venerdì 13 maggio 2022

Paul Ginsborg, una certa idea dell'Italia

 


Claudio Vercelli, Paul Ginsborg, tra analisi scientifica e intervento civile, il manifesto, 12 maggio 2022

Con la silenziosa eleganza che ne ha contraddistinto l’intera esistenza se ne è andato, dopo una malattia tanto insidiosa quanto repentina nei suoi esiti fatali, Paul Ginsborg. La sua traiettoria intellettuale si è articolata tra il Regno Unito e l’Italia, le sue due patrie, la prima di origine, l’altra di appartenenza.

Nato a Londra nel luglio del 1945, quando il paese stava uscendo da una guerra pressoché totale, aveva studiato al prestigioso Queens’ College di Cambridge, proseguendo successivamente come Fellow al Churchill College. Il suo insegnamento è sempre stato sospeso tra la passione per la storia moderna e contemporanea e l’afflato sociologico.

A PARTIRE dagli anni Ottanta si era trasferito in Italia, dove aveva svolto attività di docenza a Siena, Torino e poi a Firenze. Nell’ateneo di quest’ultima città aveva quindi insegnato storia dell’Europa contemporanea dal 1992 fino al pensionamento, avvenuto nel 2015. L’attenzione per le dinamiche continentali e per quelle italiane hanno costituito il fuoco del suo lavoro. Così come l’identificazione con il nostro Paese, del quale era diventato cittadino nel 2010. Le sue opere «italiane» risalgono al 1978, con uno studio su Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49.

Tuttavia, i testi più importanti sono quelli che l’hanno reso noto al di là del tradizionale pubblico accademico. Si tratta di una serie di volumi, itineranti tra il rigore dell’analisi scientifica e l’urgenza dell’intervento civile, con i quali ha cercato di mettere a fuoco i caratteri più recenti della società italiana. In particolare i lavori pubblicati da Einaudi, a partire dalla Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, uscito nel 1989 e più volte ristampato nonché aggiornato, passando per L’Italia del tempo presente e la curatela dell’Annale einaudiano dedicato al Risorgimento. Insieme, infine, all’ultima opera di maggiore impatto analitico, Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950.

A QUESTE OPERE, di maggiore densità analitica, si erano accompagnati e poi aggiunti i libri che ne qualificavano l’intervento nell’attualità. Critico severo e implacabile di Berlusconi, letto come un fenomeno di dissoluzione dei quadri repubblicani e costituzionalistici (ad esempio con il suo Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica oppure nel lavoro collettaneo, coordinato con Enrica Asquer, sul Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere), si era ripetutamente dedicato alla riflessione sul rapporto tra istituzioni, società e cultura civile.

Il timbro britannico, e con esso la necessità di mantenere un profilo che non fosse totalmente travolto dalle passioni politiche, nei fatti si era notevolmente stemperato con l’adesione alla stagione dei movimenti, quella che a partire dalla dissoluzione dei partiti della Prima repubblica, dall’emergere del populismo e dal ritorno di politiche di impronta patrimonialista e autocratica, rivendicava l’impossibilità di rispettare il distacco tra impianto teoretico e impegno civile.

A tale riguardo, Ginsborg coglieva lo smarrimento di quel composito aggregato sociale che anch’egli era andato definendo come «ceto medio riflessivo», dinanzi alle fratture e alle lacerazioni prodotte dalla transizione da un’organizzazione industriale a società dove l’immaterialità era un campo di costruzione non solo di egemonie ma anche di domini.

LA SUA INTERPRETAZIONE della lunga età di Berlusconi, dal 1994 fino agli anni più recenti, si inserisce infatti dentro una tale cornice, nella quale ritornano anche gli echi, emendati tuttavia dell’ideologismo originario, di una riflessione a tutto campo sulle fragilità civili del nostro Paese. Lo studioso era infatti molto attento, posta la sua sensibilità sociologica, ad evitare le trappole di un discorso declinato meramente sul piano dell’antropologia negativa, dove invece prevalgono le caratterizzazioni stereotipate sui presunti «caratteri» nazionali.

È difficile iniziare a parlare da subito di un’eredità di Paul Ginsborg qualora il suo magistero intellettuale, e la sua attività politica, non vengano messe in relazione con l’affermarsi, nello stesso arco di tempo, delle suggestive ma inconsistenti ipotesi di una «terza via», quella propugnata da Anthony Giddens e fatta propria da Tony Blair. Nel mentre quest’ultima attraversava una buona parte di ciò che era rimasto dei partiti socialisti e della sinistra europea, di fatto svuotandone completamente la residua identità, Paul Ginsborg si stava scoprendo animatore intellettuale dei gruppi dei girotondini, divenendo poi uno dei fondatori di Libertà e Giustizia.

L’intero suo lavoro culturale ci restituisce una serie di intensi fotogrammi su un lunghissimo tempo, quello della transizione e dell’impotenza, avviatosi già con la fine degli anni Settanta e per nulla conclusosi nel nostro Paese.

 https://www.repubblica.it/cultura/2022/05/11/news/morto_paul_ginsborg_ritratto_personaggio_storico_militante_innamorato_dellitalia-349112896/

 Simonetta Fiori, Paul Ginsborg, uno storico militante, la Repubblica, 11 maggio 2022 

Il professore inglese che cambiò la storia d'Italia. A Paul Ginsborg, morto ieri all'età di 76 anni, venne subito riconosciuta la patente di inventore di un nuovo genere storiografico. Aveva una qualità allora rara tra gli storici italiani. Sapeva raccontare. E, a differenza di altri studiosi anglosassoni, evitava di inarcare il sopracciglio verso gli eterni vizi del carattere nazionale. Figura esile, temperamento mite (nell'accezione bobbiana dei forti), inconfondibile accento british, perfino nella fisicità leggera restituiva una sua eccentricità rispetto al ceto accademico consapevole.

Nato a Londra il 18 luglio del 1945, del nostro paese s'era innamorato da giovane, fin dai tempi della tesi di dottorato sul patriota Manin. E dopo un lungo insegnamento a Cambridge, a Firenze ha scelto di trascorrere gli ultimi trent'anni della sua vita, intrecciando il mestiere dello storico con l'impegno civile. I girotondi, il movimento in difesa della legalità che nel 2002 contribuì a fondare contro gli abusi di Silvio Berlusconi, hanno rappresentato l'esito naturale di un'idea del paese maturata nel corso dei suoi studi. Come se dopo tanta ricerca intellettuale, occorresse rimboccarsi le maniche per raddrizzare il legno storto, al fianco di "quel ceto medio riflessivo" - espressione di suo conio - nel quale era depositato tutto il potenziale civico dell'Italia migliore.

Pur senza rivendicare blasoni e medaglie, Ginsborg è stato un innovatore. Prima della sua Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, uscita da Einaudi sul finire degli anni Ottanta, nessuno studioso aveva raccontato il nostro paese oltre la dimensione politica e istituzionale, allungando la lente sul costume e sulla società, sui consumi degli italiani, sul loro rapporto con il cinema e la tv. Anche le sue fonti erano diverse da quelle tradizionali, spaziando dalle testimonianze orali alle indagini sociologiche e ai rapporti delle commissioni parlamentari. In un panorama ondeggiante tra l'accademia e l'ideologia, Ginsborg rompeva anche con una narrazione ancora condizionata dalle famiglie comunista e cattolica, per adottare uno sguardo libero, nel solco tracciato dagli azionisti Vittorio Foa e Alessandro Galante Garrone, i "suoi maggiori". Lui si definiva un figlio del Sessantotto, del quale fino alla fine ha rivendicato "l'insofferenza a qualsiasi forma di potere e strapotere", un intellettuale di sinistra che non ha mai finto di essere neutrale. Ma proprio la consapevolezza delle proprie passioni lo induceva a lottare contro la faziosità e il pregiudizio, dando voce il più possibile ai documenti.

La pluralità di fonti e l'originalità dello sguardo non furono l'unica novità della sua Storia d'Italia che per la prima volta trasferiva sul terreno storiografico il tema della famiglia, un grande attore politico fino a quel momento recluso entro i confini dell'antropologia e della sociologia. E al permanere di forti legami parentali lo studioso attribuiva lo scarso senso dello Stato nutrito dagli italiani, la debole etica pubblica, in una contrapposizione costante tra valori individuali e valori nazionali. Quello del familismo e più in generale della centralità della famiglia nella società è un filone che attraversa la ricerca di Ginsborg nei suoi innumerevoli saggi, fino al fondamentale affresco sul Novecento europeo che vede qualsiasi utopia anarchica, progetto sovversivo o ideologia rivoluzionaria arrestarsi sulla soglia di casa. Di fronte alla famiglia - è la sua tesi ampiamente documentata - dovettero fermarsi perfino i totalitarismi rosso e nero, incapaci di scioglierla in un ordine sociale superiore (Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950, Einaudi).

Familismo, in Italia, può fare rima con clientelismo e trasformismo. Allo storico del "tengo famiglia" doveva capitare in sorte di essere il primo autore d'un saggio storico sul nascente evo berlusconiano. Uscito nel maggio del 1994, su incarico del Saggiatore, Stato dell'Italia era la radiografia di un paziente bizzarro, che sogna la rivoluzione e vota a destra, che pare mosso da una spinta morale per poi regredire all'egoistico interesse materiale, che si nutre di antifascismo sul piano esistenziale per poi mandare al governo il partito dei postfascisti. La nuova destra gli pareva ereditare i vecchi vizi del sistema italiano. E il tempo non gli avrebbe fatto cambiare idea. Alla natura patrimoniale del sistema berlusconiano dedica un importante saggio nel 2011, al termine del cosiddetto ventennio azzurro (Berlusconismo, con Enrica Asquer, Laterza): Ginsborg vi rintracciava un'inedita forma di dispotismo populista che cambiava forma e sostanza dello Stato di diritto, attraverso il controllo dei media e l'estensione delle proprietà private di Berlusconi nella sfera pubblica. Ma nonostante l'individualismo sfrenato diffuso nel paese, lo studioso non rinuncia ad aver fiducia nel "ceto riflessivo", nel ceto medio pensante a cui attribuisce il patrimonio delle virtù civili, smarrito da una sinistra politica esangue. Nel 2002, insieme a Pancho Pardi, guida "la marcia dei professori" a Firenze, all'interno del più vasto movimento dei girotondi, nato contro le ingerenze del potere esecutivo contro quello giudiziario. È l'anno delle piazze animate da Nanni Moretti, Nando Dalla Chiesa, Paolo Sylos Labini. Sette anni più tardi scende in campo il cosiddetto "popolo viola", sorto per autoconvocazione su Facebook contro le "leggi canaglia" del premier: anche stavolta Ginsborg non mancherà di dare il suo sostegno.

La sua elaborazione intellettuale s'accompagna sempre più a una militanza civile febbrile. Presente sulle pagine di Repubblica e di Passato e presente, la rivista degli storici di sinistra, lo studioso è molto attivo nelle sedi di Libertà e Giustizia, l'associazione fondata da Gustavo Zagrebelsky e Sandra Bonsanti di cui tre anni fa è divenuto presidente. La politica non lo distrae dagli studi storici, a cui continua a dare apporti innovativi. Il suo volume sul Risorgimento, curato insieme ad Alberto Mario Banti per la Storia d'Italia di Einaudi, ancora una volta valorizza mentalità, emozioni, immaginari rispetto alla storia istituzionale. Una cesura netta rispetto alla tradizione storiografica.

Ma nella stagione dell'impegno, da storico avvertito, Ginsborg è capace innanzitutto di storicizzare sé stesso. Non è un caso che uno degli ultimi saggi einaudiani sia dedicato alla passione, divenuto il nuovo lemma del suo personalissimo lessico politico. Compassione, inclusione, amore. Quanto più prestiamo attenzione alla passione, tanto più potremo reimparare a essere democratici, a cominciare da quel luogo privilegiato di sentimenti e affetti che è la famiglia. Questo, in fondo, il lascito del professore di Cambridge che ha osservato gli italiani come nessuno aveva mai fatto prima.

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