Francesca Mannocchi, La lenta avanzata. Donbass, La Stampa, 1 maggio 2022
In piazza si sente solo la voce di Olga
«cosa avete fatto al nostro Donbass? Come l'avete ridotto?» grida a un
noi che non ha forma se non quella della necessità di trovare un
responsabile al proprio dolore, chiunque sia.
«Mio
padre è arrivato qui con una valigia vuota, ha lavorato sotto terra in
miniera per quarant'anni, e ora io devo umiliarmi, povera, sporca e
chiedere mezzo chilo di farina?».
Olga
non riceve aiuti umanitari da due settimane, si batte le mani sul volto
prima di fare il segno della croce con il viso rigato più dalla
vergogna che dalle lacrime.
Uno dei
volontari della Croce Rossa Ucraina, appena arrivato, le chiede se ha
bisogno di acqua, di medicine. Lei risponde che ha solo bisogno di pace e
se ne va, trascinando la borsa per il manico. La piazza torna
silenziosa com'era, Olga scivola via insieme all'eco delle ruote della
sua sacca da cui si vedono sporgere le taniche d'acqua. Vuote.
...
Normalità è la parola che più di tutte si sente pronunciare qui da
quando la guerra a cui la regione era abituata ha preso un'altra forma,
quella delle case distrutte, dei colpi d'artiglieria incessanti, delle
notti vissute nel timore di essere colpiti dai missili, del timore di
morire sotto le macerie della propria abitazione, o schiacciati nel
proprio rifugio improvvisato.
...
Alla fine della discesa che dal centro
della cultura porta al piccolo corso d'acqua a valle, Oleksander cammina
con quattro taniche di plastica. Raggiunge una piccola fonte alla fine
di una strada sterrata. Ha lavorato come camionista per quarantacinque
anni, ora ne ha settanta, una pensione da 1300 grivne, 40 euro, e due
nipoti di otto e dieci anni a cui ha già spiegato che la carne non si
mangia perché costa troppo e a cui ora deve spiegare perché arrivino i
missili sulla strada di casa, perché non ci sia più acqua per lavarsi e
perché bisogna dormire in cantina.
Oleksander
ride poco ma quando lo fa i denti che gli mancano raccontano la vita di
sacrifici che ha fatto. «Ho vissuto l'Unione Sovietica e l'ho vista
morire e in cocci, siamo gente umile qui ma sappiamo che il bene il male
non stanno solo da una parte» dice anticipando una domanda che sto per
fargli.
«Come è iniziata lo sappiamo, Oleksander, ma secondo te, come va a finire?» gli chiedo.
Lui,
che ha la saggezza di chi la guerra non deve giustificarla né
combatterla, ma deve cercare di sopravviverle, mi chiede di aspettare
che arrivi con le taniche alla fine della salita per rispondermi.
Così
cammino accanto a lui e aspetto «se sei disposto a perdere fino
all'ultimo uomo, all'ultimo giovane che hai, non vuoi negoziare e questo
non è il ragionamento di un capo, è il ragionamento di chi è
intrappolato nella guerra che sta combattendo».
Risponde
così, non nomina Putin, non nomina Zelensky. Evoca però, la normalità
di cui la gente ha bisogno. La stessa che Putin aveva promesso di
riportare in questa terra di industrie e di miniere, di lavoro e di
fatica, eppure così impoverita e piegata.
La
stessa che Zelensky vuole riportare al Paese promettendo di vincere una
guerra che è già una guerra destinata a durare a lungo.
I
russi lo sanno e hanno fatto del tempo un pezzo della strategia che può
diventare la trappola di Zelensky. Mentre il presidente ucraino si
dimostra determinato a non cedere di un passo, in Donbass la strategia
militare russa non solo funziona ma ha una logica.
Tanto
più lentamente avanzano le truppe russe, tanto più la popolazione si
fiacca e la gente piegata dalla fame, dalla sete e dalla paura, tenderà a
pensare che il nuovo possa essere la soluzione.
È la strada russa verso, più che la normalità, la normalizzazione.
Avanza
così, al passo lento di chi sa che la fame e la sete hanno fretta, ma
le aspettative di chi vuole un vecchio, nuovo impero, possono aspettare i
tempi di una guerra lunga.
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