sabato 30 gennaio 2016
La trattativa
Salvatore Lupo
... L'ipotesi è questa, lo so, ma questa ipotesi non sembra dimostrata, e infine non sono io che tiro fuori l'articolo, lo stato di emergenza, nel mio saggio non c’è scritto, non dico questo. Io dico che due ufficiali dei Carabinieri sono andati a trattare con un capomafia che non era latitante e non hanno commesso alcun reato facendo questo. Hanno instaurato una trattativa, come da un secolo e mezzo tutti i poliziotti instaurano trattative con capomafia per averne scambi di favori, informazioni. Questa intanto non è «la» trattativa, è «una» trattativa o forse una quantità di trattative. Nel corso di queste trattative possono essere stati commessi dei reati, se a questo signore o ai suoi amici sono state promesse cose illecite, oppure no. Può darsi che siano state promesse cose lecite o cose che astutamente il poliziotto si riservava di non mantenere, come in genere fanno i poliziotti. Da questo punto di vista, ben lungi dal dire che la trattativa è un crimine o un reato perché nel codice penale non esiste il reato di trattativa, giusto perché il termine è talmente vago che non può essere definito rilevante penalmente, fermo restando che tutti trattano con tutti normalmente e in particolare i poliziotti con i criminali, con i terroristi e con i mafiosi – perché questo è, così funziona – bisogna vedere se in questa trattativa siano state promesse e soprattutto concesse cose illecite. Ragion per cui il tribunale fa benissimo a inquisire queste persone per vedere, fermo restando che hanno già subìto sette processi uscendone sempre assolti, e fare un processo per l'ottava volta per la stessa cosa – mi dovrebbe confermare chi è di cultura giuridica – per me che vedo Law and Order non si dovrebbe poter fare. Che poi questo complotto sia stato guidato da Scalfaro o da Napolitano non risulta, non è vero allo stato attuale delle prove. Lei riteneva questo libro un frontale attacco la procura, per me non è così: io ho solo ragionato sul modo in cui, sul piano della comunicazione pubblica e della ricostruzione della storia italiana, è stata elaborata una serie di documenti, alcuni giudiziari, altri di giornalisti, di uomini politici e degli stessi magistrati che un giorno fanno gli atti penali e il giorno dopo li volgono in libri, che possibilmente sono intitolati Io so, dove si sostiene che uno può dire le cose anche se non ha prove, non c’è bisogno di avere le prove perché so che è vero, credetemi sulla parola. Sono largamente d'accordo con Fiandaca, non necessariamente in tutto, d'altronde le due parti del libro sono ben distinte con il nome, quindi si potrebbe anche giudicare quello che scrive Salvatore Lupo. C’è una produzione di public history, la storia del nostro Paese come viene ricostruita in questi testi, che non ha niente a che vedere con qualsiasi modo plausibile in cui può essere immaginata la storia italiana, perché segue sempre la categoria del complotto, che distingue la ricostruzione penale dalla ricostruzione storica. Mentre infatti la ricostruzione storica tende a mettere in campo milioni di persone, grandi forze impersonali, la logica giudiziaria, dovendo trovare una responsabilità individuale, segue la logica del complotto, laddove i grandi eventi storici difficilmente seguono la logica del complotto. A me sembra che questo sia uno dei casi, poi quando mi dimostreranno, come finora non è avvenuto, perché i processi paralleli si sono conclusi con l'assoluzione, quali reati nell'ambito di queste trattative siano stati commessi, io che rispetto le sentenze dei tribunali e non pretendo di saper giudicare meglio dei giudici ne prenderò atto.
http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/stenografici/html/24/audiz2/audizione/2015/12/01/indice_stenografico.0124.html
venerdì 29 gennaio 2016
Tina Modotti in un affresco di Diego Rivera
Julio Antonio Mella, Tina Modotti, and […] Vittorio Vidali (in a black beret, just visible behind Modotti’s head) // [wikipedia:
The love triangle of Mella, Vidale [Vidali] and Modotti is
immortalized in Diego Rivera’s mural “In the Arsenal.”. The extreme
right [as you face it] of the mural shows […] Tina Modotti holding a
belt of ammunition. Vidale’s face, partly hidden, stares suspiciously
from under a black hat, as he peers over her shoulder, while Modotti
gazes lovingly at Julio Antonio Mella […] Given the closeness of Diego
Rivera to the people involved some consider this fresco painting to be
evidence of Vidale’s and Rivera’s involvement in Mella’s assassination
and this work of art is believed by many to relate to Rivera’s
expulsion from the Mexican Communist Party.]
Al centro del quadro si riconosce Frida Kahlo. David Alfaro Siqueiros è l'ultimo a sinistra di chi guarda. All'angolo opposto sulla destra troviamo Tina Modotti, e Julio Antonio Mella con Vittorio Vidali seminascosto dietro di lei.
Al centro del quadro si riconosce Frida Kahlo. David Alfaro Siqueiros è l'ultimo a sinistra di chi guarda. All'angolo opposto sulla destra troviamo Tina Modotti, e Julio Antonio Mella con Vittorio Vidali seminascosto dietro di lei.
Diego Rivera, La distribuzione delle armi, 1928. / Fresco Court of Labor, Ministry of Education, Mexico City. |
giovedì 28 gennaio 2016
Camilleri su Gramsci e Pirandello
Brano estratto dalla Lectio Magistralis tenuta da Andrea Camilleri in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa in Filologia Moderna, Chieti, 12 novembre 2007
...dalla rimeditazione su Pirandello che Gramsci fa negli anni del carcere, comprese in un capitolo a parte del volume che venne intitolato “Letteratura e vita nazionale”, emerge tra le tante almeno una straordinaria e illuminante indicazione propriamente registica, propriamente da interpretazione registico-attoriale, puntualmente disattesa dai registi negli anni successivi. Si trova nel sottocapitolo intitolato L’”ideologia” pirandelliana e direttamente discende dalle considerazioni fatte anni prima nella recensione di Liolà. Gramsci a un certo momento si domanda se i punti di vista esposti da alcuni personaggi di Pirandello, quelli considerati più filosofici, più capziosi, siano d’origine libresca e colta oppure rappresentino un qualcosa di presente nella vita stessa, nella cultura del tempo, anche in quella popolare di grado infimo. E si risponde facendo una comparazione tra i drammi in dialetto, popolari, e quelli in lingua che rappresentano un milieu borghese di tipo nazionale. “Ora pare -scrive- che, nel teatro dialettale, il pirandellismo sia giustificato da modi di pensare “storicamente” popolari e popolareschi, dialettali; che non si tratti cioè di “intellettuali” travestiti da popolani, di popolani che pensano da intellettuali, ma di reali, storicamente, regionalmente popolani siciliani, che pensano e operano così, proprio perché sono popolani e siciliani. Se questo si dimostrasse, tutto il castello del pirandellismo, cioè dell’intellettualismo astratto del teatro pirandelliano crollerebbe.
La stessa considerazione andrebbe fatta, suggerisce più o meno direttamente Gramsci, anche per le commedie borghesi, ed è chiaro qui il riferimento alla messinscena de A Birritta cu i ciancianeddi, “dove” -come scrive il recensore- “continua la rappresentazione esemplificata delle contraddizioni tra l’essere e il voler essere, tra l’apparenza e la realtà, tra l’immagine e il vero”, ebbene, malgrado tutto questo bric a brac di apparente cerebralismo, la recitazione di Angelo Musco faceva sì che “la vita fosse solo nell’interprete, che riesce a superare il tedio delle lunghe parlate”. Torno a ripetere: una precisa indicazione per registi e attori su come interpretare scenicamente Pirandello, come dirlo, come proporlo con estrema semplicità e naturalezza.
A chiarimento del popolano naturaliter pirandelliano, ripropongo una sorta di testimonianza già da me raccontata nel libro “Il Gioco della mosca”. Peppi Nicotra, scaricatore del porto del mio paese, si sposò con una giovanissima e bella ragazza, Giovanna. Una settimana dopo il matrimonio, Peppi venne arrestato perché aveva ucciso un uomo nel corso di una lite d’osteria. Fu condannato a dieci anni di carcere. Giovanna abitava in una casetta, nella periferia del paese, che Peppi aveva fabbricata con le sue mani e che aveva una finestra allato alla porta d’ingresso. Passato un anno, Giovanna cominciò a ricevere le visite notturne di diversi uomini. E di questa condotta della moglie Peppi venne informato in carcere. Scontata la pena e rimesso in libertà, tutti si aspettavano che avrebbe vendicato l’offesa uccidendo, se non gli amanti che in verità erano un po’ troppi, almeno la moglie. Invece Peppi andò a vivere in casa di sua madre come se niente fosse successo. Poco dopo si sparse la voce che aveva ripreso a frequentare, nottetempo, Giovanna, trattandola però non da moglie, ma come tutti gli altri, da compagna occasionale. E decadde dalla considerazione di tutti. Senonchè un giorno uno dei più autorevoli cittadini, anche lui frequentatore di Giovanna, volle avere da Peppi una spiegazione del suo comportamento. E quello tranquillamente rispose:
“Io a Giovanna non me la potei godere come moglie, poco tempo passò tra il matrimonio e il carcere. Quando uscii, mi tornò desiderio di lei. E una notte l’andai a trovare. Tutto qua. Però io entro dalla finestra”.
“E che vuol dire?”
“Dalla porta entrano i mariti, o no?”
“Certo. Da dove dovrebbero entrare?”
“E io invece ogni volta entro dalla finestra, come un amante. Voi che entrate dalla porta per andarla a trovare, siete i mariti, io sono l’amante.
Sono io che vi faccio cornuti a tutti”.
Venne riabilitato. Inutile dire che Peppi del suo compaesano Luigi Pirandello mai aveva inteso parlare.
http://www.vigata.org/laurea/lectio_ch.shtml
mercoledì 27 gennaio 2016
Una memoria scontata per un dolore senza tempo
Claudio Vercelli
Un dispositivo di totem e tabù
il manifesto, 27 gennaio 2016
È come se una sorta di consenso di massima, veicolato attraverso
una rigida procedura istituzionale, quella che aveva portato una
quindicina d’anni fa all’istituzione del Giorno della Memoria con
un’apposita legge, si fosse progressivamente indebolito, fino
a ripiegare su se stesso. Ad alcuni, allora, poteva sembrare il punto
d’arrivo di un lungo percorso di sensibilizzazione storica e civile;
oggi a non pochi pare che ci si trovi dinanzi ad una cristallizzazione.
Le iniziative in corso d’opera sono e rimangono molte, soprattutto sul piano didattico, ma la stanchezza e, a tratti, i timori non solo di un approccio retorico bensì anche potenzialmente demotivante, comunque in sé confuso e ambiguo, sono non meno diffusi. In alcuni casi sopravanza un malcelato fastidio, spesso motivato dal fatto che ricordare un genocidio, secondo certuni, potrebbe servire a relativizzarne altri. C’è quindi chi ne denuncia l’inflazione, ossia la sua saturazione discorsiva che, ancora lievitando, pare slegare sempre di più i contenuti delle comunicazioni pubbliche rispetto alle originarie intenzioni. Dalla sensibilizzazione e dalla condivisione si passerebbe quindi all’ossessione. Non un diritto alla comprensione ma un dovere basato su una sorta di colpa quasi metafisica, creando un totem e un tabù contro i quali, prima o poi, qualcuno potrebbe scagliarsi, in un atto falsamente liberatorio.
Omissioni ad arte
C’è invece chi più puntualmente invita a riflettere sul concreto rischio del travisamento, attraverso il combinato disposto tra banalizzazione (tutto è Auschwitz), sacralizzazione (Auschwitz è tutto) e negazione (Auschwitz è niente). Tre possibili esiti inscritti dentro un campo ai cui estremi si pongono un tempo senza storia (quello del dolore perenne, non risarcibile, schiacciato quindi su un presente eterno) e della commemorazione intesa come rituale autosufficiente, basato sulla ripetizione degli stessi cliché.
Così facendo, l’impressione che se ne ricava è quella non tanto di una consapevolezza in divenire bensì di una sottile strategia di omissione, dove il ritornare a ciò che è stato potrebbe servire per evitare di affrontare quello che sta avvenendo. Non di meno, ed è altra questione tanto imperativa quanto non elaborabile con i tradizionali strumenti della mediazione culturale, la pervasività mediatica del tema, e la sua fortuna nell’immaginario collettivo europeo e americano, hanno decretato che, a fianco della ricerca storica e della riflessione storiografica, si accompagnassero, per poi spesso sostituirsi all’una e all’altra, fenomeni di uso spettacolare e drammatizzante.
Lo stesso può dirsi del determinarsi di un universo di significati del tutto decontestualizzati. Sussiste infatti un vero e proprio circuito di raffigurazioni che sembra oramai alimentarsi a prescindere dai fatti storici, assumendo una sorta di esistenza sua propria, all’interno dei prodotti di una subcultura pop che mischia deliberatamente le cose, deformandone i significati e facendo volutamente a meno di codici di comprensione che non siano quelli dettati da interessi di circostanza.
In campo politico, ad esempio, le cose paiono spesso funzionare così. Si ha allora a che fare con la presenza di un paradigma globalizzante, una sorta di «cosmopolitan memory», dove l’intreccio, spesso caotico, tra istanze affettive, morali e civili rischia non solo di non rendere conto dei trascorsi ma di affaticare ancora di più la comprensione e la condivisione della nostra contemporaneità. Se ci poniamo in tale ottica, il fuoco della riflessione, quindi, non è più una peculiare vicenda storica bensì l’attuale uso pubblico del suo ricordo.
Le molteplici ricadute di quella memoria nel corso del tempo sono state differenziate, semmai stratificandosi in un complesso di parole, idee, immagini ma anche suggestioni che sempre più spesso si sono incontrate, per poi avvilupparsi, con il nodo dell’identità individuale e collettiva nell’età corrente. Non quindi di quanti vissero concretamente tempi così tragici, sopravvivendo ad essi silenziosamente, bensì di coloro che oggi ne rielaborano i significati, conferendo a se stessi una ragione d’essere civile e politica soprattutto in rapporto alla rilevanza che attribuiscono a quel passato. Il quale sembra inglobare e metabolizzare tanti altri passati. In realtà, come bene sanno gli studiosi, ci troviamo dinanzi al prodotto di una stagione culturale che prende le sue mosse con la fine degli anni Settanta, quando la testimonianza diretta di chi aveva vissuto quelle vicende iniziò ad assumere uno statuto e una rilevanza che precedentemente non gli erano state accordate.
Una tragedia fondativa
Esiste peraltro un sistema di binari a doppio scorrimento, con un tracciato per più aspetti parallelo, che mette in relazione la crisi del «paradigma antifascista» con l’emergere della centralità della Shoah. Mentre le fortune del primo si fanno decrescenti, non rendendo più conto del suo valore di elemento primario nella coesione sociale e politica, la seconda ne ricava per più aspetti un ruolo di supplenza, finendo con il divenire parte imprescindibile del bagaglio della cittadinanza democratica. Alla rilevanza dei vincitori, coloro che avevano annientato il nazismo e i fascismi, ricostruendo l’Europa e dando forma ad una nuova società pluralista, si sostituisce infatti quella delle vittime.
La Shoah, per alcuni aspetti, si emancipa dal suo stesso essere una tragedia ebraica (intrecciata con le politiche oppressive e persecutorie di altri gruppi bersaglio, praticate sistematicamente dal regime hitleriano e dai fascismi europei) per essere rivestita di una valenza assoluta, quella di elemento fondativo del modo in cui costituiamo e condividiamo uno sguardo morale sul mondo. Quanto meno nel campo occidentale poiché ben diverse sono le sensibilità in altri contesti. Non si tratta di un transito di poco conto poiché si accorda alle trasformazioni che attraversano l’ambito culturale e politico dei nostri paesi, laddove al declino dell’azione collettiva sembra sostituirsi una sorta di memoria proiettiva, fondata sull’identificazione sentimentale con i «vinti dalla storia». Un fatto, quest’ultimo, che conferisce all’inazione e all’impotenza un significato simbolico molto pronunciato. L’arco di tempo strategico è, d’altro canto, quello in cui viene deperendo il modello riformista di stampo socialdemocratico, praticato nell’Europa atlantica, come anche la residua speranza di una trasformazione radicale affidata ai processi di rivoluzionamento delle società.
Latitanza della politica
Il dispositivo della legge istitutiva del Giorno della Memoria recepisce e registra a distanza di tempo, per più aspetti del tutto inconsapevolmente, il formarsi e poi il diffondersi di questo fenomeno di scambio. Il rischio reale è che la memoria esemplare e paradigmatica di cui si fa carico sancisca definitivamente l’improduttività di quella letterale, basata non solo sul riscontro oggettivo dei fatti ma anche sulla capacità di coglierne la reale dimensione all’interno di una dinamica che sappia comparare, senza parificarle, le tragedie del passato per intervenire sugli orientamenti del presente. Alle spalle di tutto ciò c’è senz’altro anche l’ombra velenosa del conflitto israelo-palestinese. Ancora di più vale, tuttavia, quella rincorsa alla quale da molto tempo stiamo assistendo un po’ ovunque per assumere la veste di vittime per eccellenza, a suggello di un’identità collettiva che surroga, in tale modo, l’assenza della politica come azione per la trasformazione.
La vittima, infatti, non chiede diritti, domandando semmai risarcimenti. Il paradosso è che una memoria di tale genere, tanto più se istituzionalizzata, non solo rischi di trasformarsi in una retorica pubblica incapace di andare oltre la sua stessa autocelebrazione ma, in una eterogenesi dei fini, incentivi quei processi di disinvestimento dalla partecipazione alla sfera pubblica che, invece, vorrebbe contribuire ad arrestare.
http://www.ricerchedistoriapolitica.it/tra-passato-e-presente/la-giornata-della-memoria-e-ormai-storia/
Le iniziative in corso d’opera sono e rimangono molte, soprattutto sul piano didattico, ma la stanchezza e, a tratti, i timori non solo di un approccio retorico bensì anche potenzialmente demotivante, comunque in sé confuso e ambiguo, sono non meno diffusi. In alcuni casi sopravanza un malcelato fastidio, spesso motivato dal fatto che ricordare un genocidio, secondo certuni, potrebbe servire a relativizzarne altri. C’è quindi chi ne denuncia l’inflazione, ossia la sua saturazione discorsiva che, ancora lievitando, pare slegare sempre di più i contenuti delle comunicazioni pubbliche rispetto alle originarie intenzioni. Dalla sensibilizzazione e dalla condivisione si passerebbe quindi all’ossessione. Non un diritto alla comprensione ma un dovere basato su una sorta di colpa quasi metafisica, creando un totem e un tabù contro i quali, prima o poi, qualcuno potrebbe scagliarsi, in un atto falsamente liberatorio.
Omissioni ad arte
C’è invece chi più puntualmente invita a riflettere sul concreto rischio del travisamento, attraverso il combinato disposto tra banalizzazione (tutto è Auschwitz), sacralizzazione (Auschwitz è tutto) e negazione (Auschwitz è niente). Tre possibili esiti inscritti dentro un campo ai cui estremi si pongono un tempo senza storia (quello del dolore perenne, non risarcibile, schiacciato quindi su un presente eterno) e della commemorazione intesa come rituale autosufficiente, basato sulla ripetizione degli stessi cliché.
Così facendo, l’impressione che se ne ricava è quella non tanto di una consapevolezza in divenire bensì di una sottile strategia di omissione, dove il ritornare a ciò che è stato potrebbe servire per evitare di affrontare quello che sta avvenendo. Non di meno, ed è altra questione tanto imperativa quanto non elaborabile con i tradizionali strumenti della mediazione culturale, la pervasività mediatica del tema, e la sua fortuna nell’immaginario collettivo europeo e americano, hanno decretato che, a fianco della ricerca storica e della riflessione storiografica, si accompagnassero, per poi spesso sostituirsi all’una e all’altra, fenomeni di uso spettacolare e drammatizzante.
Lo stesso può dirsi del determinarsi di un universo di significati del tutto decontestualizzati. Sussiste infatti un vero e proprio circuito di raffigurazioni che sembra oramai alimentarsi a prescindere dai fatti storici, assumendo una sorta di esistenza sua propria, all’interno dei prodotti di una subcultura pop che mischia deliberatamente le cose, deformandone i significati e facendo volutamente a meno di codici di comprensione che non siano quelli dettati da interessi di circostanza.
In campo politico, ad esempio, le cose paiono spesso funzionare così. Si ha allora a che fare con la presenza di un paradigma globalizzante, una sorta di «cosmopolitan memory», dove l’intreccio, spesso caotico, tra istanze affettive, morali e civili rischia non solo di non rendere conto dei trascorsi ma di affaticare ancora di più la comprensione e la condivisione della nostra contemporaneità. Se ci poniamo in tale ottica, il fuoco della riflessione, quindi, non è più una peculiare vicenda storica bensì l’attuale uso pubblico del suo ricordo.
Le molteplici ricadute di quella memoria nel corso del tempo sono state differenziate, semmai stratificandosi in un complesso di parole, idee, immagini ma anche suggestioni che sempre più spesso si sono incontrate, per poi avvilupparsi, con il nodo dell’identità individuale e collettiva nell’età corrente. Non quindi di quanti vissero concretamente tempi così tragici, sopravvivendo ad essi silenziosamente, bensì di coloro che oggi ne rielaborano i significati, conferendo a se stessi una ragione d’essere civile e politica soprattutto in rapporto alla rilevanza che attribuiscono a quel passato. Il quale sembra inglobare e metabolizzare tanti altri passati. In realtà, come bene sanno gli studiosi, ci troviamo dinanzi al prodotto di una stagione culturale che prende le sue mosse con la fine degli anni Settanta, quando la testimonianza diretta di chi aveva vissuto quelle vicende iniziò ad assumere uno statuto e una rilevanza che precedentemente non gli erano state accordate.
Una tragedia fondativa
Esiste peraltro un sistema di binari a doppio scorrimento, con un tracciato per più aspetti parallelo, che mette in relazione la crisi del «paradigma antifascista» con l’emergere della centralità della Shoah. Mentre le fortune del primo si fanno decrescenti, non rendendo più conto del suo valore di elemento primario nella coesione sociale e politica, la seconda ne ricava per più aspetti un ruolo di supplenza, finendo con il divenire parte imprescindibile del bagaglio della cittadinanza democratica. Alla rilevanza dei vincitori, coloro che avevano annientato il nazismo e i fascismi, ricostruendo l’Europa e dando forma ad una nuova società pluralista, si sostituisce infatti quella delle vittime.
La Shoah, per alcuni aspetti, si emancipa dal suo stesso essere una tragedia ebraica (intrecciata con le politiche oppressive e persecutorie di altri gruppi bersaglio, praticate sistematicamente dal regime hitleriano e dai fascismi europei) per essere rivestita di una valenza assoluta, quella di elemento fondativo del modo in cui costituiamo e condividiamo uno sguardo morale sul mondo. Quanto meno nel campo occidentale poiché ben diverse sono le sensibilità in altri contesti. Non si tratta di un transito di poco conto poiché si accorda alle trasformazioni che attraversano l’ambito culturale e politico dei nostri paesi, laddove al declino dell’azione collettiva sembra sostituirsi una sorta di memoria proiettiva, fondata sull’identificazione sentimentale con i «vinti dalla storia». Un fatto, quest’ultimo, che conferisce all’inazione e all’impotenza un significato simbolico molto pronunciato. L’arco di tempo strategico è, d’altro canto, quello in cui viene deperendo il modello riformista di stampo socialdemocratico, praticato nell’Europa atlantica, come anche la residua speranza di una trasformazione radicale affidata ai processi di rivoluzionamento delle società.
Latitanza della politica
Il dispositivo della legge istitutiva del Giorno della Memoria recepisce e registra a distanza di tempo, per più aspetti del tutto inconsapevolmente, il formarsi e poi il diffondersi di questo fenomeno di scambio. Il rischio reale è che la memoria esemplare e paradigmatica di cui si fa carico sancisca definitivamente l’improduttività di quella letterale, basata non solo sul riscontro oggettivo dei fatti ma anche sulla capacità di coglierne la reale dimensione all’interno di una dinamica che sappia comparare, senza parificarle, le tragedie del passato per intervenire sugli orientamenti del presente. Alle spalle di tutto ciò c’è senz’altro anche l’ombra velenosa del conflitto israelo-palestinese. Ancora di più vale, tuttavia, quella rincorsa alla quale da molto tempo stiamo assistendo un po’ ovunque per assumere la veste di vittime per eccellenza, a suggello di un’identità collettiva che surroga, in tale modo, l’assenza della politica come azione per la trasformazione.
La vittima, infatti, non chiede diritti, domandando semmai risarcimenti. Il paradosso è che una memoria di tale genere, tanto più se istituzionalizzata, non solo rischi di trasformarsi in una retorica pubblica incapace di andare oltre la sua stessa autocelebrazione ma, in una eterogenesi dei fini, incentivi quei processi di disinvestimento dalla partecipazione alla sfera pubblica che, invece, vorrebbe contribuire ad arrestare.
http://www.ricerchedistoriapolitica.it/tra-passato-e-presente/la-giornata-della-memoria-e-ormai-storia/
lunedì 25 gennaio 2016
Quale islam?
Marco Rizzi
Il saggio di Massimo Campanini
Dieci, cento, mille islam
Vademecum per non smarrirsi
Corriere della Sera, 25 gennaio 2016
Gli attentati a Parigi di novembre e il dibattito che ne è seguito, registrato anche sul «Corriere», hanno messo in luce il deficit di conoscenza dell’islam che in Italia si riscontra nell’opinione pubblica. Ne consegue un atteggiamento che va dalla paura irriflessa a un malinteso senso di comprensione, secondo cui nulla avrebbe a che fare il «vero» islam con il terrorismo. In realtà, occorre anzitutto prendere coscienza dell’estrema differenziazione che percorre l’islam al suo interno, anche quello più caratterizzato in senso politico. Essa va ben oltre la sola contrapposizione tra sciiti e sunniti su cui le sanguinose cronache dal Medio Oriente hanno puntato i riflettori. Pure all’interno delle sue grandi famiglie, l’islam si presenta sfaccettato e legato a interpretazioni anche molto differenti del testo sacro. Offre una prima mappa per orientarsi nell’universo dell’islam politico l’agile volumetto di Massimo Campanini Quale islam? Jihadismo, radicalismo, riformismo (La Scuola, pagine 128, e 9,50), che ne percorre la fenomenologia religiosa in termini sia storici, sia culturali e sociologici. Da quest’ultimo punto di vista, vengono esaminati alcuni fattori di trasformazione significativi, tra cui l’emergere di una questione femminile e l’impatto dei fenomeni migratori sulla stessa identità islamica. Particolarmente utile risulta il glossario conclusivo.
sabato 23 gennaio 2016
Roma senza futuro
Christian Raimo
Solo la cultura può salvare Roma dalla tristezza
Internazionale, 16 gennaio 2016
... il presente non è nemmeno il tempo più avvilente per questa città. A Roma manca totalmente l’idea di un futuro, di una vocazione. E non solo perché da sempre vive in modo retroflesso, schiacciata dai miti (dell’impero, del papato, della repubblica…), ma perché continua a sperare in rinascite legate a grandi eventi: non bastano le costruzioni dei Mondiali di Italia ‘90 e le chiese del giubileo del 2000 che cadono a pezzi, lo stadio del nuoto mai completato, la nuvola di Fuksas che è ancora un cantiere. Oggi una città che non sa come regolarsi con la cacca degli uccelli si candida alle Olimpiadi del 2024, con l’ambizione meschina di svilupparsi ancora sull’unico prodotto su cui ha investito dal dopoguerra in poi: il cemento.
Nel 1962 fu approvato un piano regolatore per una città che si immaginava avrebbe raggiunto nel corso di un paio di decenni i cinque milioni di abitanti. Oggi non sono nemmeno tre milioni, eppure si continuano a costruire quartieri che mangiano l’agro romano, espandendo la periferia in uno sprawl indefinito, creando dal nulla comuni grandi come città – vedi Guidonia con i suoi quasi 100mila abitanti, di cui quasi un terzo ogni giorno fa il pendolare con Roma – e finanziando economie passive come quelle dei palazzinari e degli affittacamere.
E se forse i candidati sindaci – per adesso Matteo Renzi e Matteo Orfini hanno fatto il nome di Roberto Giachetti, e Stefano Fassina si è autocandidato per Sinistra italiana – concorderebbero su questa diagnosi desolante, è proprio sulla prognosi che sembrano già annaspare. Perché occorre interrogarsi sul destino di questa città, non solo a partire dai suoi evidenti problemi anche di spicciola amministrazione.
Cosa è e come immaginiamo che sarà Roma tra vent’anni? Una specie di fondale per un turismo anagraficamente vecchio? La succursale della burocrazia nazionale per campare ancora di questo terziario arretrato e del suo sempre più misero indotto? Un’infinita periferia di centri commerciali?
Un’idea per Roma
Chi governerà questa città dovrà non solo conoscere in modo profondo una città sfiancata dallo sfruttamento millenario della sua eredità genetica, della bellezza storica e naturale, ma avere una visione di lungo raggio.
Per far diventare Roma una vera metropoli europea, come è riuscito a Berlino o a Barcellona, darle un ruolo centrale nel Mediterraneo, farne una città della conoscenza – dell’università, della ricerca, delle arti (come è per esempio nella splendida prospettiva di Walter Tocci) – non è sicuramente sufficiente un commissario prefettizio ma nemmeno un bravo amministratore: serve rivendicare l’indipendenza dalla tutela del Vaticano e dalla famelicità dei costruttori, ed è necessaria ancora di più un’intelligenza di quelli che sono i grandi processi sociali e un progetto ispiratamente pedagogico.
Questo è forse avvenuto in due brevi fasi nel novecento: nel 1907 con Ernesto Nathan e tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli ottanta con Carlo Giulio Argan, Luigi Petroselli, Ugo Vetere (e i loro collaboratori: Renato Nicolini, Antonio Cederna, Ludovico Gatto). Altrimenti l’ennesima occasione andrà dolorosamente sprecata.
giovedì 21 gennaio 2016
Le temps des cerises: la Comune
IL TEMPO DELLE CILIEGIE
Quando canteremo il tempo delle ciliegie
E l'allegro usignolo e il merlo scherzoso
Saranno tutti in festa
Le belle avranno la follia in testa
E gl'innamorati il sole nel cuore!
Quando canteremo il tempo delle ciliegie
Fischierà ancor meglio il merlo scherzoso!
https://www.youtube.com/watch?v=w7rynEhMf90
Marco Gervasoni
Il volto patriottico della Comune parigina
Corriere della Sera, 21 gennaio 2016
Raramente un evento storico di cosi breve durata — pochi mesi — ha prodotto tanta memoria e tanta storia come la Comune di Parigi: da Marx a Lenin, che crearono il mito della «dittatura del proletariato», agli anarchici, fino ai gauchiste del Sessantotto parigino, che vi videro l’immaginazione al potere. La Comune fu invece un incubo per liberali e conservatori, sconvolti dai pericoli della sovranità popolare. Fu poi quello un episodio che spinse le classi dirigenti dell’epoca, soprattutto i cattolici non solo francesi, a venire incontro alla «questione sociale».
Oggi la Comune ci interpella ancora su temi attuali, come il rapporto tra democrazia rappresentativa e cosiddetta democrazia diretta, o la legittimità del potere politico. Non a caso negli ultimi anni molti storici inglesi e statunitensi sono tornati a studiarla in una chiave estranea al marxismo.
Così pare anche il volume di Innocenzo Cervelli Le origini della Comune di Parigi (Viella, pp. 504, e 49), un lavoro ponderoso come gli studi storici di una volta e molto originale per almeno tre ragioni.
In primis è uno dei pochi studi importanti condotti da uno storico italiano su un tema che pure da subito coinvolse in diverso modo il nostro Paese — Garibaldi fu eletto come deputato di Parigi nell’Assemblea nazionale del 1871.
In secondo luogo, Cervelli studia le origini della Comune, prima della guerra civile vera e propria e della repressione del governo Thiers, con ventimila morti. Ma il prologo fa capire che la Comune sorse non tanto per cause sociali, secondo la lettura marxista, ma per patriottismo, rigettando l’armistizio con i prussiani deciso dal governo, e in seguito a un doppio choc psicologico e materiale, la sconfitta del Paese e il duro blocco di Parigi da parte nemica.
La terza novità sta nell’indagine sul ruolo svolto dal cancelliere prussiano Bismarck nel contribuire a determinare gli eventi. Last but not least , Cervelli rende nel racconto il pulsare vivente non dei soli leader principali, ma soprattutto del popolo di Parigi, con i suoi entusiasmi e le sue paure.
mercoledì 20 gennaio 2016
Giuditta e Dalila
Horace Vernet, Giuditta (la modella era Olympe Pélissier) |
Claudio Pozzoli
La
Sirenetta? era Andersen
Corriere della Sera, 15 giugno 1992
intervista a Hans Mayer
"I
diversi" (Garzanti, 1977): e' il libro che lo ha reso famoso in
tutto il mondo. L'oggetto: tre aspetti della "diversita'
esistenziale", la donna, l' ebreo, l' omosessuale.
...
Perche' ci sono le donne nei suoi "diversi", signor Hans
Mayer? Le donne non fanno parte delle minoranze... "Questa
scelta ha a che fare anche con l' origine del libro. Inizialmente,
doveva essere un' opera di storia della letteratura. Come professore
che si e' sempre occupato, oltre che di letteratura tedesca, dello
studio comparato della letteratura, e che ha una solida cultura
umanistica, e cioe' conosce e ha letto nell' originale Sofocle,
Omero, Aristofane, e anche Platone, cosi' come Cicerone, Tacito e
Svetonio, volevo dimostrare come i personaggi della tradizione
classica siano ancora vivi per noi: c' e' sempre un Anfitrione, un'
Elettra, un Ulisse, un' Ifigenia...". . Figure che hanno poi
trovato nuovi personaggi.compagni di strada... "Direi che il
serbatoio venne rifornito solo una volta, nel Quindicesimo e nel
Sedicesimo secolo, durante il Rinascimento, dai personaggi del
Medioevo: l' Orlando furioso, Amleto, Don Chisciotte, l' ebreo
Shylock, il Faust...". . L' intenzione era dunque di scrivere
un' opera di storia letteraria. Ed e' diventato un libro di critica
culturale, ma anche sociale e storica... "Volevo scrivere la
storia di questi archetipi, volevo descrivere questi "diversi"
della storia della letteratura. Poi, pero' , riflettendo, mi accorsi
che non tutti i diversi sono uguali: scoprii che ci sono due tipi di
diversi. Chiamai questi personaggi "i diversi intenzionali":
Don Giovanni, Faust, Amleto . persone cioe' che si escludono
volontariamente dal loro ambiente, dal loro mondo: chi con i suoi
misfatti, come Don Giovanni, chi con un patto col diavolo, come
Faust, o come Amleto (dicendo "c' e' qualcosa di marcio in
Danimarca" si definisce un diverso volontario)". . Si
tratta quindi di coloro che vollero essere diversi... "Ecco. Ma
che ne e' dei tanti che ne soffrono, che non hanno nessuna intenzione
di essere dei diversi, e invece la vita fa di loro dei diversi? Li
chiamo "i diversi esistenziali"; le donne per il loro
sesso, gli ebrei per la loro origine e per la diaspora, gli
omosessuali per la loro deviazione sociale. "Diversi, tutti i
tre gruppi, in questo senso. Spero che l' impostazione chiarisca le
sue perplessita' per quanto riguarda le donne. Pensi un po' : quando
venni a Roma per un dibattito sulla prima edizione italiana del
libro, vi fu una giovane e graziosa giornalista che mi fece una
domanda esattamente nella direzione opposta alla sua: trovava
normalissimo che ci mettessi le donne tra i diversi, si meravigliava
invece che ci avessi messo gli ebrei". . Devo precisare che la
prima parte dedicata alle donne s' intitola "Giuditta e Dalila",
due figure del Vecchio Testamento (e lei scrive: "Entrambe
rappresentano la minoranza all' interno di una minoranza che non e'
tale, ma e' stata ed e' trattata come tale"). E se anche vi e'
un excursus dedicato all' antifemminista Otto Weininger (e al suo
"Sesso e carattere"), si parla anche di Giovanna d' Arco...
"Prendiamo l' esempio di Giuditta e Dalila. Io le chiamo "le
donne con l' arma". Che puo' essere Giuditta con la testa di
Oloferne, certo, ma puo' essere anche la donna troppo intelligente,
troppo maschile, come direbbero i patriarchi, e anche la donna troppo
bella, la seduttrice, nelle fantasie maschili: Giuditta e Dalila. Non
ho voluto dire che le donne sono diverse, ma ho descritto come, all'
interno del mondo femminile, una donna che e' diversa diventa una
"vamp": e' troppo bella, e' Salome' , e' Carmen, e' la
rovina degli uomini, e' la Lulu di Wedekind, l' Anastasia di
Durrenmatt. Oppure la donna con l' arma: Giovanna d' Arco, Giuditta.
E ho cercato di far vedere come di fatto ci sia una forte resistenza
contro le donne che osano oltrepassare i limiti; dal punto di vista
maschile e' troppo femminile, troppo maschile, troppo donna armata,
troppo Giuditta, troppo Giovanna d' Arco, troppo "vamp".
Questo dibattito in Germania si colloca al centro della lotta per l'
emancipazione delle donne. Continuo a sentire l' espressione
spregiativa "Emanzen", anche da giovani, quando ci si
riferisce a donne che sono emancipate e vogliono difendere la propria
identita' . Si tratta dell' espressione negativa e spregiativa di
"Emanzipierte". Come vede, non credo che sbagliasse quella
giovane giornalista italiana accettando le donne tra i diversi".
martedì 19 gennaio 2016
Il mondo pullula di corna
Natalia Aspesi
Nella vera storia del sesso non c’è la monogamia Nel saggio che è diventato un caso in America, Ryan e Jethá hanno ripercorso l’evoluzione della specie concludendo che l’essere umano è per natura infedele
la Repubblica, 19 gennaio 2016
Basta leggere le poste del cuore che invadono ogni tipo di informazione per non avere dubbi: il mondo pullula di corna, e non è una novità di questi tempi tempestosi, è sempre stato così, anzi in passato molto di più. Però, più silenziosamente, nella massima clandestinità, perché se no alle traditrici, alle donne ovvio, tagliavano la testa o le muravano vive, o in Italia sino al 1968 le signore potevano finire in prigione. Altrove le lapidano tuttora ma per ora non dalle nostre parti.
Milioni d’anni fa, poi, l’umanoide non ancora sceso dagli alberi e non ancora eretto, sia lui che lei, anzi più lei, non facevano altro: sesso in allegra promiscuità. Almeno così sostengono migliaia di studiosi, come se ci fossero stati anche loro nella foresta africana della preistoria. Dove, tra le scimmie, un tipo più sveglio stava diventando donna, (un’australopitheca afarensis, di 3 milioni di anni fa, ritrovata nel 1974 e battezzata Lucy, mentre nel 1998 si scoprì un maschio della stessa specie, ma più anziano, vissuto 3 milioni e seicentomila anni fa).
Oggi, qualche sfaccendato si chiede: se l’antropologia laica è certa di una primitiva natura umanoide, ominide e addirittura umana, giocherellona, perché ci obblighiamo – da quando esistono l’agricoltura, un’organizzazione sociale e religiosa e la Storia – a vivere nella monogamia, fortunatamente spesso seriale, restando almeno in apparenza fedeli al nostro partner, però cambiandolo anche più volte? Resta un mistero perché tanti studiosi si ostinino a occuparsi di come eravamo o come forse siamo stati o avremmo potuto o dovuto essere, ancor prima dei Flintstone. Anche perché questo interesse forsennato ci chiude nella categoria dei primati, il che vuol dire, almeno per una parte degli studiosi del ramo, che 5 milioni di anni fa abbiamo condiviso un progenitore con le altre scimmie più evolute: non gli oranghi e i gorilla, ma gli scimpanzé e i bonobo, tutti, soprattutto questi ultimi, ipersessuati e iperpromiscui: monogami solo i gibboni, categoria inferiore dei primati, a cui gli umani stessi, per loro ragioni di ordine e potere, hanno obbligato la loro specie a conformarsi, andando contro la nobile natura ipersessuata e promiscua e obbligandola a immalinconirsi in una fedeltà gibbonica, imposta e subita, che da sempre e spesso suscita nella coppia rancore e, quando possibile, disubbidienza.
Dopo aver consultato, e citato, più di quattrocento testi sulla natura sessuale della razza umana sin da quando era una famiglia di moscerini, una coppia non si sa se monogama o no, ma comunque dall’aria contenta, formata dallo scrittore Christopher Ryan, esperto di sciamanesimo e etnobotanica, e dalla sua bella moglie Cacilda Jethá, nata in Mozambico e ricercatrice sul comportamento sessuale nel suo paese per studiare come prevenire l’Aids, ha riversato tutto il suo allegro sapere nel saggio In principio era il sesso, pubblicato negli Stati Uniti, dove ha avuto sia fortuna che sberleffi, che adesso esce da noi da Odoya. Sono 383 pagine complete di ricca bibliografia e utile indice dei nomi (Honoré de Balzac: «La maggior parte dei mariti mi ricorda un orangutan che cerca di suonare un violino»). Il volume è abbastanza leggiadro per divertire senza doverlo considerare fondamentale e senza scandalizzarsi per la sua interpretazione, una delle tante, della «vera storia della sessualità umana, tanto sovversiva e minacciosa che per secoli è stata repressa dalle autorità religiose, patologizzata dai medici, ignorata dagli scienziati e nascosta dai terapeuti moralizzanti». Il che è tuttora vero se siamo ancora qui in Italia a discutere se concedere agli omosessuali la, per gli autori, funesta monogamia seriale del matrimonio, mentre il matrimonio monogamo etero vacilla e l’industria per salvarlo (terapeuti, fruste, sacerdoti, scambio di coppie, avvocati, maghe, siti di incontri, ecc.) è sempre più indaffarata, con la scappatoia del divorzio e anche, almeno annunciato, di un annullamento religioso lampo.
Certo, la storia della sessualità umana e l’affannosa umana ricerca per imbrigliarla, domarla e spegnerla o al contrario liberarla e restituirla alla sua natura bonoba, ha l’aria di non avere mai fine: e, per esempio, oggi in Italia fazioni opposte, per impedire alla coppia gay l’adozione di un eventuale figlio di uno dei due, sta discutendo una possibile scappatoia cui è dato il nome mercantile di “affidamento rinforzato”, come le suole delle scarpe o i reggiseni. Tra le tante storie sorprendenti che legano la sessualità ai suoi incalliti studiosi, a legislatori, teologi e a chiunque altro se ne occupi, Ryan&Jethá citano il presidente americano Calvin Coolidge che, visitando nel 1920 un allevamento di polli, sentì la sua signora informarsi di come riuscivano a produrre così tante uova. Allevatore: «I miei galli fanno il loro dovere». Signora Coolidge: «Lo dica a mio marito». Presidente: «Con la stessa gallina?». Allevatore: «No, passano da una gallina all’altra». Presidente: «Capisco». Resta un mistero perché sia prima, ma soprattutto dopo Darwin, anche quando si era ormai constatato che la femmina bonobo da cui è discesa la femmina umana, faceva rimbombare la foresta manifestando con potenti barriti i suoi multipli orgasmi, si continuò a predicare che le donne erano per natura angeliche e del tutto asessuate. Fu uno studioso veneziano di anatomia, Matteo Realdo Colombo, a scoprire tra le gambe delle donne una strana protuberanza sensibile al tatto. Era il 1558 quando rivelò questa assoluta novità e, come ricompensa, fu arrestato, accusato di eresia, stregoneria e satanismo. Per secoli le donne nascosero quel diabolico segreto per non aver fastidi, anche se sin da Ippocrate si sapeva di quella malattia tutta femminile, chiamata isteria, che mandava fuori di sé anche le signore più nobili. Solo nel 1952 l’isteria è stata cancellata dalla lista delle malattie e, del resto, l’omosessualità ben 21 anni dopo. Un delizioso film inglese, Hysteria diretto nel 2011 da Tanya Wexler, racconta come, in età vittoriana, quella malattia fosse affidata ai medici, che la curavano e si arricchivano masturbando la paziente personalmente o con complicati vibratori a vapore o diesel, che dal 1902 vennero venduti non solo ai medici, con la pubblicità sui giornali, “Tutti i piaceri della gioventù pulseranno dentro di voi”. Ryan e Jethá sostengono che il vibratore divenne negli Stati Uniti il più venduto apparecchio domestico dopo le macchine da cucire e il bollitore per il tè. L’importante era che, trattandosi di una malattia, i mariti non dovessero occuparsene. Poi, si sa, sono arrivati Kinsey e Masters & Johnson e un esercito di studiosi del ramo e gli uomini hanno dovuto svegliarsi e prodigarsi.
IL LIBRO In principio era il sesso di Christopher Ryan e Cacilda Jethá ( Odoya trad. di G. Morselli e M. Scarsella, euro 22)
lunedì 18 gennaio 2016
I colori di Klee a Nuoro
Paul Klee, Giardini meridionali, 1921 |
Nuoro
I colori di Klee l’eretico al servizio del mondo reale
la Repubblica, 17 gennaio 2016
Quarantamila abitanti e un taxi. Luminosi però i geni loci di Nuoro. Sebastiano
Satta, Grazia Deledda, Nobel 1926, lo scultore Francesco Ciusa, premiato
alla Biennale 1907. Fino ai più vicini: il grande Costantino Nivola, e
Maria Lai, massima artista d’una terra splendida e tragica. Nuoro offre
fino al 14 febbraio, una preziosa mostra sull’arte eternamente duplice,
figura trasfigurata, astratta ma riconoscibile, abissale e fin troppo
umana, solare però enigmatica di Paul Klee (1876-1940). Leonardesco
indagatore d’ogni forma e sapere, e perciò anche emozionato viaggiatore,
nutrì con le sue immersioni nel caos primigenio la propria creazione. I
cinquanta fra disegni, acquarelli e dipinti prestati da musei e privati
di spicco, abitano ora, col titolo “Mondi animati” e la cura di Pietro
Bellasi e Guido Magnaguagno, quel Man-Museo d’arte della Provincia di
Nuoro decollato, per coraggiosa scelta dell’ente, nel ’99 con Cristiana
Collu, dal 2012 affidato a Lorenzo Giusti. Il Man si offre quale tenace
modello di resistenza culturale low budget: meno di un milione il budget
annuo, nel 2015 ben 48mila visitatori.
Ad aprire la mostra è l’olio Giovane giardino (1920), che con le sue infantili,
gioiose campiture di tenui colori partite in sghembo labirinto con alberelli,
spaventò a tal punto il nazismo da farglielo includere, con altre sue
opere, nel catalogo d’arte degenerata del ’37 a Monaco. È presente lo
“spirito animato” col quale Klee seppe scavare dal reale il noto
nell’ignoto con la speciale, universale qualità affettuosa ben leggibile
in “Mondi animati” e rimasta inalterata tutta la vita nonostante
l’artista fosse assediato dalle perdite: la fama che tardava a venire, i
problemi economici, la disfatta dell’utopia Bauhaus, ove a lungo
insegnò, il mondo sventrato da guerre che gli uccidevano gli amici e da
dittature che gli vietavano di creare. Fino alla lunga rara malattia
finale – la sclerodermia che gli desertificherà la pelle uccidendolo,
terrifico contrappasso per tanta sensibilità.
Non è un caso che il mite, paziente, poderoso, eretico Klee, artefice, artigiano
e alchimista capace di oltre novemila opere, non ceda però al distacco dal
mondo tanto amato, fonte e garanzia della sua “magica cucina”,
utopicamente desiderosa d’esattezza nel disordine primigenio in cui
s’avventura. E che anzi, affretti il passo nell’imminenza di una morte
sempre da lui contemplata: nel ’39, ormai celebre, stimato e morente, la
sua prolificità, che catalogò con chirurgico metodo, vola a 1250
lavori, un nono dell’intero corpus.
Fra i dipinti, ecco ancora il Fico (1929), acquarello splendido che dalla natura
distilla liquide trasparenze e profondità, forma ed essenza incantatorie; Foglie figurate (1938), sintesi di un’origine simbiotica di piante e uomo, il cui feto è
accolto nelle foglie; l’antropomorfismo stravolto delle facce con
occhio di gatto di Espressioni di un volto (1939); Scena fiabesca alla
Hoffmann del ’21, rivelatrice dedica allo scrittore gotico tanto amato
risolta in calde geometrie color sabbia percorse, come pure gli
acquarelli Piccolo Mondo (1914) e Americano- Giapponese (1918), dal
consueto fluire di segni misteriosi però mai ostili. Assecondata
anch’essa da titoli rivelatori, la cospicua grafica di Klee esposta
(1910-1939), s’accende del suo gran talento satirico e immaginifico,
talvolta allegramente minaccioso, che fu dei suoi esordi di disegnatore e
caricaturista. Che insiste fino all’ultimo sulla favola, quasi sempre
inventata ma figlia della più alta tradizione morale, fra grottesco,
improvvise profezie materiche e una vertiginosa girandola da esploratore
e virtuoso di tutte le tecniche.
domenica 17 gennaio 2016
La vita, la morte e l'alba
Louis-Jean-François Lagrenée, Tithonus e Aurora (1763) |
Alessandro Baricco legge e commenta La cognizione del dolore. Un romanzo che il suo autore, Carlo Emilio Gadda, ha lasciato incompiuto.
Il posto prezioso che hanno i veri grandi scrittori nella nostra vita,la cosa per cui noi abbiamo una grande gratitudine nei loro confronti, è che loro sono capaci di dare nomi alla vita, alla nostra esistenza. Erano grandi perchè riuscivano a nominare le cose, alcune molto semplici ed altre molto molto più complicate.
Nominare è una cosa preziosa per tutti, dare i nomi alle cose; si danno i nomi alle cose per difendersi dalle cose.
Se non sapete nominarle, non sapete cosa sono e non sapete come difendervi da loro. Noi raccontiamo, loro – i grandi – nominano la vita. Uno è particolarmente caro perchè lavorava con la nostra lingua, Carlo Emilio Gadda. Egli sapeva nominare le cose più strane con esattezza e bellezza quasi irripetibili […] Vi leggerò gli ultimi due capoversi dal libro “ La cognizione del dolore”, un libro che non ha finito.
E’ parso di capire agli studiosi che queste sono effettivamente le ultime parole scritte dall’autore. La situazione, in due parole, è che una Signora è stata aggredita di notte e sta per morire; non si sa se morirà, non lo sapremo mai. Hanno passato la notte, quel che restava della notte, hanno cercato di curarla; adesso lei è stesa nel suo letto, quello che si poteva fare l’hanno fatto. E’ un’agonia silenziosa, in una stanza, questo è cio’ che accade nell’ultimo brandello di notte, ciò che accade dopo è l’alba. Quello che scrisse fu questo:
Lasciamola tranquilla disse il dottore, andate, uscite. Nella stanchezza senza soccorso in cui il povero volto si dovette raccogliere tumefatto, come in un estremo recupero della sua dignità, parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la sovrana coscienza dell’impossibilità di dire: -Io-. L’ausilio dell’arte medica, lenimento e pezzuole, dissimulò in parte l’orrore. Si udiva il residuo d’acqua ed alcool delle pezzuole strizzate, ricadere gocciolando in una bacinella ed alle stecche della persiana già l’alba. Il gallo improvvisamente la suscitò dai monti lontani perentorio ed ignaro come ogni volta. La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi, nella solitudine della campagna apparita.
Alessandro Baricco (spiegazione): “…parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la sovrana coscienza dell’impossibilità di dire: -Io- “.
L’autore ha espresso una cosa che molti di noi conoscono.
Quando tu vedi un agonizzante,uno che sta per morire, come dice lui…, i malati hanno tutti i capelli sudati, il pigiama sempre storto e la dentiera in giro, fanno fatica a tenere insieme questo corpo che sta per morire e mentre tu lo guardi c’è una parte di te che lo pensa -se poi tutto finisce così, cosa si salva di tutto quello che ho fatto?- .
Questa cosa noi vagamente la pensiamo ed è espressa in quella riga – Sovrana coscienza della impossibilità di dire -Io- – .
“…si udiva il residuo d’acqua ed alcool delle pezzuole strizzate”. Questa è una inquadratura cinematografica molto stretta. Lui te la rende con un suono -si udiva…- ma in realtà ti fa -vedere- con un rumore,un’immagine.
“…e alle stecche delle persiane già l’alba”.
Lui non dice -c’è l’alba- oppure -ce sta l’alba- , è -alba-
Ma non c’è il verbo! non c’è bisogno del verbo. Quello che tu vedi è nelle stecche delle persiane, il rimbalzo della luce. Più sei esatto e più quel nome resisterà. Se tu sei vago, i tuoi nomi durano una sera ma il giorno dopo non sai cosa fartene.
C’era da dire l’alba e lui dice questo:
“Il gallo improvvisamente la suscitò dai monti lontani perentorio ed ignaro come ogni volta”.
Il gallo è banale, ma che lui l’alba -la susciti- non è che la canta,che la chiama. C’è un verbo per quella cosa, nella nostra lingua c’è un verbo che dice -quella- cosa, ha il suono di quella cosa, è il nome di quella cosa.
Ultima frase. Come nei temi che si cercava di scrivere più bella non ho mai capito perchè, per lasciare una buona impressione e strappare il 6.
“La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi”.
Lei, l’alba, non -ce sta- e nemmeno arriva o si avvicina, ma-accede-. Elenca i gelsi… Voi ve lo immaginate questo viale di gelsi? E l’alba che arriva ed è luce che arriva: il primo gelso, il secondo; il terzo gelso, trrrrr, e sale ed intanto -elenca-. La luce è quello che fa, eh, nella vita la luce -elenca-. Prima non capisci, dopo di che elenca.
Come l’elenco dei lavori fatti dal meccanico, faro, fanalino…Tu sai finalmente cos’ha fatto. Arriva la luce e tu -sai-. Quello che fa è elencare.
Guardate… in tre parole c’è un movimento e c’è il senso di un gesto, il senso della luce per sempre bloccato lì: elencare i gelsi.
“Nella solitudine della campagna apparita”.
Qui c’è una cosa di tempo molto bella. Lui inizia la frase che l’alba arriva -elenca i gelsi- e la finisce -nella solitudine della campagna apparita- fohp! E’ arrivata.
In una frase, l’inizio dell’alba e poi ti guardi intorno, è arrivata. Spazio, tempo tutto in una frase. Questa ultima frase è una melodia, un canto. Non si sente niente tipo -truffa, propano o propellente- è la danza dell’alba.
Noi possiamo sentire anche il suono, nessuna traduzione al mondo potrà restituirlo.
venerdì 15 gennaio 2016
Robles, un libro sull'assenza
Wlodek Goldkorn
Desaparecidos
Noi vittime della storia siamo tutti una famiglia
la Repubblica, 9 gennaio 2016
Raquel Robles racconta in un romanzo la sua esperienza di figlia di desaparecidos argentini
Raquel Robles aveva poco più di quattro anni, quando, un giorno d’aprile, in casa si presentarono i militari. Gli uomini in armi portarono via il padre e la madre. Raquel non li rivide più. Oggi Robles, figlia di due desaparecidos argentini (due dei trentamila, giovani e meno, uccisi in segreto e senza che i loro corpi potessero avere una sepoltura degna degli umani) ha 45 anni, è scrittrice e donna impegnata in politica, ma anche insegnante, specializzata nel lavoro con adolescenti in gravi difficoltà. La sua vicenda l’ha voluta narrare in un romanzo: Piccoli combattenti, ora pubblicato da Guanda (traduzione di Iaia Caputo, pagg. 160, euro 15).
La prosa di Robles è asciutta e precisa. Le parole non sono mai troppe né usate per indurre il lettore a versare una gratuita lacrima. Piccoli combattenti è un romanzo che a buon diritto può entrare nel filone della grande letteratura, di quella narrativa che scarta il superfluo per parlare dell’essenziale: amore, paura, morte, identità, la labilità della memoria. E tra le pagine, oltre alla vicenda di una bambina che cresce in casa degli zii, con due nonne e un fratellino di 18 mesi più piccolo di lei, torna più volte il riferimento al ghetto di Varsavia, agli insorti del quartiere ebraico, a Irena Sendler, una donna che salvò 2.500 bambini ebrei e fu orrendamente torturata dai nazisti (le spezzarono le gambe e le mani): quasi a sottolineare quanto la vicenda dei desaparecidos assomigli (lo avevano già intuito scrittori come Nathan Englander e Elsa Osorio) al meccanismo che in Europa portò alla Shoah. L’abbiamo intervistata.
Quanta autobiografia c’è nel suo romanzo?
«Se per autobiografia intende l’adesione precisa ai fatti, rimarrà deluso. Ci sono molti ricordi, ma ho lasciato lavorare la mia immaginazione. Ho voluto raccontare i sentimenti, le emozioni; non essere fedele ai fatti».
Sta dicendo che la memoria è frutto della nostra immaginazione e che il passato come lo vediamo è in gran parte proiezione dei nostri desideri?
«Noi, e quando dico noi, intendo la gente che ha sofferto, siamo chiamati a ricordare. E quando usiamo la parola ricordare pensiamo istintivamente a una memoria solida che può essere ritrovata e riprodotta. Ma è un’idea sbagliata. La memoria è invece il ricordo degli stati d’animo».
Il suo è un libro sull’assenza. Assenza dei genitori, assenza degli affetti. Cosa è la memoria quando si ha a che fare con l’assenza?
«Quando vivi nell’assenza diventi ossessionato dalla ricerca della verità perché hai il costante sospetto che tutto quello che ricordi è inventato. Però, a pensarci bene anche chi ha avuto i genitori fino a un’età avanzata, non può ricordare tutto di loro. Io, mia madre e mio padre li ho persi prestissimo e in una maniera brutale. Ma a un certo punto ho capito che dovevo liberarmi da questa ossessione. E quando me ne sono affrancata, ho capito e sentito di poter scrivere questo libro. E a proposito: vorrei aggiungere una cosa su Primo Levi».
Vuol parlare del valore della testimonianza? Primo Levi era un testimone così credibile perché era prima di tutto un grande narratore.
«D’accordo. Però era ossessionato dalla memoria, perché temeva di non essere creduto. E invece la verità “oggettiva” è materia forense non di letteratura ».
Vuol dire che non le piace Primo Levi?
«Al contrario. Lo adoro. Se questo è un uomo lo rileggo almeno una volta l’anno. E ogni volta vorrei avere Levi davanti a me per potergli dire: “Tu sei un grandissimo scrittore. Ti leggo non per trovare la verità su Auschwitz, ma perché hai scritto libri bellissimi, perché sei un maestro nel narrare le emozioni. E non importa se i dettagli corrispondono a quello che gli avvocati e i giudici considerano la verità”».
Abbiamo parlato dell’assenza. Si possono amare genitori assenti, come lo erano i suoi?
«Sì. Intanto, non erano del tutto assenti, ho dei ricordi di loro. E so che mi hanno amata. Sa cosa è l ‘opposto dell’amore? ».
Lo dica lei.
«Non è indifferenza. L’opposto dell’amore è una sensazione che si prova quando si è sperimentato l’amore. Quando penso ai miei zii che mi hanno cresciuto, so che mi volevano bene. Ma non era l’amore materno. D’altronde io sapevo cosa fosse l’amore materno perché l’ho provato in precedenza».
Non è arrabbiata con i suoi genitori?
L’hanno abbandonata per una causa politica.
«Da bambina lo ero. Ma sapevo anche che il colpevole della loro morte e quindi del mio abbandono era il Nemico (così la scrittrice chiama i militari nel romanzo Piccoli combattenti, ndr). Sono sempre stata più matura della mia età anagrafica. Non ho avuto un’infanzia vera, sentivo il dovere di badare a mio fratello. Però sapevo che mio padre e mia madre non si sono suicidati. Mia madre era una poetessa, mio padre un agronomo, amavano la vita. È il Nemico che cercava la morte. Oggi, sono grata ai miei genitori, erano persone perbene. Nel mio libro la nonna dice: “La morte non è importante, importante è la dignità”».
Non le sembra invece che anche la morte eroica è assurda?
«Sono d’accordo nel rigettare l’idea romantica della morte. Avrei preferito che Che Guevara fosse vivo. Morendo non si guadagna niente, si diventa il nulla e le nostre parole servono solo a riempire il vuoto. Ma, ripeto, i miei genitori sono stati ammazzati, non hanno cercato la morte».
Lei si identifica con gli insorti del ghetto di Varsavia. Perché?
«Mia nonna materna era ebrea. Da bambina frequentavo un’associazione ebraica culturale di sinistra (Ikuf) e partecipavo ai campi estivi. Ogni anno celebravamo l’anniversario dell’insurrezione. I miei zii comunisti, poi, mi hanno insegnato che la storia non è solo la storia del tuo paese, ma di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà ovunque, in qualsiasi posto. Gli insorti del ghetto sono parte della mia famiglia».
E oggi?
«Il Nemico è sempre presente. Uccide e occulta i corpi degli assassinati. Ovunque nel mondo. Guardi l’Europa. I profughi sono considerati non umani. E, finché il capitalismo governerà il mondo, non cesserà questo modo di pensare. La logica del capitalismo è egoismo, è ritenere che io sto bene perché sono migliore di coloro che stanno male e quindi posso essere indifferente. I peggiori non sono gli assassini, ma coloro che giustificano i crimini».
Desaparecidos
Noi vittime della storia siamo tutti una famiglia
la Repubblica, 9 gennaio 2016
Raquel Robles racconta in un romanzo la sua esperienza di figlia di desaparecidos argentini
Raquel Robles aveva poco più di quattro anni, quando, un giorno d’aprile, in casa si presentarono i militari. Gli uomini in armi portarono via il padre e la madre. Raquel non li rivide più. Oggi Robles, figlia di due desaparecidos argentini (due dei trentamila, giovani e meno, uccisi in segreto e senza che i loro corpi potessero avere una sepoltura degna degli umani) ha 45 anni, è scrittrice e donna impegnata in politica, ma anche insegnante, specializzata nel lavoro con adolescenti in gravi difficoltà. La sua vicenda l’ha voluta narrare in un romanzo: Piccoli combattenti, ora pubblicato da Guanda (traduzione di Iaia Caputo, pagg. 160, euro 15).
La prosa di Robles è asciutta e precisa. Le parole non sono mai troppe né usate per indurre il lettore a versare una gratuita lacrima. Piccoli combattenti è un romanzo che a buon diritto può entrare nel filone della grande letteratura, di quella narrativa che scarta il superfluo per parlare dell’essenziale: amore, paura, morte, identità, la labilità della memoria. E tra le pagine, oltre alla vicenda di una bambina che cresce in casa degli zii, con due nonne e un fratellino di 18 mesi più piccolo di lei, torna più volte il riferimento al ghetto di Varsavia, agli insorti del quartiere ebraico, a Irena Sendler, una donna che salvò 2.500 bambini ebrei e fu orrendamente torturata dai nazisti (le spezzarono le gambe e le mani): quasi a sottolineare quanto la vicenda dei desaparecidos assomigli (lo avevano già intuito scrittori come Nathan Englander e Elsa Osorio) al meccanismo che in Europa portò alla Shoah. L’abbiamo intervistata.
Quanta autobiografia c’è nel suo romanzo?
«Se per autobiografia intende l’adesione precisa ai fatti, rimarrà deluso. Ci sono molti ricordi, ma ho lasciato lavorare la mia immaginazione. Ho voluto raccontare i sentimenti, le emozioni; non essere fedele ai fatti».
Sta dicendo che la memoria è frutto della nostra immaginazione e che il passato come lo vediamo è in gran parte proiezione dei nostri desideri?
«Noi, e quando dico noi, intendo la gente che ha sofferto, siamo chiamati a ricordare. E quando usiamo la parola ricordare pensiamo istintivamente a una memoria solida che può essere ritrovata e riprodotta. Ma è un’idea sbagliata. La memoria è invece il ricordo degli stati d’animo».
Il suo è un libro sull’assenza. Assenza dei genitori, assenza degli affetti. Cosa è la memoria quando si ha a che fare con l’assenza?
«Quando vivi nell’assenza diventi ossessionato dalla ricerca della verità perché hai il costante sospetto che tutto quello che ricordi è inventato. Però, a pensarci bene anche chi ha avuto i genitori fino a un’età avanzata, non può ricordare tutto di loro. Io, mia madre e mio padre li ho persi prestissimo e in una maniera brutale. Ma a un certo punto ho capito che dovevo liberarmi da questa ossessione. E quando me ne sono affrancata, ho capito e sentito di poter scrivere questo libro. E a proposito: vorrei aggiungere una cosa su Primo Levi».
Vuol parlare del valore della testimonianza? Primo Levi era un testimone così credibile perché era prima di tutto un grande narratore.
«D’accordo. Però era ossessionato dalla memoria, perché temeva di non essere creduto. E invece la verità “oggettiva” è materia forense non di letteratura ».
Vuol dire che non le piace Primo Levi?
«Al contrario. Lo adoro. Se questo è un uomo lo rileggo almeno una volta l’anno. E ogni volta vorrei avere Levi davanti a me per potergli dire: “Tu sei un grandissimo scrittore. Ti leggo non per trovare la verità su Auschwitz, ma perché hai scritto libri bellissimi, perché sei un maestro nel narrare le emozioni. E non importa se i dettagli corrispondono a quello che gli avvocati e i giudici considerano la verità”».
Abbiamo parlato dell’assenza. Si possono amare genitori assenti, come lo erano i suoi?
«Sì. Intanto, non erano del tutto assenti, ho dei ricordi di loro. E so che mi hanno amata. Sa cosa è l ‘opposto dell’amore? ».
Lo dica lei.
«Non è indifferenza. L’opposto dell’amore è una sensazione che si prova quando si è sperimentato l’amore. Quando penso ai miei zii che mi hanno cresciuto, so che mi volevano bene. Ma non era l’amore materno. D’altronde io sapevo cosa fosse l’amore materno perché l’ho provato in precedenza».
Non è arrabbiata con i suoi genitori?
L’hanno abbandonata per una causa politica.
«Da bambina lo ero. Ma sapevo anche che il colpevole della loro morte e quindi del mio abbandono era il Nemico (così la scrittrice chiama i militari nel romanzo Piccoli combattenti, ndr). Sono sempre stata più matura della mia età anagrafica. Non ho avuto un’infanzia vera, sentivo il dovere di badare a mio fratello. Però sapevo che mio padre e mia madre non si sono suicidati. Mia madre era una poetessa, mio padre un agronomo, amavano la vita. È il Nemico che cercava la morte. Oggi, sono grata ai miei genitori, erano persone perbene. Nel mio libro la nonna dice: “La morte non è importante, importante è la dignità”».
Non le sembra invece che anche la morte eroica è assurda?
«Sono d’accordo nel rigettare l’idea romantica della morte. Avrei preferito che Che Guevara fosse vivo. Morendo non si guadagna niente, si diventa il nulla e le nostre parole servono solo a riempire il vuoto. Ma, ripeto, i miei genitori sono stati ammazzati, non hanno cercato la morte».
Lei si identifica con gli insorti del ghetto di Varsavia. Perché?
«Mia nonna materna era ebrea. Da bambina frequentavo un’associazione ebraica culturale di sinistra (Ikuf) e partecipavo ai campi estivi. Ogni anno celebravamo l’anniversario dell’insurrezione. I miei zii comunisti, poi, mi hanno insegnato che la storia non è solo la storia del tuo paese, ma di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà ovunque, in qualsiasi posto. Gli insorti del ghetto sono parte della mia famiglia».
E oggi?
«Il Nemico è sempre presente. Uccide e occulta i corpi degli assassinati. Ovunque nel mondo. Guardi l’Europa. I profughi sono considerati non umani. E, finché il capitalismo governerà il mondo, non cesserà questo modo di pensare. La logica del capitalismo è egoismo, è ritenere che io sto bene perché sono migliore di coloro che stanno male e quindi posso essere indifferente. I peggiori non sono gli assassini, ma coloro che giustificano i crimini».
giovedì 14 gennaio 2016
Eros sotto la Mole
Alessia Laudati
Eros sotto la Mole
Dal 14 al 17 gennaio il primo festival
internazionale dedicato al cinema erotico
La Stampa, 14 gennaio 2015Il sesso è ovunque; e le sue immagini allusive contaminano la pubblicità, la televisione e in generale il linguaggio visivo. Dell'eros - ovvero quell'insieme di significati sociali, culturali e personali che accendono il desiderio - invece si parla meno. Ed è per questo che a Torino dal 14 al 17 gennaio 2016, la sessualità sarà per la prima volta al centro dell'edizione inaugurale di Fish&Chips Film Festival – Festival Internazionale del Cinema Erotico. Il Cinema Massimo, luogo dove avranno sede proiezioni e incontri dedicati al tema del desiderio, sia esso laico, sperimentale, sfacciato e ironico, vedrà quasi i propri muri arrossire di eccitazione o imbarazzo.
Perché nei giorni del Festival, si parlerà di sessualità in maniera libera e contando su numerosi contributi offerti dall'arte audiovisiva e non solo. Promosso da Altera e realizzato in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema, Fish&Chips vuole raccontare l'eros oltre l'asfissia degli stereotipi. “Siamo immersi in una società sovrastimolata da immagini e messaggi allusivi, ma che non tratta l'argomento nella sua accezione più profonda e intima, rimanendo spesso legata a stereotipi e tabù - dichiara Chiara Pellegrini, direttrice artistica del Festival - vogliamo scoprire insieme al pubblico cosa si produce di nuovo in questo ambito, spesso rilegato negli ambienti underground, e mostrare opere che siano spunto per una sana e critica riflessione sul tema.” Tre i filoni principali del film festival, troviamo uno dedicato a 3 delle figure femminili che hanno rivoluzionato l'immaginario del cinema erotico - Laura Antonelli, Candida Royalle e Erika Lust - uno dedicato al concorso vero e proprio - 11 lungometraggi internazionali e 30 cortometraggi - e infine un ciclo di incontri dedicato anche al tema dell'assistenza sessuale. L'apertura invece - che avverrà giovedì 14 gennaio - sarà segnata dalla proiezione di Love di Gaspar Noè, film presentato a Cannes che ha al centro la storia di un'ossessione sessuale travolgente.
martedì 12 gennaio 2016
Bertinotti, rosso di sera
Marcello Sorgi
Bertinotti, il sol dell’avvenire dietro le spalle
La Stampa, 12 gennaio 2015
Da quanto tempo non si sentiva più parlare di lotta di classe, movimento operaio, capitalismo, sinistra? Fausto Bertinotti - per dodici anni, dal ’94 al 2006, leader di Rifondazione comunista e per due, dal 2006 al 2008, presidente della Camera - lo fa in un breve e agile pamphlet, scritto sotto forma di intervista con Carlo Formenti, pervaso di amarezza fin dal titolo, Rosso di sera (Edizioni Fuoripista, pp. 108, € 12), anche se si sa che in molti casi un tramonto infuocato fa sperare nel bel tempo.
Per la sinistra, non solo quella radicale, non è affatto un bel momento. Né può essere una consolazione aver assistito alla sconfitta della socialdemocrazia, che a lungo ha cercato di imporre la propria ricetta di governo a quella parte dello schieramento di centrosinistra che invece sosteneva le ragioni del conflitto. La mutazione genetica s’è compiuta, grazie al fallimento dell’ipotesi di «compromesso fra Capitale e lavoro seguito alla Seconda guerra mondiale». Nel panorama politico contemporaneo, non solo nazionale, spiccano un capitalismo sempre più globale e finanziarizzato seguito al crollo del comunismo, il trionfo del liberismo e delle trasformazioni sociali che hanno rotto (per sempre?) l’unità delle classi subalterne. Dalla crisi delle socialdemocrazie «è emerso un inedito animale politico: un partito di centro che pesca voti ovunque e si candida a gestire il nuovo ordine liberista».
È abbastanza facile riconoscere nell’identikit il Partito democratico di Renzi, rispetto al quale tuttavia Bertinotti non ha particolari motivi di polemica, riservati invece alla minoranza post-comunista e più in generale a tutta l’esperienza del Pci. Lo stesso schema si applica a Blair e alla crisi del laburismo inglese (con qualche simpatia per il nuovo leader Corbin) e, con maggior delusione, a Tsipras, dopo l’entusiasmo per la vittoria popolare nel referendum e l’errore delle divisioni che l’hanno seguita. Nel vuoto aperto dalla crisi si sono inseriti i movimenti populisti che prosperano in tutta Europa, e questo non lascia molte speranze per la sinistra. Anche se si sa: in politica, mai dire mai.
domenica 10 gennaio 2016
Un divertimento, l'eccesso di una notte
Kamel Daoud
Il corpo delle donne e il desiderio di libertà di quegli uomini sradicati dalla loro terra
la Repubblica, 10 gennaio 2016
... In Occidente il rifugiato o l’immigrato potrà
salvare il suo corpo ma non patteggerà altrettanto facilmente con la
propria cultura, e di ciò ce ne dimentichiamo con sdegno. La cultura è
ciò che gli resta di fronte a sradicamento e traumi provocati in lui
dalla nuova terra. In alcuni casi il rapporto con la donna —
fondamentale per la modernità dell’Occidente — rimarrà incomprensibile a
lungo, e ne negozierà i termini per paura, compromesso o desiderio di
conservare la “propria cultura”. Ma tutto ciò può cambiare solo molto
lentamente. Le adozioni collettive peccano di ingenuità, limitandosi a
risolvere i problemi burocratici e si esplicano attraverso la carità.
Il rifugiato è dunque un “selvaggio”? No. È
semplicemente diverso, e munirlo di pezzi di carta e offrirgli un
giaciglio collettivo non può bastare a scaricarci la coscienza. Occorre
dare asilo al corpo e convincere l’animo a cambiare. L’Altro proviene da
quel vasto universo di dolori e atrocità che è la miseria sessuale nel
mondo arabo-musulmano. Accoglierlo non basta a guarirlo. Il rapporto con
la donna rappresenta il nodo gordiano nel mondo di Allah. La donna è
negata, uccisa, velata, rinchiusa o posseduta. È l’incarnazione di un
desiderio necessario, e per questo ritenuta colpevole di un crimine
orribile: la vita. Una convinzione condivisa, che negli islamisti appare
palese. Poiché la donna è donatrice di vita e la vita è una perdita di
tempo, la donna è assimilabile alla perdita dell’anima.
Il corpo della donna è il luogo pubblico della
cultura: appartiene a tutti, ma non a lei. Qualche anno fa, a proposito
dell’immagine della donna nel mondo detto arabo si scrisse: «La donna è
la posta in gioco, senza volerlo. Sacralità, senza rispetto della
propria persona. Onore per tutti, ad eccezione del proprio. Desiderio di
tutti, senza un desiderio proprio. Il suo corpo è il luogo in cui tutti
si incontrano, escludendola. Il passaggio alla vita che impedisce a lei
stessa di vivere».
È questa libertà che il rifugiato, l’immigrato,
desidera ma non accetta. L’Occidente è visto attraverso il corpo della
donna: la libertà della donna è vista attraverso la categoria religiosa
di ciò che è lecito o della “virtù”.
Il corpo della donna non è visto come luogo
stesso di libertà, in Occidente un valore fondamentale, ma di degrado.
Per questo lo si vuole ridurre a qualcosa da possedere o a una
nefandezza da “velare”. La libertà di cui la donna gode in Occidente non
è vista come il motivo della sua supremazia ma come un capriccio del
suo culto della libertà. Di fronte ai fatti di Colonia l’Occidente
(quello in buona fede) reagisce perché è stata toccata “l’essenza”
stessa della sua modernità — laddove l’aggressore non ha visto altro che
un divertimento, l’eccesso di una notte di festa e bevute.
Colonia è dunque il luogo dei fantasmi. Quelli
elaborati dall’estrema destra che evoca le invasioni barbariche e quelli
degli aggressori, che vogliono che il corpo sia nudo perché è
“pubblico” e non appartiene a nessuno. Non si è aspettato di sapere chi
fossero i responsabili, perché nei giochi di immagini, riflessi e luoghi
comuni, tale dato non conta poi molto. E non si vuole ancora capire che
dare asilo non significa semplicemente distribuire “carte” ma richiede
di accettare un contratto sociale con la modernità.
La solitudine delle donne aggredite
Natalia Aspesi
Tutti i branchi dei maschi
La Repubblica, 10 gennaio 2015
Quella notte le donne venivano aggredite, spogliate, picchiate, derubate. Venivano derise da un muro di maschi stranieri organizzati, e intanto ai maschi poliziotti tutto sembrava un gioco festoso da non interrompere, e i maschi cittadini che presumibilmente accompagnavano le donne o comunque attraversavano la piazza come loro preferivano guardare dall’altra parte, evitando di intervenire a difendere le vittime assalite da maschi migranti e apparentemente non armati, quindi pericolosi ma non troppo.
Quella notte, a Colonia, ma anche altrove, le donne si sono ritrovate completamente sole, tra maschi violenti, maschi indifferenti, maschi spaventati. Di nuovo dentro la loro storia secolare di isolamento, impotenza, sopraffazione, abbandono, pericolo, che ogni tanto sembra finita e invece non lo è mai: probabilmente ancora una volta usate per consentire a un branco di maschi di disprezzarle e rimetterle al loro posto di sottomissione e irrilevanza, e a un altro branco di maschi di ergersi, dopo i fatti e solo a parole, a indispensabili protettori, a eroici paladini della loro libertà, che per secoli hanno ostacolato e ostacolano tuttora; e a un altro branco ancora a servirsene come pedine di una sporca politica.
Ma da quando le donne, e si parla solo di quelle occidentali, e in particolare le italiane, sono libere davvero, non solo per le tante nuove leggi degli ultimi settant’anni? Ci sono frammenti di realtà che rinascono dalla memoria individuale o scopri in un film: e per esempio negli Anni ’50 il ricordo che se il parto metteva a rischio la vita della madre o del bambino, era il marito che doveva scegliere chi poteva vivere, ed era sempre il bambino. Oppure, nel recente grande film tedesco Il labirinto del silenzio, un giornale radio della fine degli Anni ’50 informa che da quel momento le donne, se sposate, potranno lavorare solo col consenso del marito. Piccoli omicidi, minuscoli ostacoli, dentro un mondo di esclusione e impotenza delle donne, di supremazia e potere degli uomini.
Certo le donne fanno i ministri e i capi di Stato, spesso benissimo ma è sempre non sulla loro capacità politica ma sul loro corpo di donna che gli avversari l’attaccano: culona, non la scoperei mai, lesbicaccia, cesso eccetera. Gli attacchi sul web contro i pensieri delle donne, metti povere loro che non gli piaccia Zalone e lo mettano su Facebook: le minacce di morte sono il meno, e i più violenti verbalmente, se le avessero davanti, forse strapperebbero loro gli slip come a Colonia.
Anche le donne occidentali non sono quiete da nessuna parte, in piazza le assaltano gli immigrati ma spesso il branco è del paese, e anche in casa devono stare attente, gli stessi loro uomini che non le avrebbero difese a Colonia possono sempre spaccar loro la testa.
sabato 9 gennaio 2016
Un terrorismo della vita quotidiana
Elisabetta Rasy
La sicurezza delle donne, l’altra emergenza
Il Sole 24ore, 9 gennaio 2015
È
molto probabile che le donne aggredite a Colonia nella notte di
Capodanno facessero parte di quel molto diffuso gruppo di europei che si
battono, con militanza vera e propria o nel profondo della propria
coscienza, contro l’islamofobia. Donne molte delle quali non
accompagnate, sicure di essere libere, magari con altre amiche, di
godersi in allegria una serata di festa in mezzo alla gente: donne
dunque senza diffidenza, senza pregiudizi. Così come senza pregiudizi,
cittadini del mondo e della libertà, erano sicuramente la gran parte dei
morti di novembre a Parigi. Ma per aggredire le libere ragazze di
Colonia non servivano né kalashnikov né bombe, neppure i coltelli,
bastavano le armi tradizionali che nelle società tradizionali gli uomini
hanno usato contro le donne: le proprie peggiori pulsioni e il proprio
corpo violento. Questi due elementi, la pacifica e ben disposta libertà
delle vittime e la mancanza di armi tradizionali (il che vuol dire un
terrorismo della vita quotidiana che può essere organizzato solo con un
semplice passa-parola) hanno cambiato definitivamente volto, nel 2015,
alla questione dell’integrazione, degli immigrati, dei rifugiati e del
multiculturalismo.
Da oggi in poi, per forza
di cose, ogni ottimismo della volontà in materia non sarà più
possibile. Non si può più dire che sono i giovani della banlieue
sfavoriti rispetto ai loro coetanei che vanno ai concerti rock o al
ristorante. Non si può più parlare, salvo suscitare un imbarazzante
ridicolo, di colpe dell’Occidente, di tragici esiti di politiche
coloniali e postcoloniali errate, di guerre ingiuste. No. Qui in campo
c’erano delle ragazze che non rappresentavano niente se non se stesse,
inermi e sorridenti nella notte di festa. E tanto è bastato.
Se
nel caso di bande terroristiche armate si discute di guerra
asimmetrica, qui non si può che riesumare la vecchia formula dello
scontro di civiltà. Purtroppo è così: sappiamo bene che la condizione
femminile è uno degli indici in base ai quali si valuta il grado di
democrazia e complessivo benessere di una società. Ma la condizione
femminile è anche questione di sguardi: se chi guarda una donna non vede
che una preda da attaccare – in vari modi, dai più ipocriti come i
matrimoni combinati ai più violenti come l’acidificazione o la morte –
siamo di fronte a una differenza basilare che nessuna buona volontà può
negare.
È ora impossibile ascoltare discorsi
di mediazione, quei discorsi degli arabi moderati che con sincerità
sostengono che il vero Islam è rispettoso delle donne. Sarebbe come
tirare in ballo la morale cristiana ogni volta che da noi c’è uno
stupro. Che cosa sostenga sulle donne il vero Islam conta poco se è
possibile a un gruppo di uomini persino ubriachi – e dunque non
necessariamente coordinati e organizzati – circondare, intimidire e
aggredire sessualmente donne che circolano pacificamente per strada. È
persino esagerato dire che quelle donne incarnavano un’idea estrema di
libertà femminile: erano semplici cittadine in una notte di festa, senza
niente di trasgressivo, senza niente di provocatorio.
Questo
pone per tutti un problema difficile, ma lo pone soprattutto per tutti
coloro che si battono per l’accoglienza e la tolleranza delle altre
culture, e si battono giustamente perché la tolleranza e l’accoglienza
fanno parte di quella stessa idea occidentale del diritto e della
libertà che consente a delle ragazze di andarsene in giro a festeggiare
la notte dell’anno. Suonano molto male in questi giorni le chiamate alla
xenofobia: non si può difendere la libertà e il diritto alla sicurezza
essendo xenofobi o razzisti. È una contraddizione palese e bisogna
sottolinearlo con forza.
Ma suonano anche
male le parole di chi sostiene che anche nella nostra società la
tentazione patriarcale è sempre attiva, che anche qui le donne sono
aggredite, stuprate e uccise. È vero, ma qui da decenni su decenni è in
corso una battaglia condotta dalle donne stesse in primo luogo e poi
dalle istituzioni perché questo non avvenga, e di fatto, per quanto
l’onda misogina non sia mai del tutto sconfitta, si tratta sempre
dell’eccezione non della regola. Nel caso di Colonia è evidente che per
la mentalità degli aggressori attaccare le donne – se non velate,
controllate, sottomesse – è la regola, non l’eccezione.
Tutti
dicono oggi che bisogna ripensare il wilkommen, la politica
dell’accoglienza. È la sfida non dell’anno che nasce ma di tutto il
secolo, cominciata l’11 settembre del 2001. Le cose da rifare, quelle da
revisionare o da cambiare sono tante e spetta agli organismi competenti
– governi sovranazionali nazionali e locali – impegnarsi a fondo, nella
convinzione che battersi per l’uguaglianza significa comprendere e
affrontare le diversità, anche e in primo luogo tra immigrato e
immigrato e tra rifugiato e rifugiato, tenendo ben distinto, come ci ha
insegnato il Vangelo, il grano dal loglio. Ma tra le tante emergenze che
ci assediano e le tante ipotesi di una nuova possibile accoglienza e
integrazione da vagliare, una cosa è certa fin da ora: la sicurezza
delle donne è sempre più all’ordine del giorno.
venerdì 8 gennaio 2016
Colonia, i fatti e la loro risonanza
Violenze Colonia, lascia il capo della polizia. "Anche 18 rifugiati tra gli oltre 30 identificati"
Accusati di lesioni personali e furto. Merkel valuta stretta su espulsioni: "Verità o danno a maggioranza". Casi anche in Svezia. Il premier slovacco, Robert Fico, chiede convocazione di summit Ue straordinario per discutere l'ondata di violenze a sfondo sessuale
La Repubblica di oggi
COLONIA - A una settimana dalle violenze contro centinaia di donne a Colonia durante la notte di Capodanno il capo della polizia tedesca, Wolfgang Anders, ha lasciato il suo posto, più precisamente è stato sospeso dal servizio, nonostante avesse ripetetuto di non sentirsi in alcun modo responsabile. Il tentativo della polizia tedesca di minimizzare l'ondata di molestie e violenze a Colonia, evento replicato anche ad Amburgo e Stoccarda, da parte di uomini di aspetto "arabo e nordafricano" è fallito.
Le forze dell'ordine hanno fermato oggi 32 sospetti. Tra questi 18 sono richiedenti asilo, un elemento destinato a mettere in difficoltà la cancelliera Angela Merkel e la sua politica delle porte aperte ai profughi. Il portavoce del ministero dell'Interno tedesco, Tobias Plate, ha spiegato che la maggior parte dei 32 atti criminali documentati dalla polizia federale nella notte riguarda il furto e lesioni personali. Tre riguardavano aggressioni sessuali.
La cancelliera ritiene importante "che la piena verità sia messa sul tavolo" senza "sconti ed edulcorazioni". Diversamente si avrebbe un "danno" allo stato di diritto e alla grande maggioranza dei profughi che non ha alcuna colpa e cerca protezione. Merkel insomma non arretra dalla sua posizione 'negazionista' iniziale: "Prima di tutto questo non è (un problema) legato ai profughi ma un caso di criminalità", ha dichiarato il suo portavoce George Streiter aggiungendo allo stesso tempo che "è importante che tutta la verità esca fuori e che nulla venga taciuto e che non si passi sotto silenzio nulla". Per la cancelliera non bisogna automaticamente sospettare di tutti i migranti, malgrado le vittime abbiano denunciato molestie da uomini di aspetto "arabo o nordafricano".
Le ripercussioni. Il premier slovacco, Robert Fico, ha chiesto la convocazione di summit Ue straordinario per discutere dell'ondata di violenze a sfondo sessuale: "Sarà necessario convocare un summit straordinario. Dobbiamo modificare il calendario approvato recentemente poiché non possiamo aspettare fino all'autunno, dati gli eventi", ha affermato il premier, parlando con la stampa. Ieri Fico aveva annunciato che, in seguito ai fatti di Colonia, il governo slovacco non vuole più accogliere profughi musulmani. Reagiscono anche i partiti di estrema destra in tutta Europa. In una lettera aperta al premier olandese Mark Rutte il leader del partito xenofobo Pvv Geert Wilders commenta l'ondata di molestie parlando di "terrorismo e jihad sessuale", ed invita a "chiudere subito i confini" del Paese e ad iniziare "a de-islamizzare l'Olanda". Wilders ricorda che da anni le "violenze sessuali di non-Occidentali" sono una piaga in Svezia e Norvegia e afferma: "questo sta venendo verso di noi ora".
I 32 sospetti sono stati interrogati. Nove sono algerini, 8 marocchini, 4 siriani, 5 iraniani, un iracheno, più un serbo, un cittadino americano e tre tedeschi che si sono uniti al branco. Sono sospettati per lo più di furti e lesioni corporali. Finora nessuno dei 18 profughi identificati è collegato a casi di molestie sessuali. Ci sono anche tre denunce per delitti sessuali rispetto alle quali non vi sono per ora dei sospettati, dice il ministero dell'Interno. La polizia ha fatto sapere di aver arrestato e poi rilasciato un ragazzino di 16 anni e un ventitreenne di origine nordafricana. Secondo la Bild, diversi stranieri sono stati fermati ieri sera dalla polizia locale.
I cellulari sequestrati. Secondo quanto riportato dal Koelner Stadt Anzeiger, gli inquirenti avevano sequestrato alcuni cellulari con le immagini delle aggressioni a donne e un foglietto di appunti con frasi in arabo e tedesco con espliciti riferimenti sessuali. La Bild on line ha pubblicato un biglietto giallo con appunti presi a mano. Tra le frasi segnate, "voglio scopare", "ti voglio baciare", "sto scherzando con lei", "io la uccido". Nella sola notte di Capodanno la polizia ha ricevuto 170 denunce, 120 di natura sessuale.
...
I media tedeschi. Intanto i media tedeschi continuano a tenere alta l'attenzione attorno ai gravi episodi della notte di Capodanno e anche sulla confusione e sulle contraddizioni delle affermazioni della polizia: "Siamo stati ingannati?", si chiede la Bild, che riporta la dichiarazione del capo della polizia di colonia del 5 gennaio: "Non abbiamo informazioni sui responsabili" e la mette a confronto con il rapporto della polizia del 2 gennaio che parla di 71 schedature, 11 fermi, 4 arresti.
Rabbia sui social arabi. La rabbia nei confronti degli aggressori di Colonia corre in queste ore su Twitter dove, secondo la Bbc, gli hashtag in lingua araba di #Germania e #Colonia sono stati utilizzati già 17.000 e 2.500 volte. Le molestie sessuali della notte di San Silvestro "provocheranno una vergogna di proporzioni storiche" in tutti gli arabi che vivono in Germania, twitta @Osama_Saber. Israa Ragab, un egiziano che vive in Germania, confessa su Facebook "di non essersi mai sentito più rispettato che qui e ora, ogni volta che sento alla televisione che i responsabili potrebbero essere nordafricani o arabi mi vergogno e sono disgustato". Netta la condanna degli aggressori da parte di @LLLLoL00 che sul suo account Twitter scrive: "Ogni volta che cerchiamo di migliorare l'immagine degli arabi, un branco di stronzi distrugge tutto!". Ma sui social media c'è anche chi esprime il timore che questi episodi di violenza possano portare, come di fatto sta già avvenendo, a una stretta sulle politiche nei confronti dei migranti, non solo in Germania. "L'Europa si pentirà di accogliere persone che sono vittima di repressione politica e religiosa?", twitta‏@Farcry99. E per qualcuno adesso "la Germania potrebbe cominciare a chiudere le porte ai rifugiati".
https://palomarblog.wordpress.com/2016/01/07/capodanno-a-colonia/
https://palomarblog.wordpress.com/2016/01/08/il-nome-e-la-cosa-una-riflessione/
mercoledì 6 gennaio 2016
La formazione della mitologia cristiana
Silvia Ronchey
Tutti gli dèi nascosti dietro al dio chiamato Gesù
Riti di Mitra, misteri dionisiaci, saturnali e la “vera” Epifania. Ritorna “Jesus Rex”, il capolavoro di Robert Graves
la Repubblica, 6 gennaio 2015
Nel 1614 Keplero, dopo laboriosi calcoli, dimostrò che nel 7 a.C., quando dovette grossomodo avere luogo la nascita di Gesù (che il calendario etiopico colloca nell’8 a.C. e che comunque non poté precedere il 5 a.c., anno di morte di Erode), Giove e Saturno ebbero tre congiunzioni ravvicinate nella costellazione del Pesce, un evento raro che avviene ogni svariate centinaia di anni e che era stato tuttavia già, previsto, si dice, dagli astronomi caldei. Una di queste congiunzioni fu nel mese di dicembre. Non che l’evento in sé spieghi la “stella grandissima”, che secondo i testi sacri — Matteo 2, 1-12, ma soprattutto gli apocrifi — sarebbe apparsa in quel tempo e avrebbe segnalato ai Magi la nascita di “un re per Israele”; o giustifichi un aumento della luminosità tale da oscurare le altre stelle, come scritto nel Protoevangelo di Giacomo. Né risulta compatibile con la cronologia della nascita di Gesù la visibilità della cometa di Halley, il cui passaggio si ascrive al 12 a.C. Ma la relazione tra il formarsi del calendario liturgico protocristiano e gli eventi astronomici che già sostanziavano i riti delle più antiche religioni, zoroastriana anzitutto e poi romana, è indubitabile.
La festività che nel mondo cristiano ortodosso è detta “delle Luci” (ton Photon) accomuna in un breve giro di calendario il pellegrinaggio escatologico dell’élite pagana d’oriente e la festa solare chiamata nell’antica Roma dies natalis Solis Invicti, e ancora oggi da noi Natale; a sua volta legata sia ai Saturnali, sia alla festa di Mitra, il cui culto misterico prettamente maschile, originariamente indopersiano, romanizzato nella pratica rituale degli eserciti, era in grande espansione nel periodo in cui nacque la fortunata eresia giudaica che le scritture canoniche ed extracanoniche associano alla nascita di un “nuovo re di Israele” proprio in occasione dell’evento che qui festeggiamo il 6 gennaio e chiamiamo Epifania.
Nome a sua volta desunto dalla terminologia dei misteri greci. È l’epiphàneia di un dio, la sua sacra manifestazione, al centro della leggenda della stella e dei Magi. I tre maghi persiani dal cappello a cono del mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, i Drei Könige sulle cui magnetiche reliquie si impennò la cattedrale di Colonia,i tre savii stranieri dai nomi incerti e contorti che seguirono la stella ed ebbero l’epifania di un fanciullo divino, si prostrarono, scrive Matteo, con la rituale proskynesis che si riconosce al capo di un’altra e nuova religione, recandogli il crisma dei sommi doni sapienziali. «I misteri religiosi sono in gran parte connessi con le predizioni astronomiche», scrive con apparente candore Robert Graves all’inizio della terza e culminante parte di Io, Gesù, il capolavoro (ora ripubblicato da Longanesi, e all’epoca intitolato Jesus Rex) che settant’anni fa dedicò al formarsi del culto di quelli che chiama i crestiani — i seguaci del Chrestòs, in greco “il Buono” — nell’epoca che va appunto dalla teofania occorsa ai Magi a quello che definisce «lo scisma dei gentili, capeggiato dal visionario Paolo di Tarso. Un culto che sancisce — è la grande teoria di Graves, che fa qui la sua prima comparsa — la vittoria delle religioni dominate da divinità maschili, di cui JHWH, il dio onnipotente del monoteismo biblico, è l’esempio massimo, sulla religione femminile originaria, quella della Grande Dea, cui Graves dedicherà due anni dopo il suo libro più noto, La dea bianca. L’eclissi della divinità lunare e l’oblio del suo culto porteranno a fraintendere l’identità storica di Gesù, che nella ricostruzione di Graves, fantastorica, deliberatamente fantasmagorica ma non per questo meno scientificamente probante, riunisce in sé, per discendenza matrilineare, un’effettiva e clamorosa regalità. La legittima successione del trono di Davide, ossia dell’antica Israele, e di Erode, ossia della Giudea romana, gli è assicurata da Maria, vergine di sangue regale consacrata al Tempio, che ha però segretamente sposato uno dei figli di Erode, avuto dalla prima moglie, di altrettanto impeccabile discendenza idumonea. È alla luce dell’effettivo status di aspirante Rex Iudaeorum che Graves interpreta, nel finale del libro, l’udienza personale concessa da Pilato a Gesù, il suo straordinario favore, l’inusuale titulus, INRI, apposto per suo ordine alla croce; così come il successivo, irrazionale e imprevedibile svolgersi del fatti, la catena di fraintendimenti, censure, tendenziosità che plasmeranno, in un sincretismo assoluto e a tratti costernante, la nuova religione maschile destinata a pervadere i confini dell’impero romano, dal medio oriente giudaico all’estremo occidente celtico, di quella gelosa idea di elezione e linearità, legata a un’inquietante promessa di “al di là”, che si sostituirà alla preesistente idea femminile di ciclicità della storia come della natura del cosmo.
Al bene informato Agabo, alter ego narrante di Graves nell’ipotetico anno Domini 93 d.C. cui la narrazione è ascritta, il nuovo culto si presenta dominato da un rito conosciuto col nome di eucarestia e adibito «a comodo ponte tra il giudaismo e i culti misterici greci e siriani, in cui il sacro corpo di Tammuz viene mangiato sacramentalmente e sacramentalmente bevuto il sacro sangue di Dioniso», il dio “Figlio della Duplice Porta”, nato prima a sua madre Semele e poi al padre Zeus, cui Gesù somiglia anche nell’avere due date astronomiche di nascita: a quella del solstizio d’inverno, che coincide con la nascita del sole, si aggiunge quella estiva cui si riconduce il suo battesimo — rappresentato con matematica perfezione neoplatonica da Piero della Francesca — che coincide con la levata eliaca di Sirio, la stella messianica del versetto di Isaia.
In Io, Gesù Graves, superbo esperto di mitografia greca ed ebraica, dipana il sincretismo fin dalla Natività. Se la Vergine Madre dalla veste azzurra e dalla corona di stelle d’argento è necessaria ipòstasi di Iside, nella grotta la mangiatoia dov’è adagiato il Bambino ripropone quella usata allo stesso scopo nei misteri delfici ed elusini e il bue e l’asino, cui già allude Isaia, simboleggiano i due messia promessi, il figlio di Giuseppe e il figlio di Davide, che il neonato adorato dai Magi riunisce. La sua storia ha tratti in comune con quella di Pèrseo, che il re Acrisio tenta di uccidere in fasce. Nella narrazione di Graves, ironicamente accademica, irresistibilmente sacrilega, implacabilmente laica, i Magi non sono nulla di ciò che per due millenni l’esegesi dei teologi cristiani o degli storici delle religioni o tanto meno degli esoteristi e teosofi in voga in quegli anni ha abilmente e spesso fondatamente congetturato, ma solo tre ebrei damasceni della tribù di Issa- char, che nel palazzo di Erode a Gerico si presentano come astrologi appartenenti alla nuova setta degli “alleanzisti”: hanno stipulato una nuova alleanza con Dio attraverso la mediazione di uno spirito chiamato “Colui che viene” ovvero “la Stella”, che secondo la loro previsione si incarnerà quanto prima sotto spoglie umane e darà a Erode gloria eterna. Ma Erode stesso ha basato la sua politica e il suo regno sulla congiunzione astrale di Giove e Saturno individuata da Keplero nel 1614. Dal fallimento del piano dinastico di Erode, che in Graves si snoda in sostanziale aderenza a Matteo, ascende l’astro del nuovo re che i tre astrologi giudei hanno correttamente individuato e adorato, ma che non sarà scorto in vera luce dai gentili. I suoi Atti e detti, originariamente scritti in aramaico, riceveranno, riferisce il beffardo Agabo, versioni multiple di una traduzione greca «erronea, a volte goffa e di tanto in tanto fraudolenta », cosicché i fondatori delle chiese gentili fraintenderanno «così stranamente la sua missione da fare di lui la figura centrale di un nuovo culto che, se lui oggi fosse vivo, giudicherebbe solo con avversione e orrore». Lo vedranno come un giudeo rinnegato che «unendo la propria sorte a quella degli gnostici greci aspirò a una sorta di divinità apollinea, per di più fornendo credenziali che devono essere accettate per cieca fede — suppongo perché nessuna persona ragionevole», aggiunge Agabo, «potrebbe mai accettarle in alcun altro modo».
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