martedì 31 maggio 2022

Paul Kennedy sulla guerra

 
 

Alberto Simoni, Paul Kennedy "Putin non ha alcuna chance di vittoria presto bisognerà dialogare con 
Mosca".
La Stampa, 30 maggio 2022

Per Paul Kennedy, lo storico che nel 1987 con il suo «Ascesa e declino delle grandi potenze» ha fornito una chiave di lettura della storia e della Guerra fredda diventata un caposaldo della geopolitica, «l’errore da evitare è estrapolare il conflitto ucraino dal contesto globale». «È sicuro che fra sei mesi quando magari ci sentiremo per gli auguri di fine anno, non parleremo dell’Iran e della sua bomba atomica? Se mi avesse chiamato sei mesi fa invece avremmo parlato solo di Cina e ancora di Cina». Gli eventi passano, non le quinte che ne fanno da cornice poiché lo scenario è sempre «il mondo globale», è lì che si riverberano i fatti. La conversazione con Paul Kennedy avviene via Zoom. È collegato dal suo studio alla Yale University e più che un’intervista quella che fa con La Stampa, è una lezione che porta su binari inaspettati e rivela aneddoti. Come quando ricorda il sesto senso di Henry Kissinger: «Scovava talenti della politica europea e americana, un giorno mi invitò a un brunch a casa sua, l’ospite era una giovane politica originaria della Germania dell’Est: Angela Merkel. L’aveva scoperta prima di tutti». O ridendo dice che i cinesi sono oggi i più avidi lettori del suo saggio e che da lì arriva il grosso dei diritti d’autore. «Evidentemente si sentono veramente una grande potenza». 

Professore, cosa ha cambiato finora nello scenario europeo l’attacco russo all’Ucraina?

«L’invasione ha provocato “conseguenze non previste”: la Svezia e la Finlandia entreranno nella Nato, chi l’avrebbe mai pensato qualche mese fa. E chi avrebbe mai pensato a un governo tedesco a trazione social-democratica allontanarsi da Mosca e incrementare le spese militari».  

Come se ne esce?  

«Diffido da chi ha soluzioni pronto uso e dice che bisogna fare così o così. Ma penso che arriverà il momento in cui, ci sia Putin o meno al potere, bisognerà parlare con la Russia. Non possiamo escluderla per sempre o esiliarla in Siberia».  

Come si arriva a quel momento per evitare il “paradosso” della deportazione russa in Siberia?  

«Diciamo che se fossi un consigliere di Putin gli direi per prima cosa di chiudere questa disastrosa esperienza ucraina. Non c’è alcuna chance di vittoria, né di tenere parti dell’Ucraina. Serve un compromesso da ricercare probabilmente alle Nazioni Unite, in un luogo e con persone per definizione neutrali che possano trovare la miglior via per mettere fine a questo conflitto. Poi bisogna rivolgersi al popolo russo, in modo onesto, spiegando che pensavamo ci fossero un complotto e sentimenti antirussi in Ucraina, ma che ora un compromesso con Kiev è fondamentale. E credo che la maggioranza della popolazione sarebbe sollevata vedendo la fine del conflitto. I russi hanno visto i loro figli e i loro nipoti morire indossando la divisa di un esercito fiacco e inefficace. Così come i russi furono contenti di lasciare l’Afghanistan, lo saranno anche di uscire dall’Ucraina. Infine, c’è un aspetto legato alla ricostruzione, alla modernità se vogliamo. È fondamentale dare speranza e prospettive alla gente». 

In che modo? 

«Spendere tempo e risorse per migliorare il tessuto economico e sociale distrutto della Russia. Basta uscire 50 chilometri da Mosca o da San Pietroburgo e si entra in un universo di difficoltà, arretratezza, povertà. Ferrovie, negozi, magazzini, non c’è nulla che abbia un barlume di modernità, di attrattività. Il Paese è 80 anni indietro in termini di sviluppo sociale, culturale ed economico». 

Gli europei ragionano di difesa e sicurezza comune ma al dunque sembrano non arrivare mai. Si può essere potenza globale anche senzal’hardpower?  

«Sappiamo che fra i Paesi europei ci sono delle differenze e delle grandi e piccole rivalità, eppure vi è un sostrato culturale, una comunanza di vedute che va oltre il mercato unico, i commerci e il Pil; è quella la forza dell’integrazione che consente all’Europa di essere vista come una forza nel suo insieme nonostante appunto le differenze fra i Paesi membri». 

È sufficiente per essere una grande potenza del XXI secolo?

«Un budget per la sicurezza e un'integrata politica difensiva sono importanti, ma gli interessi nazionali e di campanile dei singoli Stati per ora prevalgono. Eppure, come ho detto prima, c'è qualcosa in più, appunto la comunanza culturale, che fa dell'Europa un attore importante. Merkel, ad esempio, è stata una interprete di questa visione».

L'ex cancelliera ha sempre tentato il dialogo e fatto affari con Putin. Ora in molti le rinfacciano quell'approccio.
 
«Non era l'unica a cercare un compromesso con la Russia. Fior di intellettuali, politici, media hanno sostenuto il dialogo fino all'ultimo. Merkel ha tentato per anni di portare la Russia sotto la stessa tenda europea, fatta di partnership e collaborazione. Qualcosa che va oltre i rifornimenti di gas o i legami economici finanziari».
La guerra in Ucraina ha saldato Usa ed Europa. Siamo in una dimensione di relazioni stabili fra le due sponde dell'Atlantico?
«Ritengo che siamo arrivati al punto massimo, il picco di positività nel rapporto fra Ue e Usa. C'è un nemico comune che ha unito anche i sentimenti, come se gli europei comprendessero meglio l'anima dell'America e ovviamente viceversa, nel nome di una sorta di "Noi non siamo come Putin"».
 
Quanto durerà questo clima positivo?
 
«Quando il collante russo si asciugherà le differenze fra Europa e Usa emergeranno. E le relazioni diventeranno molto complicate».
 
Perché?
 
«Se pensiamo in termini globali l'Europa ha un'agenda diversa da quella statunitense. Se invece ci soffermiamo sugli Stati Uniti ci sono segnali interni inequivocabili: gli Usa non prestano molta attenzione all'Europa e stanno andando in una direzione sbagliata. La prima è quella che ha imboccato il Partito repubblicano, qualcosa di sinistro persino di malvagio si è intrufolato in quel mondo. Sono proni a Trump. Il Gop ha perso la sua forte indipendenza, il suo atlantismo, il sostegno alle organizzazioni internazionali».
 
Ora però c'è un presidente democratico alla Casa Bianca che ripete "l'America è tornata".
 
«Sì, ma il partito ha svoltato a sinistra, è concentrato su temi specifici, l'inclusività e altre questioni – come l'aborto e il cambiamento climatico – e poco interessato alle relazioni con l'Unione europea o alla riforma del consiglio di Sicurezza dell'Onu o ad altre questioni di politica estera. Ecco perché quando la minaccia russa sarà svanita anche l'Europa sarà vista come un "animale sociale, culturale e politico diverso" dall'America. E non sarà semplice trovare punti di contatto». —

 


 

Nessun commento:

Posta un commento