Diego Fusaro a cena con Dugin e Savoini
Anna Zafesova, Dugin, sacerdote del putinismo che vuole cancellare l'Ucraina, La Stampa, 22 agosto 2022
Qualcuno dice che non ha mai incontrato
Vladimir Putin in vita sua, altri lo definiscono il "cervello di Putin".
Sicuramente, nel variopinto e popoloso mondo della propaganda
ideologica russa, Aleksandr Dugin è il personaggio che più si presta a
interpretare il ruolo di guru del regime. La lunga barba ispirata a
Dostojevskij e ai suoi monaci veggenti, l'eloquio forbito e la
padronanza di sei lingue, il conservatorismo religioso e una ricca
bibliografia di titoli dedicati alla "geopolitica", alla
"etnosociologia" e all'"eurosianesimo" ne fanno non un semplice
propagandista dei tanti che popolano le televisioni russe. Pur non
avendo un percorso di studi ufficiale, vanta dottorati in filosofia,
sociologia e politologia, e si presenta come un intellettuale, un
filosofo, un pensatore visionario. E sicuramente la stella polare della
sua filosofia è Putin, "l'uomo del destino", "il Putin-Sole", a essere
precisi, quello che si stacca dal razionale pragmatismo "lunare" di un
leader integrato nel sistema internazionale per sfidare il resto del
mondo ricostruendo un impero russo che dominerà «dall'Atlantico al
Pacifico».
Lo stesso Dugin nelle
interviste non risponde mai alla domanda se e quanto spesso frequenta il
presidente russo, e spiega le assonanze nelle loro idee con il fatto
che «leggiamo le stesse scritture, incise in lettere dorate nel cielo
della storia russa». Il putinismo è stato l'approdo finale di un
percorso lungo quanto coerente: il filosofo era un nazionalista e un
reazionario già negli anni Ottanta, quando frequentava circoli che
idolatravano le SS e si era iscritto alla prima formazione neonazista e
antisemita nata con la perestroika, Pamyat. Negli anni Novanta, quando
la Russia sognava di diventare in pochi anni parte dell'Europa e
dell'Occidente, aveva fondato con Eduard Limonov il partito
nazionalbolscevico. Tempi in cui i neonazisti russi erano un movimento
emarginato, ai limiti dell'underground, quando Dugin si poteva
incontrare negli scantinati dove suonavano metallari ricoperti di rune
celtiche, e leggere in riviste ciclostilate dai nomi altisonanti come
"Iperborea" e "Cospirologia", dove si parla di complotti globali, di
templari dello spirito, e si scrive la parola "tradizione" rigorosamente
con la maiuscola. Un sottobosco ideologico al quale è rimasto fedele
rigorosamente con la maiuscola: "Tradizione" era anche il nome del
festival dove era andato con sua figlia Daria la sera dell'attentato che
le è costato la vita. Ma è stato il mondo a cambiare: quello che il
trentenne Dugin predicava come una ideologia per pochi ribelli, oggi è
il mainstream del Cremlino e viene raccontato da decine di politici e
propagandisti nelle tv federali.
Non è
stato il 60enne "ideologo del mondo russo", come si autodefinisce con
orgoglio, a inventare la miscela esplosiva di nostalgia sovietica,
imperialismo militarista, eccezionalismo ortodosso e suprematismo russo,
che è diventata l'ideologia del fascismo putinista. Dugin però può
rivendicare il merito di averlo nobilitato dandogli una forma "colta", e
inserendolo nel contesto del pensiero di estrema destra europea che ha
importato nella Russia postsovietica, da Julius Evola alla Nouvelle
Droite di Alain Benoist, insieme alla passione per la "geopolitica"
condita dal complottismo. Del resto chi meglio del figlio di un generale
del Gru, lo spionaggio militare sovietico/russo, avrebbe potuto
sintetizzare il revanscismo sovietico con il messianesimo della Santa
Rus' che si opponeva a un Occidente ritenuto «il Male dell'atlantismo
liberale globale». Un mix che aveva giustificato nelle menti non troppo
oberate dalla cultura degli ex membri del Pcus e del Kgb il fallimento
del comunismo. Il sincretismo ideologico duginiano, condito di termini
altisonanti come "paradigma millenario", "rivoluzione conservatrice" e
"passionarietà dell'etnos", dal misticismo ortodosso e dal romanticismo
della "razza nordica dei guerrieri-sacerdoti ariani", ha fatto presa sui
personaggi più diversi: negli anni, Dugin è stato consigliere prima del
presidente comunista della Duma Gennady Seleznyov, ex direttore della
Pravda, e poi del capo dello spionaggio estero Sergey Naryshkin. È stato
il guru del gruppo degli ultranazionalisti che per conto del Cremlino
hanno ispirato e realizzato l'invasione del Donbass nel 2014: il
comandante militare Igor Strelkov e il "premier" dei filorussi di
Donetsk Aleksandr Boroday sono stati suoi seguaci, così come il
famigerato "oligarca ortodosso" Konstantin Malofeev.
Un
clan che all'epoca si era rivelato troppo estremista perfino per i
gusti di Putin, e il presidente aveva allontanato il filosofo dalla
cattedra di sociologia delle relazioni internazionali dell'Università di
Mosca, dopo che aveva proclamato pubblicamente che gli ucraini andavano
«uccisi, uccisi, uccisi, ve lo dico come professore». All'epoca, al
Cremlino c'era ancora un equilibrio tra i seguaci del "Sole" e i
pragmatici "lunari", ma oggi Dugin – che non occupa più cariche di
qualche rilievo o prestigio, e gira senza scorta per festival all'aperto
di neonazisti - festeggia il suo trionfo. Non è stato lui a lanciare
l'invasione dell'Ucraina, ma ha fatto di tutto per ispirarla e
presentarsi come suo ideologo, e quindi un bersaglio visibile per tutti:
per l'opposizione interna alla Russia come simbolo del "rascismo", per i
pragmatici putiniani come icona dei falchi nazionalisti, e per questi
ultimi come martire perfetto della loro causa. —
Nessun commento:
Posta un commento