Alberto Simoni, Paul Kennedy "Putin non ha alcuna chance di vittoria presto bisognerà dialogare con
Mosca". La Stampa, 30 maggio 2022
Per Paul Kennedy, lo storico che nel 1987 con il suo «Ascesa e declino delle grandi potenze» ha fornito una chiave di lettura della storia e della Guerra fredda diventata un caposaldo della geopolitica, «l’errore da evitare è estrapolare il conflitto ucraino dal contesto globale». «È sicuro che fra sei mesi quando magari ci sentiremo per gli auguri di fine anno, non parleremo dell’Iran e della sua bomba atomica? Se mi avesse chiamato sei mesi fa invece avremmo parlato solo di Cina e ancora di Cina». Gli eventi passano, non le quinte che ne fanno da cornice poiché lo scenario è sempre «il mondo globale», è lì che si riverberano i fatti. La conversazione con Paul Kennedy avviene via Zoom. È collegato dal suo studio alla Yale University e più che un’intervista quella che fa con La Stampa, è una lezione che porta su binari inaspettati e rivela aneddoti. Come quando ricorda il sesto senso di Henry Kissinger: «Scovava talenti della politica europea e americana, un giorno mi invitò a un brunch a casa sua, l’ospite era una giovane politica originaria della Germania dell’Est: Angela Merkel. L’aveva scoperta prima di tutti». O ridendo dice che i cinesi sono oggi i più avidi lettori del suo saggio e che da lì arriva il grosso dei diritti d’autore. «Evidentemente si sentono veramente una grande potenza».
Professore, cosa ha cambiato finora nello scenario europeo l’attacco russo all’Ucraina?
«L’invasione ha provocato “conseguenze non previste”: la Svezia e la Finlandia entreranno nella Nato, chi l’avrebbe mai pensato qualche mese fa. E chi avrebbe mai pensato a un governo tedesco a trazione social-democratica allontanarsi
da Mosca e incrementare le spese militari».
Come se ne esce?
«Diffido da chi ha soluzioni pronto uso e dice che bisogna fare così o così. Ma penso che arriverà il momento in cui, ci sia Putin o meno al potere, bisognerà parlare con la Russia. Non possiamo escluderla per sempre o esiliarla in Siberia».
Come si arriva a quel momento per evitare il “paradosso” della deportazione russa in Siberia?
«Diciamo che se fossi un consigliere di Putin gli direi per prima cosa di chiudere questa disastrosa esperienza ucraina. Non c’è alcuna chance di vittoria, né di tenere parti dell’Ucraina. Serve un compromesso da ricercare probabilmente alle Nazioni Unite, in un luogo e con persone per definizione neutrali che possano trovare la miglior via per mettere fine a questo conflitto. Poi bisogna rivolgersi al popolo russo, in modo onesto, spiegando che pensavamo ci fossero un complotto e sentimenti antirussi in Ucraina, ma che ora un compromesso con Kiev è fondamentale. E credo che la maggioranza della popolazione sarebbe sollevata vedendo la fine del conflitto. I russi hanno visto i loro figli e i loro nipoti morire indossando la divisa di un esercito fiacco e inefficace. Così come i russi furono contenti di lasciare l’Afghanistan, lo saranno anche di uscire dall’Ucraina. Infine, c’è un aspetto legato alla ricostruzione, alla modernità se vogliamo. È fondamentale dare speranza e prospettive alla gente».
In che modo?
«Spendere tempo e risorse per migliorare il tessuto economico e sociale distrutto della Russia. Basta uscire 50 chilometri da Mosca o da San Pietroburgo e si entra in un universo di difficoltà, arretratezza, povertà. Ferrovie, negozi, magazzini, non c’è nulla che abbia un barlume di modernità, di attrattività. Il Paese è 80 anni indietro in termini di sviluppo sociale, culturale ed economico».
Gli europei ragionano di difesa e sicurezza comune ma al dunque sembrano non arrivare mai. Si può essere potenza globale anche senzal’hardpower?
«Sappiamo che fra i Paesi europei ci sono delle differenze e delle grandi e piccole rivalità, eppure vi è un sostrato culturale, una comunanza di vedute che va oltre il mercato unico, i commerci e il Pil; è quella la forza dell’integrazione che consente all’Europa di essere vista come una forza nel suo insieme nonostante appunto le differenze fra i Paesi membri».
È sufficiente per essere una grande potenza del XXI secolo?
«Un budget per la sicurezza e un'integrata politica difensiva sono importanti, ma gli interessi nazionali e di campanile dei singoli Stati per ora prevalgono. Eppure, come ho detto prima, c'è qualcosa in più, appunto la comunanza culturale, che fa dell'Europa un attore importante. Merkel, ad esempio, è stata una interprete di questa visione».
Nessun commento:
Posta un commento