venerdì 30 settembre 2016
Donald Sassoon su Corbyn
Leonardo Clausi
La svolta Labour «che i parlamentari non hanno capito»
Intervista a Donald Sassoon. «Non sono solo i deputati moderati ad aver vissuto in una bolla completamente rimossa dall’umore della base del partito, è anche la stragrande maggioranza dei commentatori. Guardian in testa», spiega lo storico inglese
il manifesto, 20 settembre 2016
LONDRA Donald Sassoon, professore emerito di storia europea comparata presso il Queen Mary College, dell’Università di Londra, è uno dei massimi esperti di socialismo europeo. Autore, fra gli altri de La cultura degli europei. Dal 1800 a oggi, ha appena terminato un tomo sul capitalismo globale dal 1880 al 1914.
Professor Sassoon, Jeremy Corbyn ha dimostrato la sua attuale invincibilità all’interno del partito resistendo a un attacco frontale durissimo da parte dei suoi stessi deputati. Che dopo questa sonora débâcle sono affranti.
Di solito i leader politici dicono che vinceranno le elezioni, anche quando è palesemente vero il contrario, pensiamo al leader dei liberal-democratici Tim Farron, alla guida di un partito decimato i cui deputati entrerebbero in un taxi, che ha fatto affermazioni quasi trionfalistiche. Solo i centristi del Labour ripetono ossessivamente che il loro partito le perderà.
Questa “lotta per l’anima del partito” riflette la spaccatura tra due blocchi sociali al suo interno come del resto nel paese reale?
Non sono solo i deputati moderati ad aver vissuto in una bolla completamente rimossa dall’umore della base del partito, è anche la stragrande maggioranza dei commentatori, Guardian in testa, che troppo spesso si contentano di ottenere le loro informazioni politiche semplicemente andando a pranzo e a cena a Westminster con loro.
La componente parlamentare proprio non ne vuole sapere di lasciare che un po’ di buona, vecchia democrazia si diffonda nel partito laburista.
No. Anzi, il Parliamentary Labour party (Plp) si trova di fronte al paradosso dolorosamente descritto da Brecht a proposito del partito comunista della Repubblica Democratica tedesca nel reprimere le rivolte del ’53: “Non sarebbe meglio sciogliere il popolo ed eleggerne un altro?”
Tutto questo pessimismo cosmico dei moderati è giustificabile? Quanto “ineleggibile” è davvero Jeremy Corbyn?
È poco probabile che il partito possa vincere le prossime elezioni, anche solo per via delle enormi perdite subite in Scozia nel 2015 a vantaggio dei nazionalisti, una sconfitta incassata da Ed Miliband prima che Corbyn diventasse leader del partito. Tanto più che da nessuna delle due parti sembra esserci appetito per una coalizione con lo Scottish National Party (Snp). Ma i centristi, che sono del tutto privi di uno straccio di leader, di certo non le vincerebbero nemmeno loro. Nella sua storia dal secondo dopoguerra, il partito laburista ha vinto le elezioni solo con Attlee, con Wilson, e con Blair (ben tre volte con quest’ultimo), ma il nome di Blair oggi è una parolaccia nel partito e nel paese in generale.
Gli attacchi alla leadership sono piovuti anche con la scusa che i tories potrebbero andare di sorpresa alle urne approfittando del caos interno all’opposizione per ottenere un mandato più schiacciante.
Quanto al rischio di elezioni anticipate: per indirle, Theresa May dovrebbe passare sopra a una legge introdotta di recente che ne impedisce la convocazione. È una cosa che potrebbe fare, ma al momento sembra improbabile. Di solito la tradizione vuole – l’hanno fatto vari primi ministri in passato, compreso Blair – che le si convochi al quarto anno, cioè un anno prima che finisca la legislatura.
Come commenta le ossessive accuse a un partito improvvisamente ostaggio di antisemitismo, sessismo e di trotzkismo?
Corbyn aveva commissionato un’inchiesta interna sul presunto antisemitismo nel Labour a Shami Chakrabarti (ex leader storica dell’organizzazione per i diritti civili Liberty, ndr). Le accuse di antisemitismo sono abbastanza irrilevanti, le ho vagliate assieme ad altri iscritti ebrei al partito. In proporzione c’è molto più antisemitismo nel partito conservatore e per ovvie ragioni; in Gran Bretagna gli ebrei sono pochi e stanno abbastanza tranquilli rispetto al resto d’Europa, ma soprattutto in confronto alla marea islamofobica dilagante nel paese. Quanto al trotzkismo, è un’accusa ridicola, parliamo di pochissimi elementi che peraltro c’erano in tutti i partiti della sinistra europea, Pci compreso.
Come giudica la situazione in Gran Bretagna rispetto a quella del resto dell’Europa?
Il quadro per la sinistra europea è abbastanza desolante, se uno guarda alla Germania e all’Italia, ma anche alla Grecia, alla Spagna e, soprattutto, alla Francia.
Ora tutti i moderati sembrano convergere trepidanti attorno alla figura del neo-sindaco Sadiq Khan: working class, moderato, e pro-business comme il faut.
È l’unico, a parte Corbyn, che potrebbe ambire alla leadership, ma al momento gli conviene fare il sindaco. Si troverà in una situazione simile a quella di Boris Johnson, che verso la fine del suo mandato da sindaco ha cominciato a programmare il proprio ingresso in parlamento per la scalata al vertice.
Cosa pensa del programma appena delineato al congresso di Liverpool? È poi così spietatamente socialista?
Si fa un gran parlare delle nazionalizzazioni: in realtà quelle non le chiede nessuno, eccetto che per le ferrovie, il che, secondo i sondaggi, sarebbe una cosa alquanto popolare. Le ferrovie di questo paese sono un disastro. Le altre cose proposte (aumento del salario minimo ecc.) sono “banalmente” social-democratiche.
Da allievo e amico del compianto Eric Hobsbawm, secondo lei cosa avrebbe pensato il grande storico della Brexit e di Corbyn?
Sulla Brexit sarebbe senz’altro dalla parte del Remain. Quanto a Corbyn non lo so.
giovedì 29 settembre 2016
I fari nella pittura di Hopper
Per un numero nutrito di artisti il faro è stato, ed è, un simbolo misterioso scatenante l'immaginazione più nascosta.
L'edificio raccoglie infatti attorno a sé la stessa capacità di essere fantasticato, come se fosse un castello. I guardiani della struttura, la notoria scala a chiocciola che conduce alla stanza dell'orologio, il fascio lucente che si infiltra fra i mari notturni, la sensazione di una solitudine antica e inesauribile attorno ad esso: questi sono solo alcuni degli elementi che costituiscono il desiderio di immortalarlo sotto diverse maniere.
Edward Hopper: "The Lighthouse at Two Lights"
L'edificio raccoglie infatti attorno a sé la stessa capacità di essere fantasticato, come se fosse un castello. I guardiani della struttura, la notoria scala a chiocciola che conduce alla stanza dell'orologio, il fascio lucente che si infiltra fra i mari notturni, la sensazione di una solitudine antica e inesauribile attorno ad esso: questi sono solo alcuni degli elementi che costituiscono il desiderio di immortalarlo sotto diverse maniere.
Il faro dipinto da Hopper è quello che erompe dal promontorio roccioso presso Cape Elizabeth, Maine.
La struttura nel dipinto è suggellata da un'aura malinconica e di raccoglimento tipica dei temi del pittore. Non si scorge, infatti, alcun mare.
Nella realtà, invece, davanti all'edificio, l'Oceano Atlantico si arrampica con la decisione delle onde, lungo la costa pietrosa puntuta. Sul piccolo apice di essa, innanzi al faro, protetti da una ringhiera laterale, si può in silenzio, osservare come il giorno diventi notte al ritmo metronomico e furente del gorgoglio delle acque.
Le case dal tetto spiovente color arancio, intanto, adiacenti al faro, paiono uscite fuori, poiché illuminate dalla luna, da un sogno inquieto.
http://www.ilsole24ore.com/art/viaggi/2015-07-16/quando-faro-indica-meta-viaggio-150843.shtml?uuid=AD6iq09
domenica 25 settembre 2016
Relazioni pericolose
Madame de Tourvel crede in Valmont, incapace di vedere il male nell’uomo di cui è innamorata.
Esce pulita dal confronto con Valmont e la Marchesa [de Merteuil]. Inconsapevole pedina, che spiazza i loro giochi con la verità e la purezza dei sentimenti.
Madame de Tourvel è il personaggio che ho amato di più. Non cede banalmente alle lusinghe di Valmont. Ne uscirebbe a sua volta corrotta se così fosse.
Si innamora dell’uomo entrando in contatto con la propria umanità. Sembra farsi sopraffare ma domina con la sua purezza su tutti i personaggi del romanzo.
http://www.unsassonellostagno.com/le-relazioni-pericolose/
TOURVEL: UN RITRATTO A DUE VOCI
Pierre Choderlos de Laclos, Le relazioni pericolose
La Marchesa di Merteuil al Visconte di Valmont
… Ah, dunque volete conquistare la présidente Tourvel! O capriccio insensato, o testa strampalatissima che avete, la quale non sa desiderare se non quello appunto che reputa impossibile d’ottenere. E avete osservato almeno che donna è mai questa? Ha fattezze regolari, ve l’ammetto, ma senza nessuna espressione. Ha un personale discreto, ma senza neppure l’ombra della grazia. E veste poi in modo da far ridere la gente, tutta infagottata nei suoi fisciù per volersi coprire il petto, e col busto che le sale fin sotto il mento! Ve lo dico da amica, datemi retta: un paio ancora di queste conquiste, e la vostra reputazione è bell’e spacciata. Ricordatevi un po’ del giorno in cui faceva la questua a San Rocco, e che voi mi ringraziaste dello spettacolo che vi avevo procurato: mi pare di vederla ancora girare con quello spilungone dai capelli lunghi che la guidava per mano; pareva che dovesse incespicare a ogni momento, e metteva il suo spropositato guardinfante sempre addosso alla gente, e a ogni riverenza non faceva che arrossire! Chi vi avrebbe detto allora che avreste finito per desiderare una donna simile? Suvvia, visconte, arrossitene anche voi, e rientrate in cervello: vi prometto che non ne dirò mai niente a nessuno.
Il Visconte di Valmont alla Marchesa di Merteuil …
Con che foschi colori mi dipingete la signora Tourvel! Se al posto
vostro ci fosse un uomo, pagherebbe con la vita la sua insolenza; e
qualunque altra donna, all’infuori di voi, ne avrebbe avuto alla men
peggio una dura lezione. Fatemi la carità di non mettermi più a questi
cimenti, perché non so davvero se potrei sopportarli. Per l’amicizia che
ci lega, aspettate almeno che io abbia conquistato questa donna, prima
di dirmene male. Non sapete che solo il possesso ha il diritto di far
cadere le illusioni? Ma che vado dicendo? La signora Tourvel ha forse
bisogno d’illusioni? Non le basta presentarsi così com’è, per essere una
creatura adorabile? Le avete rimproverato il suo modo di vestirsi.
Sfido io! Qualunque abbigliamento le nuoce, poiché non fa che nascondere
le sue bellezze, le quali tutte si rivelano nel loro magnifico
splendore soltanto nell’abbandono del négligé. Grazie al calore
asfissiante di questi giorni, ho potuto ammirarla appunto in una sottile
veste da camera che dà risalto a tutte le forme appetitose del suo bel
corpo, sodo e pastoso; e poiché una semplice mussolina le copriva il
petto, i miei sguardi furtivi han potuto penetrare oltre, e godere già
la vista delle rotondità più deliziose. Il suo volto, secondo voi, non
ha espressione. E che diamine volete che esprima, in un momento in cui
niente le parla ancora al cuore? Certo ella non ha lo sguardo traditore
delle civette, che magari a tutta prima piace, ma poi quasi sempre ci
delude. Non sa coprire il vuoto d’una frase con sorrisetti studiati; e,
benché abbia denti bellissimi, ride solo quand’è il caso di ridere. Ma
bisogna poi vederla nei momenti d’allegria, come sa essere ingenua e
schietta nella gioia; e come, nel soccorrere qualche disgraziato, il suo
sguardo s’anima d’una luce di soave pietà e di pura letizia! Bisogna
soprattutto vederla quando le si rivolge qualche lode o qualche
complimento, e nel suo visetto celestiale si dipinge l’onesto rossore di
una non finta modestia! È schifiltosa e devota; epperò la giudicate
fredda e senz’anima. Io la penso diversamente, e mi pare che occorra una
sensibilità portentosa per poterla espandere finanche sul proprio
marito e amare una persona che è sempre lontana.
Pierre Choderlos de Laclos (1741-1803) Les liaisons dangereuses (1782)
… Vous, avoir la présidente Tourvel! mais quel ridicule caprice! Je reconnais bien là votre mauvaise tête, qui ne sait désirer que ce qu’elle croit ne pouvoir pas obtenir. Qu’est-ce donc que cette femme? des traits réguliers si vous voulez, mais nulle expression : passablement faite, mais sans grâce : toujours mise à faire rire, avec ses paquets de fichus sur la gorge, & son corps qui remonte au menton ! Je vous le dis en amie, il ne vous faudrait pas deux femmes comme celle-là, pour vous faire perdre toute votre considération. Rappelez-vous donc ce jour où elle quêtait à saint-Roch, & où vous me remerciâtes tant de vous avoir procuré ce spectacle. Je crois la voir encore, donnant la main à ce grand échalas en cheveux longs, prête à tomber à chaque pas, ayant toujours son panier de quatre aunes sur la tête de quelqu’un, & rougissant à chaque révérence. Qui vous eût dit alors, vous désirerez cette femme? Allons, vicomte, rougissez vous-même, & revenez à vous. Je vous promets le secret.
Le Vicomte de Valmont à la Marquise de Merteuil
…De quels traits vous osez peindre madame de Tourvel ! . . . quel homme n’eût pas payé de sa vie cette insolente audace ? à quelle autre femme qu’à vous n’eût-elle pas valu au moins une noirceur ? De grâce, ne me mettez plus à d’aussi rudes épreuves; je ne répondrais pas de les soutenir. Au nom de l’amitié, attendez que j’aie eu cette femme, si vous voulez en médire. Ne savez-vous pas que la seule volupté a le droit de détacher le bandeau de l’amour? Mais que dis-je? madame de Tourvel a-t-elle besoin d’illusion? non : pour être adorable il lui suffit d’être elle-même. Vous lui reprochez de se mettre mal ; je le crois bien, toute parure lui nuit ; tout ce qui la cache la dépare. C’est dans l’abandon du négligé qu’elle est vraiment ravissante. Grâce aux chaleurs accablantes que nous éprouvons, un déshabillé de simple toile me laisse voir sa taille ronde & souple. Une seule mousseline couvre sa gorge ; & mes regards furtifs, mais pénétrants, en ont déjà saisi les formes enchanteresses. Sa figure, dites-vous, n’a nulle expression. Et qu’exprimerait-elle, dans les moments où rien ne parle à son cœur? Non, sans doute, elle n’a point, comme nos femmes coquettes, ce regard menteur qui séduit quelquefois et nous trompe toujours. Elle ne sait pas couvrir le vide d’une phrase par un sourire étudié ; et quoiqu’elle ait les plus belles dents du monde, elle ne rit que de ce qui l’amuse. Mais il faut voir comme, dans les folâtres jeux, elle offre l’image d’une gaîté naïve & franche! comme, auprès d’un malheureux qu’elle s’empresse de secourir, son regard annonce la joie pure et la bonté compâtissante! Il faut voir, surtout au moindre mot d’éloge ou de cajolerie, se peindre, sur sa figure céleste, ce touchant embarras d’une modestie qui n’est point jouée. Elle est prude et dévote, et de là vous la jugez froide et inanimée. Je pense bien différemment. Quelle étonnante sensibilité ne faut-il pas avoir pour la répandre jusque sur son mari, et pour aimer toujours un être toujours absent!
venerdì 23 settembre 2016
Vermeer, amore e musica
Vermeer, Lezione di musica, 1662 ca |
E’ l’unico dipinto di Vermeer con due serie di finestre, caratteristica di diversi edifici olandesi: Quattro serramenti con due persiane sul lato esterno e due ante superiori nella parte interna. Come in tutti i dipinti di Vermeer nulla si rivela di ciò che è fuori casa, accentuando la dimensione privata e il dialogo silenzioso tra la figure. Il soffitto è a travi di legno rafforzate da una traversa a muro sulle finestre. Esattissima la percezione minima dell’imbarcamento della travatura.
Una giovane musicista suona un virginale, seguita da un maestro la cui bocca semiaperta indica che sta cantando. La donna indossa una giacca leggera di raso giallo: il suo viso è riflesso, lo scorcio dettagliato; la sua umanità sospesa nella luce.
Il rapporto tra la musica e l’amore è tema pittorico degli olandesi: rinvia all’armonia degli innamorati, qui suggerita dalla viola da gamba incustodita sul pavimento.
Proprio l’accostamento dei due strumenti è l’emblema di Jacobs Cats, Quid non Sentit Amor: il suono di uno strumento riverbera l’altro come due cuori in armonia.
Il virginale occupava una posizione cruciale nella vita musicale: più piccolo, più semplice ed economico rispetto al clavicembalo, era prodotto principalmente ad Anversa, dalle famiglie Ruckers e Couchet. La cassa rettangolare aveva corde di metallo, pizzicate da plettri montati su martinetti (uno per ogni chiave) disposti a coppie.
La viola da gamba era invece caratterizzata dal tono morbido e chiaro, che imita la voce umana. La viola è associate al maschio; il virginale alla donna. La maggior parte dei virginali fiamminghi avevano la tavola armonica dipinta con fiori, frutta, arabeschi, motti. Qui è: MUSICA LETITIAE CO[ME] S MEDICINA DOLOR[UM] (La musica è compagnia di gioia, balsamo per il dolore). Il tema che rinvia alla pittura accennata sulla parete, una Caritas romana .
Un uomo di spalle, le mani legate dietro la schiena, è nutrito in carcere dal latte della figlia. La storia di Cimone e Pero, tratta da Valerio Massimo, è indicate come sommo esempio di pietà figliale, ma anche straordinaria prova della superiorità della pittura, capace di illustrare l’invisibile e muovere i sensi nell’emozione.
Più e più volte ripresa dai fiamminghi, la scena ha molteplici sensi: qui è legata alla consolazione, al soccorso, all’estremo - e inaudito - atto d’amore. Ampi gli spazi della stanza armoniosamente costruita: su un tappeto turco di tipo Ushak, fedelmente descritto, una brocca smaltata color del latte, un modello di Faenza poi riprodotto con gran successo dai ceramisti olandesi.
Vermeer ha organizzato con cura sublime i rinvii fra gli oggetti di scena: ha indicato la posizione agli attori, fissato i costumi e definite le luci del suo set in una prospettiva lineare, creando un’illusione di profondità ove le ortogonali convergono ovviamente sulla figura femminile, sempre centrale.
Ha usato la sua tecnica abituale, semplicissima, tipica dei frescanti e quadratisti: in radiografia si nota un piccolo foro che coincide esattamente con il punto di fuga. In questo foro era inserito uno spillo, fissato a un pannello di legno, temporaneamente posto sul retro della tela, cui era attaccata una stringa.
Sfregando il gesso sulla corda, il pittore poteva tirarlo e con uno scatto produrre un’ortogonale perfettamente dritta alla superficie dell’imprimitura. Poi lavorava sulle ombre, anche alterate per soddisfare gli obiettivi compositivi: l’ombra proiettata dalla finestra sul pavimento di piastrelle svolge un ruolo essenziale nel legare il lato destro della composizione, con il suo accumulo di oggetti, e il vuoto a sinistra. Ancora: moltiplica l’ombra del doppio specchio con la cornice d’ebano; quella esterna è ad angolo acuto, è la luce incidente che entra dalla finestra più vicina alla parete di fondo, che poi è parzialmente indebolita, per cui l’ombra appare doppia, giacché la luce dalla finestra centrale si proietta su una parte dell’ombra originale.
Lo stesso fenomeno appare dalla destra del coperchio del virginale. Nello specchio inclinato il viso della ragazza, leggermente chinato, non è solo: un riflesso di piastrelle, una parte del tappeto ma poi anche una gamba e la traversa di cavalletto del pittore che entra nello schema narrativo. La sua presenza è la medesima di van Eyck nei Coniugi Arnolfini: io stesso sono testimone della mia creazione e mi specchio in essa. Allo spettatore che osserva il compito di decriptare la verità.
In nessun altro pittore troviamo un simile gusto per la geometria: Arthur Wheelock ha scritto che in quest’opera Vermeer ha calcolato i suoi elementi compositivi in modo altrettanto attento, indipendente e centrale quanto un Piet Mondrian. E molti hanno rinviato al contemporaneo Baruch Spinoza: Ethica ordine geometrico demonstrata.
La lezione di musica così concettuale, così equilibrata fra geometria, musica e ombre è altrettanto logica e necessaria, e dunque etica. (M.@rt)
°°°
Nicol Degli Innocenti
Vermeer e i maestri del quotidiano
Il Sole 24ore, 14 gennaio 2016
... La mostra ha un solo quadro di Vermeer, ma è uno dei più misteriosi dell'enigmatico pittore: “La lezione di musica”, che mostra una donna di spalle di fronte a un virginale, sul quale è scritta la frase in latino “la musica è compagna del piacere, rimedio del dolore”. L'uomo in piedi accanto allo strumento, con la bocca aperta, potrebbe essere un maestro di musica, o un amante. Il significato è dubbio, ma l'atmosfera è ammaliante.
La musica è un tema ricorrente che interessa poveri e ricchi, e strumenti diversi compaiono negli eleganti salotti dei ricchi e nelle taverne dei contadini. I quadri mostrano interni opulenti come il salotto di Vermeer con i suoi marmi e i suoi tappeti, ma anche interni poveri, come la spoglia e sporca casa di contadini di Adriaen Van Ostade. Tutti hanno in comune una meticolosa attenzione ai dettagli: dalla torta appena sfornata alle trecce di cipolle appese in cucina, dal ricamo su un cuscino di seta al pizzo di un colletto. Ogni oggetto, umile o prezioso, è dipinto con la stessa precisione.
Masters of the Everyday: Dutch Artists in the Age of Vermeer
Fino al 14 febbraio 2016
Queen's Gallery, Londra
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Vermeer
giovedì 22 settembre 2016
Il no alle Olimpiadi
Sergio Rizzo
Il paradosso della scelta sui Giochi
Corriere della Sera, 22 settembre 2016
Virginia Raggi rivendica di non aver cambiato idea. E per certi aspetti è vero. «Ritengo che sia criminale iniziare a parlare di Olimpiade quando Roma muore affogata di traffico e di buche», dice il 30 maggio a Piazza Pulita . Salvo poi precisare il giorno dopo: «Criminale è snobbare i problemi reali dei romani pensando solo alle grandi opere. Non mi riferivo ovviamente all’Olimpiade, di fronte alla quale non c’è alcun pregiudizio da parte del Movimento 5 Stelle». Finché la formula, una volta eletta sindaca, pian piano diventa: «L’Olimpiade non è una priorità». La certifica il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, in attesa che dal blog di Beppe Grillo arrivi la sospirata scomunica ufficiale. Tutti ricordiamo che quattro anni fa il premier Mario Monti si assunse la responsabilità di dire «No» alla candidatura della capitale d’Italia per i giochi del 2020. Allora era un presidente del Consiglio, oggi a decidere è un privato cittadino garante di un movimento politico. Ma la morale è sempre la stessa: la città di Roma non decide mai, né in un senso, né in quello opposto. Non decide la sua classe dirigente, perché non c’è o è troppo debole. Quello che è accaduto ieri è la conferma che il problema va ben oltre il tenue steccato dei partiti. E non risparmia il Movimento 5 Stelle. Rispetto ai Giochi olimpici Roma è ridotta così male da avere altre priorità: concordiamo.
M a continuiamo a credere che abbia ragione l’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini al quale è toccato, in questo frangente, vestire i panni del grillo parlante. Per una forza politica che si candida a governare il Paese per cambiare tutto, questa è un’occasione persa.
L’Olimpiade avrebbe potuto essere una prova di estrema maturità. La dimostrazione che gli appalti pubblici si possono fare anche senza corrompere e rubare, che le infrastrutture si possono realizzare senza sprechi inutili, che organizzare un grande evento non necessariamente equivale a inondare di cemento inutile la città e arricchire gli speculatori, che il disperato bisogno di normalità di questo Paese può finalmente tradursi in realtà, che Mafia Capitale è morta e sepolta. Avrebbero potuto alzare l’asticella fino all’inverosimile: pretendere altri responsabili dell’organizzazione, imporre procedure di trasparenza estrema, rivendicare controlli esasperati. Hanno scelto di non mettersi in gioco. La scelta più facile, in questo momento.
Ma anche la più politicamente redditizia. L’unica accettabile, per il loro Dna. Basta fare un giro sulla Rete per constatare che la maggioranza degli internauti, serbatoio del consenso grillino, manifesta entusiasmo per il «No». Nonostante i malumori di qualcuno, la mossa è di sicuro servita a rinserrare i ranghi del Movimento, rendendo più solido il nocciolo duro intorno a Beppe Grillo in una fase nella quale il caso romano aveva seminato disorientamento perfino nei vari direttori. Quel «No» potrà sempre servire come scudo difensivo contro ogni attacco dei soliti poteri forti ai Cinque stelle, sul fronte romano e su quello nazionale: «Se la prendono con noi perché abbiamo detto No all’Olimpiade…». Senza poter escludere che tale ricaduta sia ancora più importante della decisione sul merito. A chi interessa l’Olimpiade? E poi, fra otto anni Dio vede e provvede… Ecco perché non avrebbero mai detto «Sì». Quel «Sì» avrebbe significato accettare discussioni, mediazioni, intese. Impossibile solo da immaginare.
Ed è anche la ragione per cui questa storia, oltre a non aver dissipato la sensazione di estrema fragilità della classe dirigente al governo di Roma, ha messo pure in discussione alcune regole basilari cui si è sempre ispirato il Movimento. Come la democrazia diretta. La proposta del segretario dei radicali italiani Riccardo Magi di far decidere ai cittadini con un referendum è stata liquidata sbrigativamente. Né abbiamo assistito a consultazioni «Olimpiarie» online degli aderenti, o alle famose dirette streaming. Qualcuno ha capito com’è stata presa la decisione? Certo non dal Consiglio, e nemmeno dalla Giunta comunale. Chi era a favore, o contrario? Se utile alla propaganda, lo streaming è un dogma usato anche come manganello; diventa un optional quando può essere fonte di imbarazzo. Funziona sempre. Ma dov’è la differenza con gli altri, a questo punto ce lo dovrebbero spiegare.
mercoledì 21 settembre 2016
Non a caso
Un colpo di dadi non abolirà mai il caso
Stéphane Mallarmé
“Sarà un caso?”: una delle domande retoriche più sciocche del lessico pubblico contemporaneo, prediletta da chi vuole immaginarsi padrone dell’ordito occulto che governa le cose umane. Un interrogativo che presuppone una complicità ammiccante con l’ipotetico destinatario e una risposta obbligata: “No certo, non può essere solo un caso”. E un grappolo di locuzioni contigue e altrettanto odiose: “non a caso”, “non può essere un caso” (sentita anche nella versione più fanatica: “mi rifiuto di credere che sia solo una coincidenza”). Il caso infatti è psicologicamente oneroso e inaccettabile. Non appaga il bisogno di trovare una trama e un colpevole, o almeno un responsabile. E’ l’ossessione del mondo disertato dagli dèi che non può rassegnarsi all’insignificanza. L’abuso di “sarà un caso?” vede il mondo pericolosamente affollato di coincidenze sospette. Invece la coincidenza esiste, è una probabilità statistica come le combinazioni dei dadi. “Sarà un caso che sia uscito proprio quel numero?”: certo che sì. Più rassicurante immaginare la realtà come il frutto di un’intenzione coerente, come accade nel complottismo, versione degradata della credenza in un disegno provvidenziale. (Pier Luigi Battista, La fine del giorno, Milano, Rizzoli 2013; frase in epigrafe aggiunta)
martedì 20 settembre 2016
Giuliano Pisapia sul referendum
intervista di Giovanna Casadio, La Repubblica, 18 settembre 2016
"Non ci sto allo scontro tra guelfi e ghibellini sul referendum costituzionale. Questa riforma non è pericolosa e l'ha chiesta il Parlamento". Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano e leader di riferimento di un'ampia area a sinistra del Pd, invita alla ragionevolezza. "Non sono iscritto al fronte del No, per ora non mi esprimo, ma sto facendo un giro dell'Italia per invitare a confronti nel merito, sui vantaggi e gli svantaggi. Molto dipenderà se ci sarà la modifica dell'Italicum e dall'impegno a rendere più snelli alcuni punti di questa riforma della Carta".
Pisapia, a sinistra lo scontro sul referendum costituzionale è senza esclusione di colpi.
"E io lo vivo molto male e con grande disagio. Mi sembra una guerra fratricida che può portare solo danni enormi a tutti. Il Pd diviso, i sindacati su posizioni opposte, il centrosinistra con posizioni diverse, parte della sinistra contro il Pd, l'Anpi che ha preso una posizione ufficiale ma singoli partigiani che si esprimono in dissenso... Sono un sostenitore accanito del valore dell'unità del centrosinistra perché sono consapevole - e lo dimostra la storia - che il centrosinistra vince solo se è unito. Ci si può dividere su singole scelte, ma bisogna avere lo sguardo lungo. E invece mi sembra di assistere, tra persone che hanno la stessa storia e gli stessi valori, a una continua e disastrosa polemica con grande gioia della destra e dei suoi compari".
Una guerra da evitare in ogni modo: è stato l'appello del presidente Napolitano.
"Di una cosa sono convinto: comunque vada a finire, non è in gioco la democrazia. Del resto sia i costituzionalisti del No che quelli del Sì, lo riconoscono. I pericoli sono altri, non l'esito del referendum. Non si può dimenticare che è stato il Parlamento a chiedere una riforma che semplificasse il sistema e che garantisse una maggiore governabilità, dando migliori opportunità al Parlamento e non certo al governo o al suo presidente. Questa riforma non aumenta i poteri del presidente del Consiglio e rafforza il ricorso a leggi di iniziativa popolare. E voglio ricordare che, quando ha dichiarato incostituzionale il Porcellum, la Consulta ha detto espressamente che sono obiettivi di rilievo costituzionale anche la stabilità del governo del Paese e l'efficienza dei processi parlamentari ".
Lei quindi potrebbe votare Sì al referendum?
"Vede, la situazione che si è creata mi rende difficile dare oggi una risposta. Ci sono i guelfi e i ghibellini, non c'è spazio per la ragionevolezza. E io credo fortemente in una politica ragionevole. Penso ad esempio che la legge elettorale, che si incrocia con le modifiche costituzionali, vada migliorata perché c'è il rischio che diventi maggioranza in Parlamento chi non ha la maggioranza degli elettori e questo altera il risultato della volontà popolare".
Una modifica dell'Italicum fa la differenza?
"Certo che può fare la differenza, così come sarà importante sapere chi boicotterà quella modifica auspicata da tanti".
La vittoria del No destabilizza il paese, sostengono cancellerie straniere.
"Che ci sia bisogno di riforme è opinione largamente condivisa. Così come mi sembra che tutti - anche in Italia, ed è quello che mi interessa - siano d'accordo nel ritenere che quello di avere governi stabili è un bisogno reale".
Se vince il No Renzi si dovrà dimettere?
"Dal punto di vista costituzionale direi proprio di no. Poi ci sono le scelte politiche e personali. Non essendo parlamentare e non essendo iscritto al Pd credo che ogni decisione spetti a lui in un confronto col suo partito e la sua maggioranza. E non sarà una scelta facile anche perché lo Statuto del Pd prevede la coincidenza dei due ruoli, scelta che non mi ha mai convinto".
Alle elezioni per Milano ha appoggiato come suo successore Giuseppe Sala nonostante i molti mal di pancia della sinistra, del "suo" movimento arancione. Crede sempre al progetto del centrosinistra unito?
"Sempre di più. E le assicuro che nessuno, nemmeno i malpancisti, avrebbe preferito che a governare Milano arrivassero i 5 Stelle oppure un centrodestra egemonizzato dalla Lega".
Come vede da ex sindaco, la difficoltà in cui si dibatte Virginia Raggi a Roma?
""Onestà, onestà" è un prerequisito, non un programma elettorale. Sbraitare è facile, il difficile arriva quando si passa a governare. Certo, è grave che tutto il bailamme nel quale si dibatte l'amministrazione capitolina sia scoppiato nella scelta di assessori e di collaboratori della sindaca, prima ancora che si cominciasse a mettere mano ai problemi e cercare di risolverli. E allora credo sia legittimo chiedersi come farà questa compagnia a entrare davvero nel merito di questioni enormi e davvero complesse che - è giusto ricordarlo - l'attuale amministrazione ha ereditato".
lunedì 19 settembre 2016
Islam radicale?
Roberto Casati
Islam non radicale ma distorto
Il Sole 24ore, domenica 18 settembre 2016
I media presentano i fatti di terrorismo legati all’ISIS attribuendoli all’“Islam radicale”. I governi europei, quello francese in primis, hanno intrapreso campagne di “de-radicalizzazione”, per contrastare, per l’appunto, una pretesa “radicalizzazione”. Esistono delle scale di “radicalità” che le forze di polizia usano per misurare la pericolosità dei sospetti e dei sorvegliati speciali. Il discorso sembra identificare radicalità con estremismo politico e con comportamenti violenti e aberranti. Ma ci sono delle buone ragioni per evitare questo modo di esprimersi. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha più volte ribadito che si rifiuta di usare il termine “Islam radicale” in relazione a fatti di terrorismo; ha risposto in modo assai articolato a chi gli rimprovera di non usarlo, e invitato i suoi detrattori ad astenersi al loro volta da quello che egli considera come un vero e proprio gettare benzina sul fuoco che favorirà gli interessi dell’ISIS. Molte forze progressiste in Europa si sono pronunciate conto l’amalgama tra Islam e terrorismo. Mi sembra che gli argomenti invocati siano sostanzialmente corretti: il fantasma dell’ISIS è di creare una specie di chiamata alle armi di tutti i mussulmani contro un altrettanto fantomatico Occidente, e non può che venir aiutato dall’identificazione della religione islamica con le manifestazioni estreme violente di una piccola minoranza; un processo che sarà sempre e comunque marginale, limitato al reclutamento di alcune teste calde che se pur potranno fare danni spettacolari e infliggere dolore estremo a ripetizione, non cambieranno sostanzialmente gli assetti sociali e politici.
La correttezza di queste analisi non ci dispensa dal riflettere alle parole che usiamo. “Radicale” ci porta alle radici, e parlare di “Islam radicale” significa sostanzialmente far passare il messaggio che le posizioni dei simpatizzanti dell’ISIS assurgano a una forma di purezza, di ritorno alle origini, di ritrovamento di un ipotetico vero Islam. Non sorprende che il termine “radicale” possa piacere sia ai simpatizzanti dell’ISIS sia agli islamofobi; sempre pronti, questi ultimi, a cercare conferme dei loro pregiudizi; attratti dall’amalgama ulteriore tra “arabo” e “mussulmano”, è musica per le loro orecchie la lista dei cognomi degli attentatori degli ultimi mesi in Europa. E anche alcuni commentatori non certo in odore di anti-progressismo pensano che il termine “Islam moderato” sia un vero e proprio ossimoro. La stampa (occidentale!) ci mette del suo quando chiama gli attentatori addirittura “martiri” e le loro vittime “crociati” o “infedeli”, senza nessuna presa di distanza.
Qualcuno penserà che sia tardi per frenare la diffusione dell’aggettivo “radicale”, ma vale sempre la pena di fare un tentativo. Ecco alcune proposte avanzate in varie sedi. Obama parla di “twisted Islam”; di contorsione, di distorsione quindi. Non ci sarebbero un Islam moderato e un Islam radicale; c’è invece da un lato l’Islam (con le sue molte facce, certo) e contrapposto ad esso un pensiero distorto. Alcuni media francesi parlano di “fanatizzazione” e non di radicalizzazione. Altra possibilità: quello dell’ISIS è un Islam confuso, e certo le azioni dei terroristi in Francia negli ultimi mesi fanno pensare a notevoli forme di confusione, si badi: non soltanto umana o psicologica quanto intellettuale o politica. Si può anche più semplicemente dichiarare che quello dell’ISIS non è nemmeno Islam (come ha fatto il Fiqh Council of North America), o addirittura anti-Islam (come ha fatto la East London Mosque, una delle principali moschee britanniche). Quale che sia l’opzione scelta, resta che i termini “Islam radicale” e “radicalizzazione” sono veramente infelici e meriterebbero uno sforzo che li bandisse dal discorso pubblico.
domenica 18 settembre 2016
Recalcati e l'elogio del fallimento
Da psicanalista rilessivo a tuttologo scatenato il passo non è così lungo come potrebbe sembrare. Tu sei uno psicanalista giovane con una formazione filosofica alla spalle. Sai parlare in modo persuasivo e accattivante. Ami apparire in pubblico. Hai qualcosa da dire, per questo ti trascini dietro folle innumerevoli di ascoltatori rapiti dal tuo verbo. Ed ecco che ti immedesimi nel ruolo. Diventi una sorta di consolatore universale. Hai considerato a lungo il tema del fallimento. Hai scritto un libro su questo. Adesso ti chiamano a un festival di filosofia. Tieni a Carpi una lezione in cui tracci l'elogio del fallimento (hai già scritto un articolo in proposito, anni fa). Ti intervistano, ti chiedono di riassumere il tuo pensiero. Viene fuori che il fallimento è una buona cosa, guai a farne a meno. Chissà se un fallito di quelli veri in cuor suo la pensa così. E forse questo non è neppure il tuo pensiero. No, il fallimento non è una buona cosa, dipende. Diventa una buona cosa se sappiamo reagire ad esso. Massimo Recalcati si avvia a diventare un banale clone del tuttologo Crepet? Speriamo di no. Andiamo intanto a vedere cosa può avere realmente scritto e detto, prima dell'esplosione mediatica, sul fallimento il nostro psicanalista filosofo. (Giovanni Carpinelli)
Elogio del fallimento
La psicoanalisi non tesse affatto l’elogio della prestazione. Il lavoro dell’analisi è antagonista al narcisismo dell’apparizione, a quel successo dell’io che abbaglia e cattura i giovani di oggi. L’esperienza dell’analisi punta piuttosto a scorticare l’involucro narcisistico dell’immagine per porre il soggetto di fronte alla verità del proprio desiderio. Tutto nell’esperienza analitica mira a ridurre i falsi prestigi dell’io, come si esprimeva Lacan. La psicoanalisi non sostiene il culto ipermoderno della prestazione, ma tesse l’elogio del fallimento. Essa raccoglie i resti, i residui, le vite di scarto; lavora sulle cause e sulle vite perse. Per fare lo psicoanalista bisogna amare le cause perse… Ma cosa significa tessere un elogio del fallimento? Il fallimento non è solo insuccesso, sconfitta, sbandamento. O meglio, è tutto questo: insuccesso, sconfitta e sbandamento, ma è anche il suo rovescio. Il fallimento, secondo Lacan, è proprio del funzionamento dell’inconscio. La sua definizione di atto mancato è tutta un programma: un atto mancato è il solo atto riuscito possibile. Perché? Perché è un atto mancato per l’io, ma è riuscito per il soggetto dell’inconscio. Lo stesso accade in una sbadataggine o in un lapsus. Il fallimento è uno zoppicamento salutare dell’efficienza della prestazione. E, in questo senso, la giovinezza è il tempo del fallimento o, meglio, è il tempo dove il fallimento dovrebbe essere consentito. È quel tempo che esige il tempo del fallimento, dell’errore, dell’erranza, della perdita, della sconfitta, del ripensamento, del dubbio, dell’indecisione, delle decisioni sbagliate, degli entusiasmi che si dissolvono e si convertono in delusioni… del tradimento e dell’innamoramento…
http://www.minimaetmoralia.it/wp/la-formazione-passa-per-la-via-del-fallimento/
WM: Professor Recalcati, quali sono i malesseri tipici del nostro tempo e perché i giovani d'oggi sono così infelici e tormentati?
MR: I malesseri sono
vari e sono diffusi epidemicamente: abuso di sostanze, anoressie,
bulimie, obesità, attacchi di panico, depressioni, dipendenze
patologiche di vario genere, violenza. Ma sotto queste maschere
sintomatiche i giovani d'oggi – non tutti i giovani d'oggi ma i giovani
che stanno male – sembrano afflitti dalla difficoltà di accedere
all'esperienza del desiderio. Sono soggetti senza desiderio.
WM: Soddisfacimento, godimento e desiderio: quale connotazione assumono nel contesto odierno?
MR: Nel nostro tempo
domina il godimento compulsivo, la ricerca affannosa della nuova
sensazione, del nuovo oggetto. Ma questa ricerca riproduce sempre la
stessa insoddisfazione. Il godimento che oggi appare come un vero e
proprio dio cannibale al quale i giovani sacrificano le loro vite non
procura alcuna soddisfazione. La ricerca del nuovo, della nuova
sensazione, si esaurisce nella ripetizione della stessa insoddisfazione.
WM: La frase sempre più comune tra i giovani "vivo alla giornata", secondo lei ha ragione di esistere?
MR: Progettare la vita
significa differire il godimento immediato, canalizzarlo – appunto – in
un progetto. Ed ogni progetto implica anche l'esperienza del limite,
dello sforzo, della costanza, dell'impegno. Rinnovare la fedeltà nei
confronti della propria aspirazione, della propria vocazione, del
proprio desiderio: questo comporta una assunzione di responsabilità
rischiosa e difficile. Vivere alla giornata solleva da quella
assunzione, ma la sua offerta di felicità è illusoria ed effimera.
WM: Anoressia e bulimia: malattie del corpo o malattie sociali?
MR: Sono malattie che
investono il corpo e che lo conducono sul baratro della morte. Nel campo
della salute mentale non esistono malattie mortali come sono anoressie e
bulimie. E tuttavia questo corpo che rende schiavi – schiavi della sua
fame o della sua immagine estetica – è anche un corpo esaltato dalla
nostra cultura. I due miti che reggono la nostra industria culturale
sono gli stessi che agiscono come miti guida nell'anoressia-bulimia. Il
primo è il mito del consumo, il mito che esiste un oggetto capace di
risolvere il dolore di esistere, il mito di un consumo fine a se stesso,
di un consumo di consumo che trova la sua esplicitazione più drammatica
nell'abbuffata bulimica: mangiare tutto senza mai raggiungere il senso
della sazietà. Il secondo è il mito dell'immagine estetica del corpo.
Avere un corpo magro significa per una donna assimilarsi al corpo alla
moda, avere la giusta divisa, essere assimilata all'ordine di ciò che
deve essere una donna. Questi due miti ci introducono a forme
paradossali di schiavitù dove nel massimo di una falsa libertà il
soggetto si scopre prigioniero del cibo o della sua stessa immagine.
WM: Se dovesse dare
un consiglio ai genitori di un adolescente in merito a regole, cattiva
condotta e trasgressione, cosa direbbe loro?
MR: Quello che fa bene
ai giovani non è voler fare il loro Bene. Anche perché quando qualcuno
vuole fare il bene di qualcun'altro non c'è, solitamente, più limite al
male. Quello che i genitori possono fare è offrire ai loro figli una
testimonianza di come si può unire il desiderio al senso del limite.
Desiderare non significa semplicemente praticare una libertà senza
vincoli; desiderare significa fare del proprio desiderio una vocazione,
un impegno, una possibilità che non esclude il senso del limite ma lo
implica profondamente.
https://www.wellme.it/approfondimenti/interviste-recensioni/4152-elogio-del-fallimento
il libro: Massimo Recalcati, Elogio del fallimento. Conversazioni su anoressie e disagio della giovinezza, Edizioni Erickson 2011.
sabato 17 settembre 2016
Hopper a Cape Cod
Nel
corso dei decenni, mentre il suo lavoro continuava a svilupparsi,
Hopper è tornato ogni anno a questa semplicità: vecchie case di
legno in un paesaggio aperto di spiaggia, brughiera e bosco. (Gregory Dicum, New York Times, 10 agosto 2008)
http://www.nytimes.com/2008/08/10/travel/10cultured.html?_r=0
http://www.minimaetmoralia.it/wp/il-mito-di-cape-cod/
Hopper, Edward. -
Pittore statunitense (Nyack, New York, 1882 - ivi 1967). Studiò a New York ed esordì come
illustratore. Fu a Parigi nel 1906 e nel 1909. Indifferente a ogni
tendenza d'avanguardia, da allora andò maturando uno stile
inconfondibile, trattando gli aspetti della vita e del paesaggio
americano, fissati in atmosfere immote e solitarie, con realismo
accentuato. (Treccani)
Corn Hill |
ottobre |
tramonto |
sera |
mattino |
pomeriggio |
giovedì 15 settembre 2016
Per Tiziana Capone
Annalena Benini, La
ferocia di una gogna che trasforma una ragazza in un niente a
disposizione di tutti, Il Foglio, 15 settembre 2016
Tiziana era sola contro un mondo intero, reale e virtuale, che cliccava sulla sua faccia e rideva, si eccitava, si annoiava, se ne fregava, ma sempre pensando di averne diritto. Perché appena lei ha affidato quel video agli amici, ha smesso di esistere, ha smesso di essere una persona, è diventata una foto, un frame, un nulla a disposizione di tutti.
http://m.iltirreno.gelocal.it/italia-mondo/2016/09/15/news/il-suicidio-di-tiziana-il-sociologo-del-web-gli-unici-anticorpi-della-rete-siamo-noi-1.14100521?id=2.3521&fsp=2.3422&refresh_ce
http://www.lastampa.it/2016/09/15/italia/cronache/lallarme-del-garante-per-la-privacy-ammettiamolo-la-tutela-impossibile-pIs9hHBhoEAEIoHpd2peRN/pagina.html
mercoledì 14 settembre 2016
Cosa ha fatto De Luca
Si è data troppa importanza a ciò che De Luca ha detto. Più importante è ciò che ha fatto: ha tentato di spezzare un incantesimo. Ci ha provato e ha trovato ascolto: tutto questo non era scontato, qualche tempo fa sarebbe stato inconcepibile. Lasciamo stare ora la distinzione tra partito e movimento. Lasciamo stare anche la pretesa di rappresentare l'antipolitica. I Cinque stelle non hanno un gruppo dirigente all'altezza del compito. Anche Carlo Freccero ne ha preso atto, decidendo di puntare su Chiara Appendino. (Giovanni Carpinelli)
Che gente, questi dei Cinque stelle! Per anni hanno coperto di insulti, infamie e letame tutti quelli che capitavano a tiro, e adesso di fronte all'ironia di un genio partenopeo come De Luca fanno le educande offese... (Massimo Rostagno)
Vincenzo De Luca senza freni. Paragona il M5s a una «scorfana» di cui gli elettori si sono innamorati credendola una «principessa». E attacca il trio Di Maio, Fico, Di Battista definendoli «galli cedroni» «falsi come Giuda», «che vi possano ammazzare tutti quanti». Il governatore della Campania, intervistato dal Fatto Quotidiano Tv, è andato a ruota libera sul Movimento cinque stelle. Con metafore e affondi che hanno suscitato il divertimento dei suoi difensori e l'indignazione di tutti gli altri.
GLI AVVISI DI GARANZIA DEGLI ALTRI? CONDANNE A MORTE. Prima gli elettori, è il ragionamento del politico di Salerno, non vedevano niente. «Gli psicologi, quando si riferiscono all’innamoramento, parlano di anestesia percettiva: quando ti innamori, non vedi più niente, c'è una nuvola che ti avvolge, non vedi più la realtà. Una scorfana ti pare una principessa: magari non vedi neanche i suoi pelacci, i suoi baffi, le sue varici. Questo vale ovviamente anche per gli uomini, non vorrei che l’associazione 'Amici delle bambole' mi accusasse di sessismo».
De Luca ha ricordato il giustizialismo a targhe alterne dei grillini: «Vi ricordate quando facevano i balletti in mezzo alle strade: 'Onestà, onestà, giustizia'». «Vi ricordate quante persone sono state offese ingiuriate per un avviso di garanzia?» «Quelli degli altri sono condanne a morte, quelli propri vanno valutati nel merito», ha attaccato il presidente della Campania, rivolgendosi a Virginia Raggi: «Quando riempivate di vaffa il mondo intero, non le dovevate leggere le carte?»
«FALSI COME GIUDA, CHE VI POSSANO AMMAZZARE». Ma il passaggio più forte, un affondo violentissimo, è quello sui membri del direttorio: «Abbiamo visto emergere un trio, già li avevamo visti nella vicenda di Quarto, li avevamo visti appollaiati, il Di Battista, il Di Maio e il Fico, ecco oggi si rivelano all'Italia nelle vesti proprie: Giggino il chierichetto, Fico il moscio ovviamente, e l'emergente Di Battista detto Dibba, il gallo cedrone, ora ognuno ha trovato il suo ruolo in commedia».
«L'Italia dovrebbe essere diretta da questi signori», ha proseguito De Luca, secondo il quale la sola cosa che hanno in comune è «che sono delle mezze pippe», perché ha ricordato De Luca, quando si sono presentati alle elezioni con la loro faccia hanno perso o raccolto poche decine di voti. «Sono tre miracolati che hanno sfruttato o l'onda grillina. Sono falsi come Giuda, ognuno vorrebbe accoltellare alla schiena l'altro, però in pubblico baci e abbracci... che vi possano ammazzare tutti quanti», è arrivato a dire, «La maggior parte di quelli che votano Cinquestelle, certo non votano per voi».
Un attacco che già ha diviso i giudizi sull'esponente del Partito democratico, noto per il suo uso e soprattutto abuso del linguaggio.
Lettera 43, 10 settembre 2016
domenica 11 settembre 2016
L'11 settembre del Cile. Giravolte della memoria
Claudio Vercelli
Mah, che dire, al di là dei ricordi in parte oramai sbiaditi, comunque ingialliti benché non per questo cancellati? Ricordi, nel caso mio, traslati dal tempo anche se all'epoca ero già nato. La vicenda cilena fu molto vissuta, nel mentre si consumava il golpe ma anche negli anni successivi. Poiché da subito, oltre a dare il segno brutale della disintegrazione di un sogno tanto intenso quanto illusorio - quello di una rivoluzione "democratica", quasi azionista, se dovessimo usare i nostri paradigmi culturali e politici, dove la parte "buona" della borghesia, quella cosciente e "riflessiva", di cui Allende si era candidato ad essere la punta di diamante, traghetta una collettività verso "equilibri più avanzati" - comunicò all'opinione pubblica internazionale che il tradimento poteva rivelarsi consustanziale ad una democrazia. Il bacio di Giuda nella versione contemporanea, in altre parole. L'orrore per figure come Pinochet derivava non solo dal riscontro di ciò che stavano facendo, e avrebbero continuato a fare pressoché indisturbati, ma anche dalla consapevolezza che per potere tradire avevano dovuto e voluto giurare fedeltà ad un assetto istituzionale del quale erano parte a pieno titolo. Si sa che nel novero dell'alta ufficialità cilena, spaccata al suo interno, Pinochet era considerato un "lealista", risolvendosi a partecipare al golpe solo in prossimità di esso, più per paura di essere scavalcato dai suoi pari che non per una profonda convinzione sulla sua necessità politica in quel preciso momento. Non di meno, i golpisti si mossero quando una parte della Democrazia cristiana cilena diede il suo assenso, condizionato al fatto che non si trasformasse in un redde rationem. Le cose seguirono poi il loro corso, che fu dettato da una miscela di feroce rivalsa sociale (quella di una parte della borghesia che intendeva impedire qualsiasi processo redistributivo), di repressione belluina, con la distruzione di qualsiasi forma di dialettica politica e di creazione di un nuovo ceto medio - il vero, grande risultato dei golpisti, in ciò imbeccati dai Chicago Boys - che costituì la chiave del duraturo successo del regime pinochettista, declinato solo con la fine degli anni Ottanta, nel periodo delle "grandi transizioni". In Italia, allora, ne temevamo qualcosa, se si pensa anche solo alla traiettoria razionalmente delirante di un personaggio come Feltrinelli, alla paura che lo accompagnava del pari ad un'ombra, al timore che serpeggiava in molti "ambienti" rispetto alla ripetibilità della soluzione greca e così via. Le bombe e la strategia della tensione stavano lì a dimostrare non tanto la materiale praticabilità di una deriva golpista quanto la capacità di condizionamento che il fantasma di essa, ossia il solo evocarla, esercitava sulle forze politiche e sulle organizzazioni collettive democratiche. Queste dinamiche, insieme alle scelte scellerate delle Amministrazioni statunitensi nel "cortile di casa", che nel decennio successivo si sarebbero ripetute nel Centro America, con il brutale ridimensionamento della presenza politica e civile delle componenti amerindie (penso in particolare al Salvador e al Guatemala), non ci hanno permesso di formulare un giudizio definitivo sul "radicalismo" (più che sul socialismo) di Allende e dei suoi uomini. Ovvero, il Cile di Allende, trasformato poi in un vero e proprio laboratorio del neoliberalismo mercatista, dal quale presero esempio Thatcher e Reagan, continua ad esser ricordato essenzialmente come istanza affettiva e riscontro emotivo. Un bel film statunitense, di nove anni dopo il golpe, "Missing", fotografa e racchiude questo approccio, risolvendolo in un senso di sconsolata malinconia: quella per il figlio scomparso poiché assassinato, quella per la fine di un esperimento che si sarebbe rivisto, fatte le debite proporzioni e le molteplici differenze, come copia populista con il Venezuela di Chavez, quella per una democrazia menzognera nell'incarnato di alcune Amministrazioni di Washington (la prece di Billy Carter fu solo parentesi, non risarcimento). Della visionarietà dell'allendismo ma anche dei suoi molti limiti - hanno parlato a loro tempo, tra gli altri, Regis Debray, così come sagaci considerazioni dal vivo erano quelle che Alain Touraine consegnò quasi nel mentre - poco si continua a sapere. Così come un personaggio ricco di ispirazione ma anche politicamente contraddittorio quale fu Salvador Allende Gossens, animato da un interiore furore prometeico, abile nel tessere rapporti ma debole sul piano delle alleanze strategiche, uomo politico di lungo corso ma comunque di minoranza, quindi destinato ad essere in qualche modo emarginato se non spodestato, rimane l'immagine del martire. Qualche idiota per questo forse arriva a contrapporre il 1973 al 2001. E' tutto dire.
Michelle Bachelet saluta la presidente de Senato, Isabel Allende (2014) |
sabato 10 settembre 2016
Casanova e il pudore sabaudo
«La città mi piacque, e vi trovai tutto bello; la corte, il teatro e le donne, a principiar dalla duchessa di Savoia, ma non potei fare a meno di sorridere, quando se ne vantò l’eccellenza, dei servizi di polizia. Siccome la città è piccola e molto popolata, vi sono spie dappertutto. Quindi per potervi godere una certa libertà, si devono usare grandissime precauzioni, ricorrendo a mezzane molto abili, che si fanno pagar bene perché rischiano di essere barbaramente punite se vengono scoperte. Non sono tollerate né le donne pubbliche, né le mantenute, e ciò fa molto comodo alle maritate, come l’ ignorante polizia avrebbe potuto prevedere». è ovvio che, trattandosi di Casanova, la sua principale attenzione fosse concentrata sopra tutto il sesso femminino. Ma se le grazie della duchessa di Savoia, ossia di Maria Antonia Ferdinanda di Borbone, erano blindate a partire da quel nome inibente ogni intimità, l’intraprendente gaudente ripiegò su più facili bocconi, come la figlia della sua lavandaia. Ma Torino è sempre Torino anche con gli amori ancillari, costringendo addirittura il casanova per antonomasia ad andare in bianco. «Stizzito di veder respinte tutte le mie lusinghe, mi nascosi in fondo a una scala segreta dov’ ella soleva passare, deciso di riuscire nel mio intento anche a costo di adoperare un poco di violenza. L’ assalii di sorpresa e ci ritrovammo presto lei nella positura più adatta ed io in piena azione. Ma il nostro congiungimento era appena iniziato che un’esplosione non debole invero rallentò alquanto il mio ardore, molto più che la giovinetta si coverse il viso con le mani quasi per nascondere la vergogna di ciò che le era sfuggito». Insomma ad ogni assalto del libertino infoiato corrispondeva una deflagrazione della pudìca sabauda, che difendeva visceralmente la sua virtù. (A. Cipolla, la Repubblica 4 febbraio 2005)
Aucun penchant amoureux n’altéra à Turin la paix de mon âme, si ce n’est la fille de la blanchisseuse, avec laquelle il m’est arrivé un accident que je n’écris que parce qu’il m’a donné une instruction en physique.
Après avoir fait tout mon possible pour avoir un entretien avec cette fille chez moi, chez elle, ou ailleurs, et n’y être pas réussi, je me suis déterminé à l’avoir en usant d’un peu de violence au bas de l’escalier dérobé qu’elle descendait ordinairement en sortant de chez moi. Je me suis caché au bas, et lorsque je l’ai vue à ma portée, je suis sauté sur elle, et en partie par la douceur, et en partie par l’action vive je l’ai subjuguée sur les dernières marches ; mais à la première secousse de l’union, un son fort extraordinaire sortant de l’endroit voisin de celui que j’occupais ralentit un moment ma fureur, d’autant plus que j’ai vu la succombante porter la main à son visage pour me cacher la honte qu’elle ressentait à cause de cette indiscrétion.
Je la rassure par un baiser, et je veux suivre, mais voilà un second bruit plus fort que le premier ; je poursuis et voilà le troisième, puis le quatrième, et si régulièrement que cela ressemblait à la basse d’un orchestre qui bat la mesure au mouvement d’une pièce de musique. Ce phénomène de l’ouïe se saisit tout d’un coup de mon âme, joint à l’embarras et à la confusion où je voyais ma victime ; tout cela représenta à mon esprit une idée si comique que le rire s’étant emparé de toutes mes facultés j’ai dû lâcher prise. Elle saisit cette conjoncture pour se sauver.
L’episodio risalente al 1750 è richiamato da Marina Valensise, Un veneziano a Parigi, Il Foglio 6 aprile 2013, p. V
Da segnalare inoltre l’uscita nella Pléiade di Jacques Casanova, Histoire de ma vie, Tome I, sous la direction de Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Gérard Lahouati, Furio Luccichenti, Helmut Watzlawick. Bibliothèque de la Pléiade, n° 132, achevé d’imprimer le 07 février 2013, 1488 pages.
martedì 6 settembre 2016
Zweig in Brasile
Alberto Riva
“Laddove, in questi nostri tempi difficili, scorgiamo una speranza per un futuro migliore in zone semi-sconosciute, è nostro dovere additarle, indicandone le possibilità. È per questo motivo che ho scritto questo libro”. Fuggiva dall’Europa annichilita dal nazismo l’ebreo viennese Stefan Zweig quando, nel 1941, pubblicò Brasile, terra del futuro, che Elliot riporta finalmente in libreria (traduzione di Vincenzo Benedetti, pp. 244, euro 18,50) restituendoci un magnifico e straziante reportage di viaggio dell’autore di Il mondo di ieri e della Novella degli scacchi. Non mentiva, Zweig, in quella sua dichiarazione d’intenti, sebbene lui la speranza l’avesse già persa per sempre. In Brasile, nella piccola casa che aveva scelto come rifugio nella montagnosa Petropolis, a pochi chilometri da Rio, lo scrittore si sarebbe infatti suicidato la notte del 23 febbraio 1942 insieme alla sua giovane seconda moglie Lotte Altmann.
Nel suo ultimo, acutissimo diario di viaggio (il cui titolo si è appiccicato al destino brasiliano come una promessa a volte realizzata altre invece tradita), Zweig non si era soffermato solo su Rio, ma aveva parlato anche di San Paolo, allora già metropoli (“Per descriverla bisognerebbe essere cultori di statistica e di economia politica”) e del Nordest, dove cinquecento anni prima il portoghese Pedro Álvares Cabral era attraccato con le sue caravelle: “Bahia rappresenta per il nuovo mondo ciò che per noi europei sono le metropoli millenarie, Atene, Alessandria e Gerusalemme: un luogo sacro della civiltà”.
Zweig volge lo sguardo indietro: “Oro, zucchero, caffè, gomma o legname: sino a oggi in ogni secolo il Brasile ha rivelato sempre nuovi aspetti della sua ricchezza e offerto nuove sorprese”. Poi si lascia andare a riflessioni che oggi risulterebbero quantomeno controcorrente: “Alcune cose singolari che rendono Rio così colorita e pittoresca sono purtroppo già minacciate. Anzitutto le favelas, i villaggi negri all’interno della città. Li vedremo ancora da qui a un paio d’anni?”. Ma sarebbe stato felice, Zweig, di sapere che la sua preoccupazione era infondata? In numero assai esiguo ai suoi tempi, le favelas oggi a Rio sono circa settecento e non accennano a diminuire. Altre volte invece lo scrittore ci azzecca, come quando indica i tram e si chiede: “E scompariranno anche i vecchi bondes, le carrozze tranviarie aperte e saranno sostituite da vetture chiuse, moderne?”. Profetico: l’attuale amministrazione ha fatto sparire, non si sa bene per quale idea di futura speculazione turistica, l’intera flotta dei bondes che risalivano la collina di Santa Teresa nel centro della città e rappresentavano il mezzo di trasporto più popolare e meno caro del mondo: 25 centesimi di euro la corsa.
http://ilmiolibro.kataweb.it/recensione/catalogo/2315/lultimo-viaggio-straziante-e-profetico-di-stefan-zweig/
John Dos Passos, Sulle vie del Brasile, Donzelli 2012
«I fiumi scorrono nel verso sbagliato. Le
montagne sorgono nei punti più inopportuni. La regione orientale è
afflitta da siccità perenni. Le malattie tropicali rappresentano una
minaccia per lo sviluppo urbano. La principale risorsa del Brasile sono i
brasiliani».
Rio, San Paolo, la nascita di Brasilia, le favelas, l’architettura modernista, l’incipiente urbanizzazione, e poi l’Ovest impervio, il Rio delle Amazzoni, il Mato Grosso – da nord a sud, da est a ovest, non c’è regione che Dos Passos non abbia visitato e raccontato ai suoi lettori, nei tanti reportage firmati per «Life», la celeberrima rivista americana, a cavallo di un quindicennio, tra il 1948 e il 1962. Un arco di tempo che vide cambiare il volto del Brasile, alle prese con un rivolgimento economico, politico e sociale che l’avrebbe trasformato nel paese che oggi conosciamo. Ma Dos Passos non è solo un testimone d’eccezione dell’impatto del Brasile con la modernità, è una delle prime penne d’America che si alimenta di una dichiarata empatia con quella terra e soprattutto con i suoi abitanti. Sono infatti proprio loro la principale ricchezza del Brasile. Dai capi di Stato agli imprenditori in ascesa, dagli indiani delle foreste ai lavoratori delle miniere, non c’è incontro che Dos Passos non inscriva nel percorso di espansione su cui il Brasile si è appena incamminato. Ecco perché oggi, mentre il paese si afferma tra le superpotenze mondiali, le pagine di Dos Passos ci svelano l’essenza più recondita e le radici profonde dei mille luoghi e delle mille culture che lo compongono.
(presentazione editoriale)
Esiste inoltre un libro di Tullio Ascarelli, Sguardo sul Brasile, A. Giuffrè, Milano 1949
Rio, San Paolo, la nascita di Brasilia, le favelas, l’architettura modernista, l’incipiente urbanizzazione, e poi l’Ovest impervio, il Rio delle Amazzoni, il Mato Grosso – da nord a sud, da est a ovest, non c’è regione che Dos Passos non abbia visitato e raccontato ai suoi lettori, nei tanti reportage firmati per «Life», la celeberrima rivista americana, a cavallo di un quindicennio, tra il 1948 e il 1962. Un arco di tempo che vide cambiare il volto del Brasile, alle prese con un rivolgimento economico, politico e sociale che l’avrebbe trasformato nel paese che oggi conosciamo. Ma Dos Passos non è solo un testimone d’eccezione dell’impatto del Brasile con la modernità, è una delle prime penne d’America che si alimenta di una dichiarata empatia con quella terra e soprattutto con i suoi abitanti. Sono infatti proprio loro la principale ricchezza del Brasile. Dai capi di Stato agli imprenditori in ascesa, dagli indiani delle foreste ai lavoratori delle miniere, non c’è incontro che Dos Passos non inscriva nel percorso di espansione su cui il Brasile si è appena incamminato. Ecco perché oggi, mentre il paese si afferma tra le superpotenze mondiali, le pagine di Dos Passos ci svelano l’essenza più recondita e le radici profonde dei mille luoghi e delle mille culture che lo compongono.
(presentazione editoriale)
Esiste inoltre un libro di Tullio Ascarelli, Sguardo sul Brasile, A. Giuffrè, Milano 1949
domenica 4 settembre 2016
Zweig in Russia
Stefan Zweig
Russia fine anni Venti
L’immensa pazienza di un popolo
Per lo scrittore in viaggio nell’Urss la capacità del Paese di resistere a guerre e calamità è il vero pilastro nell’architettura sociale
Il Sole 24ore, Domenica 4 settembre 2016
Negoreloe, prima terra russa. Sera tardi. Già così buio che la celebre stazione rossa con la scritta “Proletari di tutto il mondo, unitevi!” non si riesce più a scorgere. Ma pur con tutta la migliore volontà non riesco nemmeno a vedere le Guardie Rosse armate ferocemente fino ai denti rappresentate in maniera tanto pittoresca e demoniaca dai viaggiatori affabulatori che ci hanno preceduto: soltanto un paio in uniforme dall’aria ragionevole e molto affabile, senza fucile né armi luccicanti. La sala di legno della frontiera è come tutte le altre, ma dalle pareti, invece dei sovrani, ti guardano i ritratti di Lenin, Engels, Marx e di qualche altro leader. Il controllo è preciso, accurato, rapido e molto cordiale; già dai primi passi in terra russa si percepisce quante menzogne ed esagerazioni ci siano ancora da abbattere. Non accade niente in maniera rigida, severa e militaresca più che in altre frontiere; senza altri passaggi, ci si trova all’improvviso in un nuovo mondo. È proprio vero, la prima impressione s’imprime immediatamente, una di quelle prime impressioni che così spesso avvolgono una situazione nota ma che solo più tardi riconosci come premonitrice. In tutto siamo in trenta o quaranta che oggi valicano la frontiera russa; la metà di questi sono passeggeri in transito, giapponesi, cinesi, americani corrono a casa con la ferrovia della Manciuria senza fare soste; quindi restano matematicamente tra le quindici e le venti persone che con questo treno hanno come meta la Russia. È l’unico treno al giorno che da Londra, Parigi, Berlino, Vienna, la Svizzera e il resto dell’Europa ha come destinazione il cuore del Paese, la capitale Mosca. Non si può fare a meno di pensare alle ultime frontiere attraversate, ci si ricorda di quante migliaia e decine di migliaia di individui ogni giorno entrano nei nostri microscopici staterelli, mentre qui, venti persone in tutto stanno per accedere a questo vastissimo impero, un continente. Due o tre arterie della ferrovia che corrono diritte uniscono tutta la Russia con il nostro mondo europeo, e ognuna di queste viaggia a un ritmo lento ed esitante. Ci si ricorda allora dei valichi di frontiera ai tempi della guerra, dove solo una manciata di persone che passava un minuzioso controllo riusciva a varcare la linea invisibile da Stato a Stato, e si comprende istintivamente qualcosa della situazione attuale: la Russia è una fortezza assediata, una zona di guerra economica separata dal nostro mondo, diversamente regolato, da una sorta di barriera continentale simile a quella che Napoleone inflisse all’Inghilterra. Nel momento in cui abbiamo fatto cento passi tra l’entrata e l’uscita di queste due porte, abbiamo valicato un muro invisibile.
Prima ancora che il treno si metta in movimento in direzione di Mosca, un cordiale compagno di viaggio mi ricorda che bisogna spostare l’orologio di un’ora, dal tempo occidentale a quello dell’Europa orientale. Ma quel rapido gesto, quella minuscola rotazione, ce ne accorgeremo presto, è di gran lunga insufficiente. Non appena si giunge in Russia, non si deve soltanto adattare l’ora sul quadrante, bensì tutta la propria percezione di tempo e spazio. All’interno di questa dimensione, infatti, tutto avviene con altri pesi e altre misure. Il tempo, dal confine in poi, subisce un rapido tracollo di valore, così come anche la percezione della distanza. Qui i chilometri si contano in migliaia invece che in centinaia, una gita di dodici ore vale un’escursione, un viaggio di tre giorni e tre notti è relativamente breve. Il tempo qui è una moneta di rame che nessuno risparmia e accumula. Il ritardo di un’ora a un appuntamento è considerato ancora cortese, una conversazione di quattro ore vale una chiacchierata, un discorso pubblico di un’ora e mezzo è una breve dissertazione. Ma già solo dopo ventiquattro ore in Russia, la capacità di adattamento interiore ci ha fatto l’abitudine. Non ci sorprenderà più il fatto che un conoscente di Tbilisi viaggi fino a qui per tre giorni e tre notti per stringere la mano a qualcuno; otto giorni dopo si affronterà con la stessa tranquillità e naturalezza un’inezia di quattordici ore di viaggio in treno solo per fare una certa “visita” e per meditare in tutta serietà se non sia il caso di fare un viaggio nel Caucaso – solamente sei giorni e sei notti.
Il tempo qui ha altri parametri, lo spazio altre proporzioni. Come con i rubli e i copechi, si impara velocemente a fare i conti con questi nuovi valori, si impara ad aspettare e a essere noi stessi in ritardo, a perdere tempo senza lagnarsi, e in questo modo ci si avvicina inconsapevolmente al mistero della storia russa e della sua essenza. Giacché il genio e il pericolo di questo popolo sta prima di tutto nella sua immensa capacità di attesa, nella sua per noi incomprensibile pazienza, che è tanto vasta quanto la terra russa. Questa pazienza è sopravvissuta a ogni epoca, ha sconfitto Napoleone e l’autorità zarista, e anche adesso agisce come il più potente e robusto pilastro nella nuova architettura sociale di questo mondo. Infatti, nessun altro popolo europeo sarebbe stato in grado di sopportare ciò che questo si è abituato da mille anni a subire, e subendo quasi con gioia la propria sorte; cinque anni di guerra, poi due, tre rivoluzioni, sanguinose guerre civili da Nord, da Sud, da Est, da Ovest che si sono abbattute contemporaneamente su ogni città e villaggio; infine, pure la terribile carestia, la carenza di alloggi, il blocco economico, l’espropriazione dei beni – una summa di sofferenza e martirio, di fronte alla quale la nostra sensibilità non può che inchinarsi con deferenza. Tutto ciò la Russia ha potuto tollerarlo soltanto grazie a questa sua eccezionale resistenza nella passività, attraverso il mistero di una capacità di sopportazione illimitata, attraverso un Nitschewo («non fa niente») ironico ed eroico al tempo stesso, e una tenace, muta e profondamente devota pazienza, la sua vera e incomparabile forza.
Questo testo è tratto dall’inedito di Stefan Zweig Viaggio in Russia, esito di un viaggio che l’autore austriaco fece nel 1928. Il libro, a cura di Vittoria Schweizer, è edito da Passigli, Firenze, pagg. 102, € 10 e sarà nelle librerie dall’8 settembre.
https://ilmanifesto.it/stefan-zweig-la-forza-elementare-della-vita/
Negoreloe nel ricordo di Emilio Guarnaschelli (Una piccola pietra, Garzanti, Milano 1982, p. 31
... Arrivai verso le quattro del pomeriggio,ora europea (ore sei, secondo quella orientale russa), passando sotto il grande arco dell'entrata in URSS.. Ci siamo arrestati lì, ed abbiamo stretto la mano al primo soldato rosso, parlo al plurale perché viaggiavo insieme a una delegazione austriaca. Consegna dei passaporti ai soviet e arrivo a Negoreloe (gare frontière). Compagni che ci presero i bagagli e li portarono nel salone della dogana. Nel grande salone rosso vedo scritto in tutte le lingue: "Proletari di tutti i paesi, unitevi!" Ripartiamo alle otto, abbiamo tutti la cuccetta come sui vapori. Samovar a nostra disposizione.
https://www.youtube.com/watch?v=FuvMaYV8RQE
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