spiega le assonanze nelle loro idee con il fatto che «leggiamo le stesse scritture, incise in lettere dorate nel cielo della storia russa». Il putinismo è stato l'approdo finale di un percorso lungo quanto coerente: il filosofo era un nazionalista e un reazionario già negli anni Ottanta, quando frequentava circoli che idolatravano le SS e si era iscritto alla prima formazione neonazista e antisemita nata con la perestroika, Pamyat. Negli anni Novanta, quando la Russia sognava di diventare in pochi anni parte dell'Europa e dell'Occidente, aveva fondato con Eduard Limonov il partito nazionalbolscevico. Tempi in cui i neonazisti russi erano un movimento emarginato, ai limiti dell'underground, quando Dugin si poteva incontrare negli scantinati dove suonavano metallari ricoperti di rune celtiche, e leggere in riviste ciclostilate dai nomi altisonanti come "Iperborea" e "Cospirologia", dove si parla di complotti globali, di templari dello spirito, e si scrive la parola "tradizione" rigorosamente con la maiuscola. Un sottobosco ideologico al quale è rimasto fedele rigorosamente con la maiuscola: "Tradizione" era anche il nome del festival dove era andato con sua figlia Daria la sera dell'attentato che le è costato la vita. Ma è stato il mondo a cambiare: quello che il trentenne Dugin predicava come una ideologia per pochi ribelli, oggi è il mainstream del Cremlino e viene raccontato da decine di politici e propagandisti nelle tv federali.
Non è stato il 60enne "ideologo del mondo russo", come si autodefinisce con orgoglio, a inventare la miscela esplosiva di nostalgia sovietica, imperialismo militarista, eccezionalismo ortodosso e suprematismo russo, che è diventata l'ideologia del fascismo putinista. Dugin però può rivendicare il merito di averlo nobilitato dandogli una forma "colta", e inserendolo nel contesto del pensiero di estrema destra europea che ha importato nella Russia postsovietica, da Julius Evola alla Nouvelle Droite di Alain Benoist, insieme alla passione per la "geopolitica" condita dal complottismo. Del resto chi meglio del figlio di un generale del Gru, lo spionaggio militare sovietico/russo, avrebbe potuto sintetizzare il revanscismo sovietico con il messianesimo della Santa Rus' che si opponeva a un Occidente ritenuto «il Male dell'atlantismo liberale globale». Un mix che aveva giustificato nelle menti non troppo oberate dalla cultura degli ex membri del Pcus e del Kgb il fallimento del comunismo. Il sincretismo ideologico duginiano, condito di termini altisonanti come "paradigma millenario", "rivoluzione conservatrice" e "passionarietà dell'etnos", dal misticismo ortodosso e dal romanticismo della "razza nordica dei guerrieri-sacerdoti ariani", ha fatto presa sui personaggi più diversi: negli anni, Dugin è stato consigliere prima del presidente comunista della Duma Gennady Seleznyov, ex direttore della Pravda, e poi del capo dello spionaggio estero Sergey Naryshkin. È stato il guru del gruppo degli ultranazionalisti che per conto del Cremlino hanno ispirato e realizzato l'invasione del Donbass nel 2014: il comandante militare Igor Strelkov e il "premier" dei filorussi di Donetsk Aleksandr Boroday sono stati suoi seguaci, così come il famigerato "oligarca ortodosso" Konstantin Malofeev.
Un clan che all'epoca si era rivelato troppo estremista perfino per i gusti di Putin, e il presidente aveva allontanato il filosofo dalla cattedra di sociologia delle relazioni internazionali dell'Università di Mosca, dopo che aveva proclamato pubblicamente che gli ucraini andavano «uccisi, uccisi, uccisi, ve lo dico come professore». All'epoca, al Cremlino c'era ancora un equilibrio tra i seguaci del "Sole" e i pragmatici "lunari", ma oggi Dugin – che non occupa più cariche di qualche rilievo o prestigio, e gira senza scorta per festival all'aperto di neonazisti - festeggia il suo trionfo. Non è stato lui a lanciare l'invasione dell'Ucraina, ma ha fatto di tutto per ispirarla e presentarsi come suo ideologo, e quindi un bersaglio visibile per tutti: per l'opposizione interna alla Russia come simbolo del "rascismo", per i pragmatici putiniani come icona dei falchi nazionalisti, e per questi ultimi come martire perfetto della loro causa. —

Nessun commento:

Posta un commento