sabato 31 ottobre 2015

Grossman, Uno scrittore in guerra

Raffaele La Capria

Grossman, il gelo e le fiamme
 









Un caso di brutalità «I nazisti hanno immerso un uomo in un buco nel ghiaccio, poi sono fuggiti sotto il fuoco d’artiglieria». La caduta di Berlino «Questa giornata nuvolosa, fredda e piovosa, segna la morte della Germania»
Gli appunti dello scrittore russo ci fanno vivere in presa diretta le atrocità della guerra

Corriere della Sera, 31 ottobre 2015

Di Vasilij Grossman ho letto soltanto Vita e destino, il grande romanzo epico sulla guerra contro i tedeschi invasori e sulla battaglia di Stalingrado, ma mi è bastato per capire che Grossman, con quel libro, ha scritto una specie di Guerra e pace del nostro tempo, all’altezza, per la vastità della concezione, dei maggiori romanzi della letteratura russa. Ora Adelphi ha pubblicato Uno scrittore in guerra, un libro bellissimo che contiene gli appunti di prima mano che Grossman scriveva per i suoi articoli di corrispondente dal fronte, e la prima impressione è che questi appunti buttati giù in fretta e a volte in situazioni difficili, sotto il fuoco nemico, sono già di una notevole qualità letteraria.
Questo libro di appunti fa capire meglio chi era Grossman come uomo e come scrittore, e soprattutto come ebreo in un tempo in cui nell’Unione Sovietica essere ebrei significava essere perseguitati in vari modi; e le vicende della vita di Grossman qui narrate ce lo dimostrano. Se fosse stato per il potentissimo Mikhail Suslov presidente della sezione culturale del Comitato centrale del Partito comunista, Vita e destino avrebbe potuto esser letto solo nei prossimi duecento anni, in altri termini ne fu proibita la pubblicazione perché giudicato pericoloso. Come in casi analoghi, il romanzo avventurosamente, per l’aiuto di fidati amici, trovò il modo di uscire dall’Unione Sovietica ed essere pubblicato all’estero ottenendo il successo e l’attenzione che meritava.
Successo ed attenzione che ebbero, durante gli anni della guerra gli articoli che Grossman spediva ai giornali dal fronte. Si sentiva che in quegli articoli c’era la verità di un’esperienza vissuta esponendosi di persona. Ma nonostante la sua fama, l’ostilità del potere contro di lui si faceva sentire pesantemente, e quando la guerra finì, tutti i suoi libri precedenti furono tolti dalla circolazione, lui fu ridotto all’indigenza e fu aiutato dai pochi coraggiosi amici che gli erano rimasti. Affetto da un cancro allo stomaco, morì nell’estate del 1964.
Solo dopo aver letto Uno scrittore in guerra ho avuto un’idea più chiara delle grandi sofferenze patite dai popoli europei durante il conflitto, patite non solo dai russi che combattevano al fronte in condizioni spaventose di freddo, fame, pidocchi, pericolo continuo e morte, ma da tutti i popoli coinvolti nella guerra più feroce mai combattuta. Sofferenze inimmaginabili nel loro orrore se non ci fossero stati testimoni come Grossman, che hanno saputo raccontarle a rischio della vita.
Di fronte a una figura di scrittore come la sua, si prova non solo ammirazione letteraria, ma un senso di compassione coinvolgente, quando si pensa alle tragiche vicissitudini che hanno accompagnato la sua vita in un’epoca di profonda umiliazione morale, sotto la spaventosa dittatura staliniana. Si ha sempre la sensazione quando lo si legge che quello che lui scrive, prima ancora di essere letteratura, è vita vissuta, una testimonianza, una delle poche altrettanto dirette che abbiamo della guerra e delle sue infinite mostruosità. Sappiamo che lui, Grossman era lì, mentre dappertutto cadevano le bombe e i carri armati «come animali preistorici» avanzavano, che lui era lì e aveva sentito le grida dei tedeschi chiusi nei carri mentre il fuoco li arrostiva. «Dentro il carro armato i tedeschi gridavano, ah se gridavano! In vita mia non avevo mai sentito nessuno gridare così». E sembra di sentirle anche noi quelle grida agghiaccianti «che facevano rizzare i capelli in testa». E Grossman era sempre lì, a Berlino, quando i soldati dell’Armata rossa entrati in città stupravano le donne tedesche ed entravano nelle case per depredarle di tutto, e distruggere con furia ogni cosa.
Nessun aspetto atroce della guerra gli sfuggiva e lui lo raccontava attraverso le interviste che faceva ai soldati e ai comandanti. Le loro parole ci fanno capire lo spirito patriottico che animava ogni combattente, la ferocia, l’indifferenza di fronte alla morte propria e altrui, di fronte alle continue fucilazioni sul campo per le più lievi infrazioni disciplinari. Questo è il racconto di un soldato: «Il commissario ha letto la condanna. Lui aveva perso il controllo, piangeva, chiedeva di essere rimandato nella sua posizione... Poi il commissario ha chiesto: “Chi lo fucila?” Mi sono fatto avanti e lui si è gettato a terra. Ho preso il fucile di un compagno e gli ho sparato. “Non ha avuto pietà?”. Che c’entra qui la pietà?».
Appunto, con la stessa spietatezza lo scrittore porta la sua testimonianza: in una guerra come quella combattuta a Stalingrado tra russi e tedeschi la pietà non aveva più alcun senso. Sento che le mie parole non bastano a descrivere la particolarità, la semplicità, e la terribile immediatezza della scrittura di Grossman, e soltanto una serie di citazioni può darne un’idea.
Il freddo, per esempio: «Sono stanco di tastarmi continuamente il naso, le orecchie per controllare se sono ancora al loro posto». E poi: «I nazisti avevano immerso ripetutamente un uomo in un buco praticato nel ghiaccio, sono poi fuggiti sotto il nostro fuoco d’artiglieria lasciando riverso per terra il loro uomo semicongelato e paralizzato dal terrore». I cani: «Alcuni cani sono bravissimi a distinguere gli aeroplani. Quando ci sorvolano i nostri, non fiatano. Se invece sentono gli aerei tedeschi, cominciano subito ad abbaiare, ad ululare, oppure si nascondono». Berlino: «2 maggio, giorno della capitolazione di Berlino. Questa giornata nuvolosa, fredda e piovosa, segna la morte della Germania. Tra le rovine, in mezzo alle fiamme e al fumo centinaia di cadaveri sparsi per le strade. Cadaveri schiacciati dai carri armati, spremuti come tubetti... Cose terribili stanno accadendo alle donne tedesche. Un tedesco dall’aria istruita, la cui moglie ha ricevuta la visita dei nuovi arrivati, sta spiegando con gesti eloquenti e qualche parola di russo che la moglie oggi è stata già violentata da dieci soldati. La signora è presente». Potrei continuare con le citazioni, ma credo di aver dato un’idea di come è scritto questo libro.

mercoledì 28 ottobre 2015

Pasolini senza eredi

Alberto Asor Rosa 

Quando Pasolini mi disse: “Sei l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”
Pier Paolo sapeva che rischiava di essere ammazzato. E tutto ciò che scrive e fa negli ultimi due o tre anni va in quella direzione

intervista di Simonetta Fiori

la Repubblica, 28 ottobre 2015










«Vorrei dirlo proprio ai suoi più accaniti ammiratori: per carità non fatene un santino. Un destino che Pier Paolo non si merita». Cinquant’anni fa lo stroncò ferocemente in Scrittori e popolo come un piccolo-borghese piagnucoloso, romanziere fallito e refrattario all’avanguardia. Oggi rivede (ma solo in parte) le sue critiche e del polemista corsaro rimpiange la capacità profetica, seppure mossa da premesse reazionarie. Alberto Asor Rosa ripercorre il suo inquieto rapporto con Pasolini, mettendo in guardia dalla nuvola di incenso che rischia di neutralizzarne la carica dialettica.
Dallo “scandalo del contraddirsi” all’“icona pop” di oggi: il percorso di Pasolini risulta quasi paradossale. «Basta fare il raffronto con l’anniversario di Calvino, di cui ricorre il trentennale. Il clamore per Pasolini è enormemente più forte».
Come lo spiega?
«Calvino ha battuto una strada coerente con la sua natura di scrittore e intellettuale: il discorso razionale non intriso di passionalità e polemica. Pasolini evidentemente ha battuto la strada opposta. E la sua passionalità finisce per incontrarsi di più con gli strumenti della civiltà massmediatica».
Sta dunque dicendo che l’intellettuale che ci aveva messo in guardia dalla dittatura dei consumi rischia di essere il più consonante a questa civiltà?
«Entra di più nei suoi circuiti di comunicazione. La mia non vuole essere una critica postuma. La forza polemica di Pasolini consiste in una peculiarità: nell’atto di formulare giudizi e valori esibisce totalmente se stesso. Calvino fa l’operazione opposta: svolge la sua polemica politico-civile rifiutando di esibirsi. L’esibizione di se stessi è uno dei tratti fondamentali della nostra era massmediatica».
La corporeità di Pasolini è centrale in questo discorso.
«Mi viene in mente quella serie di fotografie che si fece scattare nel suo ritiro del Cimino mentre scrive nudo. Se lo immagina Calvino in mutande? Ma non è un giudizio di valore, è pura descrizione».
Perché si preoccupa tanto di non apparire critico? Cinquant’anni fa lo fece a pezzetti.
«No, io rifiuto questa vulgata. La mise in giro il medesimo Pier Paolo, ma non era così».
Lui ci rimase molto male.
«Ci incontrammo in un’assemblea alla Sapienza, alcuni anni dopo l’uscita del libro. Io ero seduto in prima fila e lui, passandomi davanti, mi fulminò con lo sguardo a mirino: “Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”».
Perché l’aveva stroncato?
«Io però vorrei correggere questo stereotipo. Nel saggio apparso su Scrittori e Popolo ci sono due Pasolini. Uno è quello che punta a scavarsi un posto di rilievo nella cultura contemporanea ammiccando alla linea progressista ufficiale: il verbo comunista. E di questa spinta sono il frutto i romanzi romani, che io trovo intollerabili proprio perché mescolano le sue pulsioni naturali con il quadro ideologico populista del canone ufficiale».
Ma i critici comunisti lo accolsero con sospetto.
«E lui reagì con stupore: ma come è possibile? Ho scritto quei romanzi proprio tenendo conto della vostra linea…» Questo Pasolini non le piaceva.
«E continua a non piacermi. Ma in quel mio saggio c’era anche un altro Pasolini, l’autore delle poesie e dei romanzi friulani, espressione autentica del suo rapporto elegiaco con il mondo popolare.
E c’era anche il Pasolini delle Ceneri di Gramsci , dove lui riflette criticamente e autocriticamente sul suo stare al mondo e sul suo rapporto con l’Italia contemporanea. Il mio giudizio era già allora articolato e lo sarebbe diventato ancor di più nei passati decenni».
Sì, certo, non fu solo stroncatura.
Ma nella parte critica non mancano passaggi molto aspri. Soprattutto quando lei lo rimprovera atteggiarsi a «povero martire che invoca grazia e pietà», che «pretende tregua e dunque confessa inferiorità», che in sostanza «chiede di essere amato anche dal nemico».
«Ma su questo non ho dubbi. Anche qui il parallelo con Calvino è utile: Calvino non ha alcun bisogno di essere amato perché la sua intellettualità e la sua natura sono autonome. Pasolini aveva un urgente bisogno di essere riconosciuto. Prima accennavo alla richiesta di comprensione e di aiuto che avanzò alla cultura progressista: comprensione e aiuto che i critici comunisti si guardarono bene dal concedergli. In sostanza il bisogno di riconoscimento gli venne negato non solo dal ceto dominante conservatore e democristiano, ma anche da quella cultura comunista che sarebbe dovuta essere la interlocutrice privilegiata. Questo accentua il suo conflitto con il mondo fino agli esiti tragici finali».
Gli negherebbe ancora il ruolo di sperimentatore? In “Scrittori e Popolo” lo ritrae come un letterato conservatore nemico dell’avanguardia.
«Negare oggi il ruolo di sperimentatore a Pasolini sarebbe francamente assurdo, però letterariamente la sua è una sperimentazione che si muove molto nei solchi della tradizione. E io all’epoca mi concentravo sulla sua opera letteraria».
E quell’accusa di piccolo-borghese? A sinistra suonava come un insulto.
«Sì, un’accusa che ci siamo rinfacciati a vicenda. È una terminologia di quegli anni e oggi non mi verrebbe in mente ritirarla fuori. Decisamente datata».
I vostri rapporti si interruppero?
«No, tra noi non c’erano mai stati rapporti personali. Quando uscì Scrittori e Popolo io avevo 32 anni ed ero uno sconosciuto, sideralmente lontano dalla società culturale romana che aveva una struttura monocratica e chiusa. Il gruppo Moravia-Pasolini-Betti-Siciliano viveva in una sua realtà impermeabile. E io ai salotti romani bene preferivo il volantinaggio in fabbrica».
Oggi rimpiange il Pasolini profetico.
«Sì, partendo da premesse totalmente sbagliate riuscì a cogliere meglio di chiunque altro le aberrazioni del progresso. Una forza di denuncia e di previsione impressionante».
Però allora a sinistra era considerato reazionario e antiprogressista.
«Lo era, indubitabilmente. Era assetato di passato. Rimpiangeva un mondo incontaminato senza cogliere gli elementi di progresso che pure tra gli anni Cinquanta e Sessanta segnarono la crescita del nostro Paese. Ma il prevalere di questo elemento primigenio ha finito per rendere la sua denuncia più violenta e profetica».
Crede che la sua morte fu dovuta a un complotto?
«No, non ci credo. La sua morte fu coerente allo stile di vita. Non voglio dire che cercasse di essere ammazzato, ma se uno fa la vita che faceva Pier Paolo non può non sapere che rischia di essere ammazzato. E tutto quello che scrive e fa negli ultimi due o tre anni muove in quella direzione».
Cosa le dà fastidio delle celebrazioni di oggi?
«Invece di capirlo e interpretarlo si tende a farne un santino spegnendone la carica critica pungente. Il profeta dell’omologazione rischia di essere consumato come un prodotto di massa».
Walter Siti sostiene che intorno a Pasolini è tutto un pigolio, ma in realtà non ci sono eredi: nessuno si è confrontato davvero con la sua ricerca.
«Sì, ha ragione. L’unico è Saviano, che lo cita in Gomorra come oggetto di pellegrinaggio alla tomba di Casarsa e ne tiene un po' conto nella descrizione della società camorristica. Per il resto non vedo eredi pasoliniani come non vedo né fortiniani né calviniani. Non ci sono eredi e basta».

domenica 25 ottobre 2015

Ezra Pound poeta

Massimo Bacigalupo
Pound, eruzione infinita di contraddizioni
La monumentale biografia «Ezra Pound: poet» di David Moody, dalla Oxford University Press. Senza perdere mai di vista i testi, a cui dedica analisi puntuali, Moody conserva flemma e adesione critica davanti a un’enorme massa di materiale biografico, non di rado sconcertante 

il manifesto, 25 ottobre 2015 










... I tre massicci tomi di Moody si intitolano rispettivamente The Young Genius 1885–1920, The Epic Years 1921–1939 e appunto The Tragic Years 1921–1939. Il titolo complessivo Ezra Pound: Poet è significativo perché nonostante tutto il clamore intorno ai fatti e misfatti di Pound, Moody dedica molta attenzione ai testi e non dubita, come annuncia già il titolo The Young Genius, che Pound sia fra i maggiori poeti (non solo personaggi) del Novecento. Volentieri dedica sezioni della biografia ad analisi ravvicinate delle opere più significative e a singoli volumi dei Cantos, che cominciarono a uscire nel 1925 per (non) concludersi solo nel 1968. In questo terzo volume ha il destro di parlare della sezione più memorabile dell’intero poema, i Canti pisani scritti nel 1945 durante la detenzione a Metato presso Pisa in un campo di prigionia dell’esercito Usa per migliaia di reclusi americani che dovevano essere «rieducati» e in taluni casi giustiziati. E le analisi di Moody di questi 11 canti (che portano i numeri 74–84), come anche di quelli successivi, sono convincenti e serrate. Chiaramente l’argomento gli è caro e anche lui ha passato decenni su questi fogli e ha le loro felici battute nell’orecchio e nel cuore.
...


venerdì 23 ottobre 2015

Haaretz e Rusconi su Netanyahu

 
Netanyahu usa l'olocausto per fare propaganda
Haaretz, editoriale, 22 ottobre 2015

L’affermazione del primo ministro Benjamin Netanyahu, secondo cui è stato Haj Amin al Husseini, il gran muftì di Gerusalemme, ad aver ispirato a Hitler lo sterminio degli ebrei europei è completamente errata. Ci si aspetterebbero parole più caute da parte del figlio di un importante storico.
È vero che negli anni trenta del novecento i nazisti volevano espellere gli ebrei della Germania e, in seguito, quelli di Austria e Cecoslovacchia, ma all’epoca non c’erano contatti tra il muftì e l’elite ideologica nazista.
Il muftì era certamente un antisemita radicale, divenuto un entusiastico sostenitore del nazismo. Dopo aver abbandonato la terra di Israele per il Libano e quindi per l’Iraq, dove fu tra quanti incitavano ad attaccare gli ebrei, nel 1941 il muftì andò in Germania, passando dall’Italia. I nazisti lo usarono nella loro propaganda rivolta al Medio Oriente e per mettere in piedi una divisione musulmana delle Ss nei Balcani. Il muftì si adoperò anche per negare ai bambini ebrei i permessi ufficiali d’ingresso nella terra d’Israele dall’Ungheria, e sostenne pienamente l’uccisione degli ebrei. Ma non aveva alcuna influenza sulla politica tedesca.
Al Husseini incontrò Hitler una volta, il 28 novembre 1941, per una conversazione durante la quale non fece alcuna proposta concreta al Führer. Fu Hitler a parlare e a spiegargli la politica della Germania. Il muftì chiese cosa sarebbe successo agli ebrei di tutto il mondo dopo la vittoria della Germania, dicendo che credeva di aver capito che la Germania avrebbe abolito il focolare ebraico nella terra d’Israele. Hitler rispose che come prima cosa avrebbe chiesto a tutti gli stati europei, e in seguito a tutti gli stati del mondo, di comportarsi con gli ebrei nello stesso modo con cui li stavano trattando i tedeschi in Europa.
Ciò avvenne quando lo sterminio era già stato avviato. Cominciò infatti nel giugno del 1941, con l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, sei mesi prima di quella conversazione. Hitler non aveva certo bisogno che un leader arabo (o di altra nazionalità) gli suggerisse la “soluzione finale”. L’uso che i politici israeliani fanno dell’olocausto per ragioni contingenti sminuisce le specifiche responsabilità di Hitler e del nazismo e denigra la memoria dell’olocausto. Sembra che quando il vero retroterra storico non è congeniale alle loro finalità politiche, preferiscano “inventare” fatti e collegamenti.
Non c’è dubbio che la memoria dei milioni di persone uccise è prima di tutto una questione ebraica. Ma sta diventando sempre di più un soggetto che ha un impatto su tutta l’umanità. Quello che stanno facendo questi politici è una sorta di negazione dell’olocausto, o meglio una negazione di come ha davvero avuto luogo l’olocausto. È un travisamento della storia.
La memoria, che costituisce un trauma ininterrotto per gli ebrei in Israele e altrove, e non solo per loro, viene svilita per servire una propaganda sbagliata, inappropriata e, peraltro, neanche particolarmente efficace. Non è questo il modo di ricordare l’olocausto.
(Traduzione di Federico Ferrone)


Gian Enrico Rusconi

Benjamin Netanyahu non è un negazionista, ma un politico che manipola la storia
La Stampa, 23 ottobre 2015 


La storia si manipola quando si strumentalizzano intenzionalmente momenti, aspetti, passaggi problematici della vicenda storica - a fini politici.
In questo caso, il premier israeliano ha attribuito al Gran Muftì di Gerusalemme Amin al Husseini la responsabilità d’aver convinto Hitler a sterminare gli ebrei anziché procedere al loro trasferimento fuori dalla Germania.
Netanyahu fa questa affermazione in un momento di estrema conflittualità tra ebrei e palestinesi, mettendo insieme tre elementi: l’esistenza negli ambienti nazisti di una alternativa allo sterminio; la presunta indecisione di Hitler su come intendere e attuare la «soluzione finale» e il filonazismo e l’antisemitismo radicale del Muftì.
[...]  Esisteva in effetti un’ipotesi alternativa allo sterminio con il trasferimento degli ebrei in Madagascar. Al ministero degli Esteri e anche in alcuni uffici d’emigrazione delle Ss si parlava di trasportare milioni di ebrei in quell’isola. Ma non c’era alcun progetto di fattibilità. Non si può escludere che fosse un’opera di disinformazione. Ma ottenne successo, dal momento che molti tedeschi ne erano convinti – anche quando vedevano intere famiglie ebree caricate sui vagoni ferroviari.
Ma è altrettanto certo che il colloquio tra il Muftì e Hitler cui si riferisce Netanyahu ha avuto luogo – 28 novembre 1941 – quando l’operazione che aveva di mira lo sterminio era già iniziata. Abbiamo testimonianze dirette di gerarchi e ufficiali in contatto con Hitler. Il 31 luglio 1941 Goering diede esplicitamente ordine al capo del Servizio di Sicurezza Reinhard Heydrich di «procedere alla soluzione finale del problema ebraico».
[...] Tornando all’incontro tra Hitler e il Muftì, questi (secondo Netanyahu ) avrebbe detto «Se cacciate via gli ebrei, verranno tutti in Palestina». «Allora che cosa devo fare di loro?» – avrebbe chiesto Hitler. «Bruciateli» – fu la risposta. Secondo il premier israeliano, il Muftì avrebbe anche accusato gli ebrei di voler distruggere la moschea sul Monte del Tempio.
Inutile dire come quest’ultima osservazione da parte del premier israeliano accentui ancora più esplicitamente il nesso che vuole proporre come autoevidente tra quegli eventi passati e il presente. Innescando un corto-circuito inaccettabile e pericoloso. La drammatica situazione di oggi in Israele richiede una intelligenza storica e politica ben più matura.

martedì 20 ottobre 2015

Alla ricerca dell'autunno perduto

Umberto Boccioni, Autunno lombardo (1909)
Fabio Di Todaro
Stiamo perdendo i colori dell'autunno
Il boom delle temperature smorza le tonalità delle foglie
La Stampa, 20 ottobre 2015


















Stiamo perdendo i colori dell’autunno? Gli studiosi, impegnati a individuare le molteplici conseguenze del cambiamento climatico, si stanno concentrando su un nuovo tema, quello delle metamorfosi delle specie vegetali. Un problema che si riassume in una questione a suo modo affascinante: «L’aumento globale delle temperature rischia di cancellare le tante tonalità tipiche della stagione». Il giallo, l’arancione e il rosso delle foglie che associamo al trimestre che fa da ponte tra l’estate e l’inverno sono diventati meno marcati rispetto al recente passato e potrebbero svanire quasi completamente già nei prossimi decenni, se non riusciremo a porre un freno all’impennata delle temperature. È una questione che dall’estetica trapassa nei delicati equilibri degli ecosistemi e dell’ambiente in generale. 
Faggi, betulle e pioppi che virano verso il giallo. Querce e aceri che vestono una «parrucca» di color rosso scuro. Strade coperte di foglie e paesaggi che, anche in chi non ama la storia dell’arte, richiamano opere di fama: dai paesaggi di Argenteuil ritratti dall’impressionista Monet alle futuristiche campagne lombarde portate sulla tela da Boccioni. L’autunno è, per antonomasia, la stagione in cui la natura cambia abito: le giornate si accorciano, gli scoiattoli fanno le scorte di cibo in vista dell’inverno e le rondini si spostano verso l’Africa. Ma sono soprattutto le piante a «indossare» un’altra veste: quando le foglie si avvicinano alla fine del ciclo di vita, il verde della clorofilla lascia il posto ai carotenoidi e agli antociani, coloranti naturali, responsabili del viraggio nella colorazione delle chiome. Un fenomeno che fino a pochi anni permetteva di riconoscere a tutte le latitudini l’arrivo della stagione autunnale, ma che oggi - rivelano alcune ricerche - non è più così diffuso.
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http://www.lastampa.it/2015/10/20/societa/stiamo-perdendo-i-colori-dellautunno-EpjBQZK9Ojw33rbxTgB5VN/pagina.html


Courbet, Foresta in autunno (1841)


Monet, Effetto d'autunno a Argenteuil (1873)

Pierre-Auguste Renoir, Il ponte di Argenteuil in autunno (1882)




lunedì 19 ottobre 2015

Isis: la cecità dell'Occidente

Leonardo Martinelli
“È la cecità che muove la storia”
Parla il contemporaneista francese Marc Ferro: dal nazismo all’Isis, gli errori dell’Occidente vittima dei suoi pregiudizi 

La Stampa, 19 ottobre 2015 








«L’Isis? Gli occidentali non l’hanno visto arrivare: una forma di cecità di fronte alla storia, anche la più recente. Perché già dalla rivoluzione iraniana era chiaro che l’integralismo islamico aveva un solo obiettivo: distruggere gli Stati-nazione per dominare il mondo». Parla dall’alto dei suoi 90 anni Marc Ferro, tra i maggiori storici francesi. Sommerso dai libri, nel suo piccolo studio. «C’è anche l’atlante storico che pretesi come regalo a nove anni, per aver superato un esame di nuoto. La storia è una vecchia passione». Grande specialista dell’Urss («Mai stato comunista, né anticomunista, ma sempre un uomo di sinistra»). Ancora oggi l’uscita di un suo libro è un evento a Parigi. L’ultimo si intitola L’aveuglement, pubblicato da Tallandier, sull’accecamento dei grandi dirigenti o di persone molto normali rispetto alla storia che stanno vivendo.
È l’ideologia che acceca?
«Non sempre: spesso è il razzismo a offuscare la mente. I francesi nelle loro colonie, fino all’ultimo, non potevano pensare che degli arabi, dei malgasci, dei vietnamiti sarebbero stati capaci di organizzare e strutturare una sollevazione politica. Solo per razzismo».
Ritorniamo all’Isis.
«La cecità rispetto all’integralismo islamico riposa su una concezione europea della storia. Ai tempi della rivoluzione iraniana l’islam si allea agli inizi con i partiti della sinistra. Nell’Occidente sono sicuri che poi si metterà da parte: si pensa che lo Stato si servirà della Chiesa, come è sempre accaduto, almeno in Europa. E invece avviene il contrario. È la prima volta che l’islam giudica che lo Stato-nazione è il nemico, che va distrutto».
Perché?
«Perché gli Stati-nazione dividono l’islam. Quei leader islamici riprendono il ragionamento dei socialisti secondo i quali gli Stati-nazione dividevano la classe operaia. Vari anni dopo sono andato a tenere una conferenza in un’università marocchina. Alla fine i docenti mi consegnarono un pacchetto: ecco un regalo per te, mi dissero. Ma avrei dovuto aprirlo solo al mio ritorno a Parigi».
Cosa era?
«Un libro, dal titolo islamizzare la modernità. Sulla copertina c’era un immenso grattacielo, composto di cifre, e in cima la bandiera dell’islam. Insomma, la dominazione del mondo. Era il 1997, quattro anni prima delle Torri gemelle».

domenica 18 ottobre 2015

Leonard Cohen, la lontananza, la parola e il sacro

Graziella Balestrieri
L'uomo che non amava mai. Il nuovo album di Leonard Cohen è lo specchio della sua vita, tra depressione, silenzi e poesia
Il Foglio, 20 Gennaio 2012 ore 19:18

Mi dici che il silenzio è più vicino alla pace delle poesie, ma se in dono ti portassi il silenzio (perché io conosco il silenzio) diresti allora: ‘Questo non è silenzio, è un’altra poesia’, e me lo restituiresti
Le spezie della terra, Leonard Cohen




Una terrazza che muore tra il cielo e il mare è un paesaggio perfetto, un mare che è il solo che restituisce la lontananza, immensa e ingannevole, duratura. Due sedie resteranno vuote e un uomo che osserva dietro alla finestra, vestito di un cappello e di eleganza. Settantasette anni e il doppio degli anni, perché Cohen è come se avesse vissuto due volte, passati a vagare per Montreal. Una città gelida dove nasce da genitori ebrei, Cohen è un ebreo critico e ironico ma pieno di sacralità, come lo è stato nei confronti della sua vita. Londra spaventosa e dissacrante: luogo ideale per riscoprire la fuga, scappare e cercare altrove.
Los Angeles, Nashville, New York. Vivere ovunque per capire che si appartiene sempre nel luogo che lasci ma che non ti abbandona. Trovare Idra, splendido paradiso dell’Egeo dove “c’è il clima giusto per la filosofia e dove con quella luce non si può essere disonesti ”. Tanto perfetta da fargli dubitare la sua vera identità: “Appartengo al Mediterraneo. I miei antenati hanno fatto un terribile errore, e poi l’Occidente è troppo costoso, rigido e isterico”.

Leonard Cohen è prima di tutto poeta, cantante per necessità. E’ portavoce della tristezza e della solitudine. E’ uno scrittore che non veste un abito ma si strappa la pelle di dosso, perché sotto deve pur esistere altro, anima, cuore, cellule e microscopici nervi. E amore, scritto, vissuto e cantato, ma mai necessario: “Non ho mai detto a una donna che l’amavo, e quando ho scritto le parole ‘amore mio’ non ho mai fatto in modo che significassero ‘ti amo’. L’amore offre una gran varietà di sentieri, come qualsiasi paesaggio. Ma non dedicarti a uno specifico amore. Il cuore va protetto, tenuto libero”.

Eppure Cohen trovò l’ordine delle cose nel vivere accanto a una donna sola: “Quando lavi i piatti insieme, e insieme metti a dormire il bambino. Quello è ordine spirituale, altro tipo di ordine non esiste”. La prima donna fu Marianne, cristiana che addobbava la casa di Idra con quadri religiosi, comprensiva e forse troppo accondiscendente, fino a risultare insopportabile. In seguito incontrò Suzanne, diciannove anni, che lo conquistò davanti alle porte dell’ascensore di quello che diventerà la loro casa, il Chelsea Hotel. Cohen non ha dimora fissa e pretende un ordine maniacale attorno a lui, pur non possedendolo per natura. Suzanne, per quanto fosse più piccola di lui, con il suo arrivo distrusse le sicurezze dell’uomo facendolo cadere in lunga depressione che lo accompagnerà per la vita. Qualsiasi suo desiderio era non un comando, ma un comandamento per Leonard. Pur non avendola mai sposata, le regalò un anello ebreo da matrimonio. Lei sostituì i quadri sacri di Marianne con la pornografia. Suzanne darà a Leonard due figli, e sarà l’unica sicurezza dello scrittore tra depressione e droghe.

Il giovane Leonard inizia a scrivere ai tempi del college. Il suo primo romanzo non si può spiegare se non con le parole dello stesso autore: “’Il gioco preferito’ non è solo un libro sull'adolescenza, è un'allegoria per un corpo perduto, perfetto, pallido, impossibile, quello che sfugge quando diamo un bacio". Volete che vi sia raccontato di un amore struggente che culmina con il suicidio della donna amata da due uomini, minuzioso nei particolari e paragonabile a una siringa che inietta sangue nelle vene senza dolore e che solo togliendola provoca sofferenza facendo sentire le urla per l’inganno subito e per la perdita? Beautiful Losers è il secondo romanzo di Cohen, un quadro di trecento pagine, dove Cohen si strappa letteralmente l’occhio per donarlo a chi davanti alla spiritualità, all’amore che finisce sempre e comunque o per vita o per morte non vuole vedere e china il capo. Le poesie da leggere sono eterni viaggi custoditi in “Parassiti dal Paradiso” dove amore carnale e amore spirituale trovano linfa e sostegno nella Bibbia. “Confrontiamo allora i nostri miti”, poesie-manifesto di quello che sarà la canzone di Cohen e poi “Le spezie della Terra” perché in questa raccolta Cohen è l’unico a restituire il silenzio.

Come vive un ebreo in perenne conflitto con la sua identità? “Il libro del desiderio” è una raccolta dell’esistenza Coheniana tra lotta e raccoglimento spirituale. E si arriva ai giorni nostri perché a gennaio, il 31,  uscirà “ Old ideas ”, otto anni dopo l’ultima pubblicazione, dieci tracce (Going home- Amen-Show me the place- The darkness-Anyhow- Crazy to love you – Come healing- Banjo-Lullaby-Different sides) dieci passi, dieci modi per inginocchiarsi all’amore, alla fede e alla sofferenza. Particolare il video del singolo “Show me the place” del regista Aaron Hymes, che mostra  bellezza disarmante e  testimonia come la semplicità e l’eleganza vadano di pari passo.

Non c’è la copertina e non è la prima pagina, visto che non è la prima poesia di Cohen e quando finisce la scrittura le pagine continuano ad andare avanti rimanendo bianche e  il libro non si chiude: la vita, pagine da riempire, il bianco, il nero. La dualità nelle cose. E la prima  pagina ha come sfondo un raggio di sole, disegnato in maniera infantile, allo stato pure delle cose. La luce espressione di fede, ha  il compito di “mostrare il luogo, la via”. La canzone non vuole trovare la costanza del mare ma trattiene invece la bellezza del tempo, i cori femminili come sempre donano la grazia intensa di sacro e profano e quella ricerca che l’uomo individuo unico fra gli altri ha come meta: “Fammi vedere il posto, aiutami a rotolare via la pietra. Fammi vedere il posto, non posso spostare questa cosa da sola. Fammi vedere il posto dove la parola è diventata uomo. Fammi vedere il luogo dove la sofferenza ha iniziato”. Cohen dietro quella finestra indossando eleganza che si fa cappello sul suo capo, rimane sospeso a immaginare il mare che collassa nel cielo, verso l’alto, verso il sacro. In silenzio.

http://machiave.blogspot.it/2014/09/leonard-cohen-suzanne.html

venerdì 16 ottobre 2015

Il'ja Efimovič Repin, Eleonora Duse






Gaetanina Sicari Ruffo
Eleonora Duse (Vigevano 1858 - Pittsburgh 1924)
Enciclopedia delle donne 

Di lei Sergio Tofano (1886-1973):«la sua recitazione era ridotta alla più pura e limpida essenzialità, assolutamente scevra dei tanti barocchismi e capricci vocali cari alle attrici sue contemporanee». Interpreta Teresa Raquin di Zola, La principessa di Bagdad, La signora delle camelie, La moglie di Claudio, Cavalleria Rusticana, Antonio e Cleopatra, Casa di bambola, La donna del mare e numerosissime altre opere d’un repertorio sempre più vasto ed eterogeneo. «È molto più che bella. D’un pallore opaco e un po’ olivastro, la fronte solida sotto le ciocche nere, le sopracciglie serpentine, i begli occhi dallo sguardo clemente, una bocca grande, pesante nel riposo ma incredibilmente mobile e plastica […] La voce è chiara e fine» scrive il critico Jules Lemaitre.

mercoledì 14 ottobre 2015

Librai e librerie: l'anima e la passione di un mestiere

Francesco Matteo Cataluccio
Piccola filosofia dei librai e delle librerie
post pubblicato su facebook il 14 ottobre 2015





 
Ci sono dei mestieri che caratterizzano profondamente chi li fa. O meglio: a forza di praticarli si diventa congrui ad essi. Uno di questi, ad esempio, è il fioraio. Un mestiere che mette costantemente a contatto con clienti che entrano nel negozio per soddisfare dei sentimenti nobili (di gioia o di dolore). Avete mai incontrato un fioraio antipatico? Se lo è, dopo un po’ cambia mestiere. C’è un rapporto con gli acquirenti di fiori e piante che non può che essere improntato alla gentilezza, all’amore e la competenza per le cose che si vendono, alla simpatia anche verso l’avventore più difficile.

Il mestiere del libraio, padrone o commesso che sia, è come quello del fioraio (e infatti, uno dei migliori librai che conosco, ha una libreria che si chiama”Centofiori”). Ma la straordinaria varietà delle merci che si vendono in una libreria, lo obbligano ad uno sforzo in più di professionalità gestionale e competenza. Il libraio, c’è poco da fare, deve essere prima di tutto uno che sa. Poi, una persona che ha gusto, che sa selezionare le cose migliori, che capisce, o intuisce, cosa serve al cliente.
Si dice spesso che le librerie sono dei luoghi che incutono timore a chi non c’è mai entrato, che respingono perché fanno sentire inadeguati di fronte a tanta offerta di sapere. E’ certamente un po’ vero, e tanto si può fare (e si sta facendo) per cambiare queste cose. Ma rimarrà sempre, inevitabilmente, qualcosa di sacrale in una libreria. “Una casa senza libri è come un corpo senz’anima”, diceva Cicerone. Figuriamoci un negozio che ne contiene migliaia! Da questo aspetto non si scappa: le librerie saranno sempre dei luoghi dove si prelevano tasselli dell’infinito mosaico dell’anima. Il timore è quindi comprensibile, ma bisogna superarlo per accedere alla caverna dei tesori. Il libraio (oltre all’educazione della scuola e della famiglia) è proprio la persona adatta a far capire che i libri sono cose delicate e preziose, ma fondamentali per la nostra felicità e libertà. Il libraio è una specie di sacerdote laico di una religione mille volte attaccata, e troppo volte, soprattutto nell’ultimo secolo, dichiarata estinta, ma fondamentale per dare un senso e un piacere alla nostra vita E’ il pizzicagnolo che vende un cibo che soltanto i pazzi, o le persone in malafede, possono considerare non necessario.
In alcune lingue si scrive Libro con l’iniziale maiuscola (per indicarne uno solo: la Bibbia) e libri, o addirittura libretti, per indicare tutti gli altri. Le librerie, oltre ad avere varie edizioni e traduzioni del Libro (e di altri Libri di altre religioni) sono piene di libretti. Questo già basterebbe a sdrammatizzare la faccenda. Perché i libri sono legati anzitutto al piacere, al godimento della lettura. La promessa di un piacere deve saper trasmettere il libraio, anche quando sta vendendo un libro difficile e complicato (ma se è un vero grande libro, sarà sempre anche un libro divertente).
Ricordo bene il primo libraio che conobbi. Stava in una libreria formata da uno zig zag di piccole stanze, nel vecchio quartiere di Santa Croce, dove andavo a prendere i libri di scuola e qualche altro volume che mio padre mi lasciava comprare. Teneva un lapis tra la basetta e l’orecchio, come un salumaio. Prendeva il libro in mano con molta delicatezza. Passava il palmo della mano sulla copertina, come se dovesse lisciare il pelo di un animale domestico. Poi lo apriva e, ficcandoci dentro il lungo naso, ne aspirava profondamente l’odore. Poi ti guardava di sottecchi e con un sorrisetto ti diceva: “Hai preso un gran bel libro”. Ogni volta lo stesso rito: ti affidava qualcosa di prezioso, ti consegnava un pacchetto che ti avrebbe cambiato la vita. E si ricordava sempre quel che ti aveva venduto: la volta successiva ti chiedeva se ti era piaciuto o se t’era servito a capir qualcosa di più del mondo.
Una passione così l’ho ritrovata poi negli agenti rateali Einaudi (la cosiddetta “banda Cerati”). Bussavano alla porta di casa tua, come se fossero dei rappresentanti di un’allegra setta mormonica. Aprivano il loro folder e ti squadernavano sul tavolo la loro preziosa mercanzia. Di ogni libro sapevano fornirti una chiave e delle allettanti promesse.
C’erano poi i librai della libreria Feltrinelli (dove i miei genitori ci avevano aperto un conto): erano dei simpatici amici che ti aiutavano con passione a trovare cosa, spesso in modo incerto, cercavi. Lì regnava il carnevale esagerato del sessantotto: vendevano anche poster con leader barbuti, opuscoli infuocati, manuali per improbabili guerriglie e persino, per pochi giorni, barattoli di vernice “per dipingere i poliziotti”. Quelle librerie erano lo specchio di quel tempo caratterizzato più dall’azione che dalla riflessione e la lettura. Ma tante persone hanno iniziato ad avvicinarsi ai libri proprio in quelle strane, affollate, librerie dove si parlava di politica come di calcio dal barbiere.
Da molti anni, tutte le inchieste sul mercato dei libri, ribadiscono che, nelle motivazioni di acquisto di un libro, sta abbondantemente al primo posto il “passaparola”. Altro che pubblicità o recensioni! C’è un percorso di consigli basati sulla fiducia e l’affetto che legano gli acquirenti di libri. E in questo percorso sta al centro il libraio. Quante volte, ad esempio, si sente dire in libreria “Avrei bisogno di un libro per una signora di mezza età appassionata di storia antica; saprebbe consigliarmi un titolo”. Il libraio è il motore fiduciario dei tanti che, per le più svariate ragioni, non sanno come orientarsi in un negozio pieno di variopinti volumi. Ma persino di coloro che, pur lavorando con i libri, non possono inevitabilmente essere aggiornati su tutto ciò che viene pubblicato, soprattutto in campi lontani dai propri interessi.
Quand’ero uno studente liceale, e stavo scoprendo il fascino nuvoloso del teatro, iniziai per caso a frequentare un piccolo negozio in riva all’Arno, accanto al Ponte Vecchio. La burbera signora claudicante che lo gestiva mi fece conoscere Beckett, Racine, Witkiewicz, Artaud, Marlowe, Pinter, tirando fuori con complicità quei libretti dagli scaffali e spiegandomi con pazienza e passione il loro valore. Quando compravo troppi libri e non mi bastavano i soldi, mi prestava quelli in esubero. Si costruì così un affezionato cliente, un amico, un complice.
Tra il libraio (anche quando non è il padrone dell’esercizio) e il cliente deve esserci appunto complicità. Il senso della trasmissione di idee, sensazioni, piaceri, sogni. Chi vende un libro (persino un manuale di giardinaggio) vende una promessa, non deve mai dimenticarlo. Per questo il libraio, pur nel dovere commerciale di avere un vasto assortimento e di esaudire qualsiasi richiesta, è necessario che sappia orientarsi bene nella produzione e selezionare i libri di valore. Non può tradire la fiducia del cliente e non può sbagliarsi nel capire di cosa abbia veramente bisogno.
All’inizio del bel romanzone, come non se ne leggevano da tempo, L’ombra del vento, dello spagnolo Carlos Ruiz Zafòn, è descritta la visita di un ragazzino, figlio di un malinconico venditore di libri rari e usati, al Cimitero dei Libri Dimenticati: “Un tempio tenebroso, un labirinto di ballatoi e scaffali altissimi zeppi di libri, un enorme alveare percorso da tunnel, scalinate, piattaforme e impalcature: una gigantesca biblioteca dalle geometrie impossibili”. E il padre dice al figlio che quello è una specie di santuario: “Quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro viene cancellato dall’oblio, noi, i custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno”.
Alcuni anni fa, il direttore editoriale di una prestigiosa casa editrice (recentemente diventata di sua proprietà), inviò una lettera a tutti i principali librai per accompagnare il dono in anteprima di un romanzo che parlava di una libraia. Al di là del valore del libro, trovo che questa pratica dovrebbe (senza inflazionare e quindi rendere inefficace la cosa) essere adottata quando si tratta di un libro speciale che merita davvero attenzione. Il libraio, ogni tanto, deve aver modo di rendersi conto più direttamente, e in modo meno estemporaneo di quanto non facciano le lettere novità, di ciò gli viene offerto di vendere. Fanno bene perciò gli editori che organizzano periodici incontri tra chi i libri li sceglie e li fa e chi li vende al pubblico.
Le librerie devono essere luoghi un po’ diversi dal mondo che sta fuori. Per questo a volte intimoriscono, ma bisogna che sia così. Se è vero, come le ricerche di mercato testimoniano, il negozio dove si vendono i libri è così essenziale per valorizzare la merce che vi è contenuta, sta al libraio personalizzarlo, renderlo, a cominciare dalla vetrina e dalla soglia, qualcosa che non respinge ma anzi invita a entrare. E’ questo un fenomeno che i bravi librai, persino quelli che possiedono un minuscolo locale, conoscono benissimo. L’occhio allenato capisce subito se in una libreria c’è l’anima e la passione del suo proprietario o del suo inserviente. Se c’è quest’atmosfera, sarà piacevole curiosare tra i banchi e gli scaffali e gli eventuali consigli del libraio saranno credibili.
Una città di antiche tradizioni democratiche e librarie come Amsterdam, le librerie sono delle belle e piacevoli nicchie, spesso molto colorate, dove il libraio ti si fa incontro come un amico: già molti decenni fa ci si poteva sedere a leggere e magari bere un tè e mangiare un dolce. Sarà anche per questo che i libri olandesi, anche graficamente, sono bellissimi.
Democrazia e libri sono storicamente sempre andati, nel bene e nel male, strettamente congiunti, tanto che è quasi banale sostenere che le librerie, nei paesi liberi, sono dei veri e propri presìdi di democrazia e civiltà (e i librai hanno quindi una bella responsabilità!). E la bellezza, come sosteneva Fedor Dostoevskij (che era convinto che solo essa ci salverà), fa parte integrante del valore di un libro come del luogo dove lo si espone e si vende.
Nelle librerie di Praga, Varsavia, o Mosca, fino alla metà degli anni ottanta, si respirava subito un’atmosfera opprimente, sciatta, vuota. A Mosca, soprattutto, ti colpiva la bruttezza e la pesantezza dei volumi, l’odore stantio della colla di pesce che teneva precariamente assieme le pagine di libri dove il censore e l’addetto alla propaganda avevano pesantemente lavorato a togliere dalle righe la freschezza e l’energia della libertà delle idee e delle opinioni. E anche i commessi erano persino più scortesi che negli altri negozi, quasi avessero la coscienza di non aver nulla di buono da vendere. I più furbi facevano lauti guadagni vendendo sottobanco i pochi libri interessanti, stampati in esigue tirature, e quindi tanto più agognati dai lettori e dai trafficanti del mercato nero. I veri libri erano clandestini: stampati, o ciclostilati, in edizioni poverissime ma ricche di idee. C’erano poi i libri normali, ma stampati dalle case editrici dell’emigrazione, il cui possesso poteva costare l’arresto e un sacco di seri fastidi. Questi libri si acquistavano nei posti più strani e improbabili (e i librai rischiavano la galera). A Cracovia, la libreria più fornita era una sbocconcellata panchina dietro una quercia, sotto il Castello, dove un piccolo signore, con la sigaretta sempre accesa e l’aria circospetta, teneva un borsone da ginnastica gonfio di libri che facevano la felicità dei lettori. La mia libraia, a Varsavia, tirava fuori da sotto l’ampia gonna i libri “proibiti” che le avevo ordinato, assieme a succulente salsicce e barattolini di miele. Ma come, inspiegabilmente, succede a tutti gli esseri umani, la mancanza innescava la spasmodica richiesta e il bisogno. La censura e la penuria favorivano così un desiderio insaziabile e mai si lesse tanto in quei paesi come in quegli anni.
Anche quando una libreria è un grande spazio, o è addirittura inserita in un centro commerciale, come uno dei tanti tasselli di un’enorme e variegata offerte di merci, occorre che chi varca quella soglia abbia la sensazione di trovarsi in uno spazio diverso da tutto il resto. La tentazione a rendere tutto omogeneo per acquietare il cliente è certamente forte, ma se non si dà la sensazione che lì si vendono dei libri, una “merce speciale e straordinaria”, si fa perdere il senso stesso di quell’eventuale acquisto. E anche l’inserviente di quel settore deve avere qualcosa di diverso, deve essere molto più coinvolto nella merce che vende: deve possedere una professionalità quasi maggiore di coloro che lavorano in una normale libreria, proprio perché il suo pubblico è più generico e casuale.
Le librerie non debbono mai imbarbarirsi. Alcuni anni fa, a Milano, c’era una libreria stretta e lunga, in una grande via commerciale. Aveva un bellissimo soppalco, quasi un rifugio di Peter Pan, dove si arrampicavano i bambini e trovavano colorite seggioline e scaffali bassi con libri tutti per loro. Mia figlia ci stava ore, mentre io curiosavo tra i banchi al piano di sotto, e la trovavo col nasino immerso in un volume illustrato o a chiacchierare con occasionali amichetti dei personaggi delle storie che stavano leggendo. Dovevo portarla via a forza: lì ha imparato ad amare i libri e ad aver confidenza con le librerie. Un giorno chiusero quella simpatica libreria, per aprirne una più grande, su tre piani, dall’altro lato della strada. La libreria stava nel sottosuolo (negli altri piani: la cancelleria e qualche best-seller e, più in alto, i dischi e le videocassette), senza finestre e con poca aria. Ma la cosa più grave è che su una parete del piccolo spazio dedicato ai bambini avevano messo un grande schermo televisivo dove venivano proiettati a ciclo continuo cartoni animati. Così i poveri genitori che, nei giorni festivi, portavano fuori i figli anche per sottrarli ad un eccessivo rimbambimento davanti al televisore domestico, se ne ritrovavano uno più grande in libreria, col risultato che i bambini non guardavano più i libri. Oggi, dopo molte proteste, lo schermo è stato tolto ed è un piacere vedere tutti quei bambini star là seduti a leggere i loro libri.
Il libraio, o la catena di libreria, possono riempire i loro negozi di tutte le cose che vogliono: dalla cancelleria alle cartoline, ai CD di musica e cinema, ai pupazzetti e i cioccolatini per gli innamorati, alle bottiglie di vino pregiato, ai tè aromatici, agli oggetti elettronici, ai lavori d’artigianato locale. Ma devono sempre ricordarsi di essere dei librai e che le altre merci non possono nascondere i volumi. Chi entra nel loro negozio per comprarsi un CD, deve uscire anche con un libro, che lo ha colpito passandoci accanto o gli è stato consigliato per associazione di idee con l’oggetto che ha comprato: un disco di tanghi, ad esempio, non può lasciarsi dietro invenduto un racconto di Borges, un saggio sulla cultura argentina, un romanzo di Sabato, o un’ affascinante raccolta dei testi dei tanghi col testo a fronte, un libro con le strisce di Mafalda, una guida al fascino inesauribile di Buenos Aires, o un volume di Corto Maltese.
Il più grande difetto che può avere un libraio è di essere uno snob. La vera cultura non si è mai identificata con una setta di pochi eletti. Il libraio che disprezza i suoi clienti non è adatto a fare questo bellissimo mestiere. Un mestiere che è veramente un servizio, nel senso più alto della parola: un servizio alla memoria e alla cultura. Ma anche un servizio alla gioia e al piacere. Le lunghe e festanti code davanti alle librerie in attesa della mezzanotte per poter acquistare l’ultimo romanzo della saga di Harry Potter ci fanno capire (a noi che questo genere di code le abbiamo fatte solo per un concerto rock, o un’opera lirica, per un film o uno spettacolo teatrale) che il libro è ancora capace di appassionare larghe fette di pubblico e di giovani. Giovani che sapranno amare e rispettare i libri, se non verranno rovinati dalla scuola che fa loro leggere i romanzi e poi li sottopone a test, ricostruzioni grafiche delle strutture narrative del testo e altre scempiaggini che fanno pensare che la letteratura sia soltanto una cosa di studio. Ci sono però anche tanti bravi insegnanti che accompagnano i loro studenti in libreria, iniziandoli a riconoscere quel luogo come uno spazio amico.
I librai delle grandi librerie e degli esercizi inseriti nei centri commerciali, dovranno essere sempre più librai e non annacquare lo spirito identitario forte di una categoria tra le più importanti per la difesa della cultura. La vasta offerta, le campagne promozionali, la capacità di attrarre soprattutto i giovani con la contemporanea proposta di altre merci (musica, film ecc.), sono la grande possibilità di allargare il mercato degli acquirenti di libri. A patto però di mantenere alta la professionalità e la qualità del rapporto con il cliente.
I librai-proprietari delle piccole librerie dovranno difendersi dalla concorrenza accentuando ancor di più questi aspetti dell’identità, essere imbattibili sui servizi offerti al cliente e, soprattutto, dedicare una parte del loro esercizio alla specializzazione: individuando meglio, nella propria zona, i clienti potenziali, attirando in libreria (con presentazioni e altre iniziative) coloro che cercano libri per poter migliorare la propria professionalità. Il sogno dell’educazione permanente, proprio nel momento in cui il sistema scolastico conosce una crisi profonda, si sta realizzando, in modo strisciante, per molte categorie professionali: l’aggiornamento continuo, per poter svolgere bene il proprio lavoro, attraverso l’acquisto di libri e riviste (internet soddisfa infatti solo in parte questo bisogno) è ormai una necessità per molte persone. Le piccole librerie devono attrezzarsi a essere dei poli di servizio.
Sia il libraio proprio l’amico simpatico e disponibile, che non dà fregature e rispetta l’acquirente, il curioso, o anche soltanto quello che ha dato lì l’appuntamento alla fidanzata perché fuori piove (cosa ormai impossibile nella quasi totalità degli altri esercizi commerciali). Un libraio così non avrà nulla da temere dalla concorrenza fredda e seriale dell’edicola e anzi, se starà con le antenne ben attente, potrà anche sfruttare le suggestioni che un libro comprato con un giornale può suscitare (non sono stati infrequenti infatti i casi, negli ultimi anni, di persone che, acquistato in edicola, un classico, o un capolavoro di uno scrittore, o una raccolta di poesie, abbiano poi cercato in libreria altri libri di un autore scoperto così e apprezzato). Lo stesso discorso vale per l’acquisto di libri su internet (utilissimo soprattutto per i volumi rari o stranieri): il rapporto umano con il libraio, la possibilità di compulsare fisicamente il volume, e il vantaggio di poterlo immediatamente confrontare con altri vicini, rimarranno per molto tempo ancora insostituibili.




domenica 11 ottobre 2015

Per una storia di Adelphi





Maurizio Crippa
Storia, mitologia (ed economia) di Adelphi, la casa editrice che ora diventerà una bandiera della diversità

Roberto Calasso non entra nel gruppo, si ricomprerà (vedremo come) le quote di Rcs. Nel nome dell’autonomia e della qualità. Il lungo rapporto con Lady Agnelli
Il Foglio, 6 ottobre 2015







Si separarono per colpa di Nietzsche. Così vuole non la leggenda, bensì l’archeologia culturale italiana (chi mai si separerebbe più, oggi, per Nietzsche o per Lukács? Nemmeno nel Pd). Luciano Foà non riuscì a ottenere da Giulio Einaudi le garanzie economico-ideologiche per avviare la pubblicazione nei Millenni dell’opera omnia del filosofo tedesco. Questioni di costi editoriali, intrecciate a questioni squisitamente culturali, allora più o meno come ora. Foà se ne venne a Milano, in via San Giovanni sul muro, assieme al suo amico Roberto “Bobi” Bazlen e con i soldi di Roberto Olivetti, il figlio di Adriano, e altri collaboratori eccellenti. Era il 1962, il pittogramma cinese della luna nuova (“morte e rinascita”) e la grafica-non grafica delle copertine, con i suoi colori pastello che ancora oggi qualcuno definisce un “urlo sussurrato”, erano già pronti a intestarsi la storia e la mitologia di una cultura “altra”, e “alta”, rispetto a quella di Casa Einaudi, guardiana dell’ala sinistra del pensiero. Autonomia, indipendenza dal mainstream ideologizzato d’allora, capacità di forgiarsi una sorta di proprio Zeitgeist, riconoscibile dai (allora) non moltissimi lettori.

Che Adelphi sarebbe rimasta fuori dall’acquisto di Rizzoli libri da parte di Mondadori non è mai stata una notizia: Roberto Calasso acquisterà il 58 per cento delle azioni in mano a Rcs, in base a un accordo siglato oltre dieci anni fa. Come sempre anche in passato, nella storia austera e un po’ altezzosa della casa editrice, la scelta culturale e l’attenzione prudente alla pecunia si sovrappongono. Quando sul finire degli anni Novanta Adelphi non navigava in acque tranquille, per così dire, Rizzoli entrò nella proprietà – la grande estimatrice dei suoi volumi è da sempre Marella Agnelli – fino a una quota del 37 per cento. Quando poi, in successivi passaggi, la quota Rcs salì oltre il 50, Roberto Calasso, che è un intellettuale ma non un sognatore, chiese e ottenne da Rcs una impegnativa a veder rispettata l’autonomia editoriale (compresi i conti) e soprattutto la possibilità di riacquisto in caso di una futura vendita giudicata non gradita. L’altra metà della storia è l’antipatia mai dissimulata da parte di Calasso e del suo entourage culturale per Casa Berlusconi. E ora sarà su questa resilienza, su questo orgoglioso sfilarsi dal nuovo gruppo, che si costruirà, si può esserne certi, un altro pezzo del mito di Adelphi presso il pubblico e presso tutti i preoccupati custodi della libertà della cultura (il ministro-scrittore Dario Franceschini: “Rischi per il delicato mercato del libro”).

La casa editrice dai titoli raffinati e dai colori pastello rimarrà in questo modo una delle poche medio-grandi indipendenti del panorama editoriale italiano – nel segno di una cultura sofisticata e della cura artigianale per il prodotto. Non l’unica, certo. Per dimensione, artigianalità e autonomia dai grandi conglomerati ci sono case editrici che valgono quanto Adelphi, da Minimum fax a Codice edizioni. Ma nessuna vanta quel marchio, quella storia, quella noblesse. Che se ne farà, l’Adelphi di Roberto Calasso, di questo patrimonio immateriale dalle implicazioni molto materiali, una volta che avrà respinto al mittente, è sicuro anche questo, la tentazione di appropriazione indebita da parte dei mille anti mercatisti in cerca di nuove bandiere – è difficile dirlo, ma è interessante domandarselo. Adelphi godrà ancora di più dell’immagine di sancta sanctorum inviolabile; una certa, dissimulata o strillata fuga di autori verso la casa dei “fratelli” è data per scontata – soprattutto dalla scuderia Bompiani, quella guidata da Elisabetta Sgarbi, dalla quale per primi si sono alzati gli alti lai contro la berlusconizzazione culturale del mercato mangia-tutto, a partire da Umberto Eco.

Ovviamente, la curiosità degli operatori del settore dà la precedenza a un altro aspetto: dove recupererà il patron di via San Giovanni sul Muro, assieme ai suoi soci di minoranza, i danari per ricomprarsi il  58 per cento della sua storia? La cortesia della famiglia Agnelli, Marella Caracciolo ha pubblicato per i Tipi di Calasso ben due libri in due anni, “Ho coltivato il mio giardino” e “La signora Gocà”, è da tempo la prima indiziata; al di là delle smentite ufficiose e dei non piccoli problemi di intrecci proprietari. Qualche conoscitore del mercato, addirittura, già pensa che il valore del marchio e delle sue azioni sarà premiato dalla scelta di indipendenza.


Ma volendo guardare un po’ più in là, e con più concretezza? Un uomo di editoria esperto e abituato a guardare “più in là” come Marco Ferrario, che è stato a lungo manager mondadoriano (Mondadori Informatica & New Media) e dal 2010 si è creato un proprio business nell’editoria online con bookrepublic.it, la più grande libreria online italiana indipendente e poi con 40k, una casa editrice nativa digitale che pubblica in cinque lingue e vende in tutto il mondo, ammette che “lo scontento di Calasso per un ingresso in casa Mondadori è evidente, come lo è la sua voglia di indipendenza”. Ma poi preferisce ragionare  sul fatto che si tratta di una abile mossa commerciale e di posizionamento. “Nel gruppo c’è già Einaudi, che con le dovute differenze si rivolge a un pubblico simile. Ci sarebbe una concorrenza interna e tra cataloghi e linee editoriali. Stando fuori, l’autonomia è premiata, concorrenza e riconoscibilità sono destinate a crescere. E’ una scelta giusta, logica”. Chissà se però, e qui parla l’editore digitale, Adelphi avrà mai la voglia di rischiare il proprio patrimonio di autonomia in un altro modello industriale: “Quello librario di oggi è finito: costi troppo alti, distribuzione elefantiaca per poter esistere nelle librerie, meccanismi di resa pesantissimi. Il modello della vendita online, o del print on demand, potrebbe essere il futuro dei marchi medio-piccoli di qualità. Ma non credo sarà la scelta di Calasso”. Modelli commerciali, scelte culturali.



sabato 10 ottobre 2015

Inservibile Severino, perduto tra il tutto e il nulla

Alfonso Berardinelli 
Contro Severino, l’iperfilosofo
Il Foglio, 10 ottobre 2015
a proposito di Emanuele Severino, In viaggio con Leopardi. La partita sul destino dell'uomo, Rizzoli, Milano 2015




Mi ero distratto, avevo dimenticato per un momento (durato un paio d'anni) di occuparmi di Emanuele Severino, il nostro più tipico e puro iperfilosofo, specializzato nella pretesa di superare ogni altro filosofo dell'intera tradizione occidentale. Dall'alto podio delle edizioni Adelphi, Severino  perseguita da quarant’anni i lettori italiani con la favola antica dell’Essere e del Divenire. Dopo aver distinto nettamente questi due verbi, Severino ha aggiunto, in una cinquantina di libri, che l'essere non è il divenire perché il divenire non è l'essere. Chi crede il contrario e azzarda anche momentanee e parziali concomitanze fra i due verbi, cade secondo lui nella Follia dell'occidente, cioè è un pazzo.    Due verbi come quelli, trasformati in realtà metafisica, offrono materia per un eterno conflitto metafisico, di cui Severino è il massimo specialista e arbitro. Mi fermo qui, perché dopo poche righe ne ho già abbastanza. Severino invece non si sazia mai di giocare la stessa partita a esito garantito, perché in conclusione lui vince sempre, con l'essere che è la sola realtà, mentre il divenire è tutto una bugia.
...
L'iperfilosofo, per non farsi mancare materia filosofica, non ha voluto capire che dire "nulla" è solo un modo di dire. Indica l'entrare o l'uscire di qualcuno dall'orizzonte della nostra esperienza. E' questo che ci fa gioire o piangere. Fosse anche che qualcuno va in paradiso o all'inferno, per noi non c'è più. Il nulla non c'entra niente.
Arrivati al capitolo conclusivo, per chi non l'avesse già previsto, Severino viene allo scoperto. Smette di fare inchini al pensiero culminante di Leopardi e con un colpo solo gli strappa il culmine. Se Leopardi aveva superato tutta la tradizione occidentale, chi supera Leopardi supera tutto e tutti.
...

http://www.huffingtonpost.it/corrado-ocone/per-severino-si-scrive-giustizia-ma-si-legge-necessita_b_8122440.html

venerdì 9 ottobre 2015

Il volto della regina Nefertiti


 
Daniela Monti
La bellezza non è un mito (il cervello sa riconoscerla)
Corriere della Sera, 9 ottobre 2015







A quanti/e hanno pensato: «La bellezza è un mito, il vero splendore viene da dentro». Al 70% di donne che ad un sondaggio di Episteme su bellezza e felicità aveva risposto: «Mi sento più bella quando sto bene con me stessa». A chi aveva cominciato a credere al fiorire di un’idea «democratica» di bellezza, in cui ciascuno/a con i propri difetti potesse trovare cittadinanza. Doccia fredda per tutti. Nature dedica un approfondimento alla bellezza e il risveglio è brusco: non è «questione di gusti», la bellezza oggettiva esiste, fornisce informazioni giudicate affidabili su età, fertilità, salute e il nostro cervello è ben allenato a riconoscerla. «Gli esseri umani sono ossessionati dalla bellezza. E quando si trova un’ossessione come questa, ci deve essere qualcosa di più profondo che non una semplice norma culturale», dice Karl Grammer, antropologo a Vienna, fra i pionieri degli studi sull’attrazione e voce del dossier di Nature .
...  E qual è dunque la vera bellezza? È il volto della regina Nefertiti, come ci è stato tramandato dal busto, vecchio 3.300 anni, custodito al Neues Museum di Berlino: labbra carnose, zigomi alti, occhi allungati. Di quell’antico Egitto sprofondato in una storia abissalmente lontana è rimasta dunque un’idea di bellezza che ancora resiste.
I nuovi strumenti delle neuroscienze avrebbero individuato le caratteristiche che ci fanno definire un volto attraente. Simmetria e dimorfismo sessuale (femminilità e mascolinità) innanzitutto. Una faccia simmetrica indica uno sviluppo sano, privo di malattie genetiche o malattie infettive. Un volto molto femminile — le labbra, gli zigomi e gli occhi di Nefertiti — richiama l’idea di fertilità. E quando ci imbattiamo in un volto così, difficile resistergli: alcune aree cerebrali vengono stimolate, generando sensazioni piacevoli, «vedere un volto attraente ci fa sentire come se avessimo appena vinto dei soldi, vederne uno poco attraente come se li avessimo appena persi». Il cervello dunque risponde rapidamente e automaticamente alla bellezza, alla quale associa un’idea morale di bontà complessiva, con tutti i risvolti pratici (e inconsci) che questo comporta (persino sulle decisioni giudiziarie).
Quindi, partita chiusa? «Per un lungo tempo la bellezza è stato un segnale non falsificabile. Ma ora le cose sono cambiate». Le labbra, gli zigomi, gli occhi di Nefertiti sono diventati beni acquistabili. «Avremo bisogno di altre 10 o 20 generazioni di chirurgia plastica per vedere gli effetti evolutivi». Ingannare il cervello non è semplice, i segnali che capta sono molti: «Si può cambiare la simmetria del volto — chiude Grammer—. E poi inciampare sull’odore emanato dal corpo».


mercoledì 7 ottobre 2015

Chantal Akerman, regista

Andrea Chimento
Addio a Chantal Akerman, grande regista sperimentale
Il Sole 24ore, 7 ottobre 2015










Si è spenta a sessantacinque anni Chantal Akerman, una delle autrici sperimentali più importanti della storia del cinema.
Nata a Bruxelles il 6 giugno del 1950, la regista ha scosso con la sua inaspettata scomparsa (si teme si tratti di suicidio) il mondo della settima arte, passione e professione a cui ha dedicato la sua intera carriera.
Dopo essere stata folgorata, a quindici anni, dalla visione de «Il bandito delle 11» (1965) di Jean-Luc Godard, s'iscrisse alla scuola di cinema della capitale belga ma, allo studio, preferì dei lavoretti per ottenere qualche risparmio e realizzare i suoi primi cortometraggi.
Firma il primo lungo, «Hôtel Monterey», nel 1972 ma il suo lavoro più significativo in assoluto sarà il successivo «Jeanne Dielman, 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles» (1975).
Considerato il manifesto del cinema femminista, è una grande opera sperimentale che, in ben 201 minuti, racconta la vita di una madre e casalinga annoiata, alle prese con le proprie faccende quotidiane, tra lavoretti domestici e clienti che la pagano in cambio di prestazioni sessuali. La sua routine verrà interrotta da un atto violento e inatteso.
All'epoca fece molto parlare di sé, ma ancora oggi è un film potentissimo e strutturato con un invidiabile rigore geometrico.
Tra i suoi tanti lavori degli anni Ottanta (compresi diversi cortometraggi), si ricorda in particolare il bel «Tutta una notte» (1982), un'altra pellicola originale e sorprendente, che segue molteplici personaggi nell'arco di una sola nottata.
Successivamente, firma anche opere più “tradizionali” dal punto di vista narrativo: dal notevole «Notte e giorno» (1991) al banale «Un divano a New York» (1996), con protagonisti Juliette Binoche e William Hurt.
Con l'avvento del nuovo millennio, dirige un film ambiziosissimo e riuscito a metà: «La captive» (2000), con Stanislas Mehrar e Sylvie Testud, ispirato a «La prisonnière», quinto capitolo della «Recherche» di Proust.
Il suo ultimo lavoro, «No Home Movie», è stato presentato in concorso al Festival di Locarno 2015: si tratta di un documentario che racconta il suo rapporto con la madre, durante l'ultimo periodo di vita di quest'ultima, e che oggi acquista una valenza ancor più angosciosa.

http://ilmanifesto.info/chantal-akerman-un-atto-damore/
http://next.liberation.fr/culture-next/2015/10/06/chantal-akerman-faisait-des-films-avec-sa-chair-sa-peau-sa-vie_1398256
http://www.theguardian.com/film/2015/oct/06/chantal-akerman-pioneering-belgium-film-director-and-theorist-dies-aged-65

martedì 6 ottobre 2015

La svastica

Silvia Ronchey 
Dalla saggezza al male assoluto il destino della svastica
La si ritrova in oriente e nella Grecia antica. Nel Medioevo è addirittura associata a Cristo
A settant’anni dalla fine del Terzo Reich, quel che resta di un simbolo pacifico snaturato per sempre dai nazisti
 
la Repubblica, 5 ottobre 2015

Esattamente centodieci anni fa, nel 1895, un monaco cistercense austriaco di vent’anni, Adolf Lanz, appassionato di occultismo, di neopaganesimo, di riti esoterici e di religione indiana, come un po’ tutti all’epoca ma forse con un ardore più sulfureo, fu espulso dalla facoltà di teologia della città dove viveva, Linz, sul Danubio, già celebre per l’omonima sinfonia di Mozart e per l’impareggiabile torta, e partì per l’India. Non lontano da Calcutta acquistò un anello che recava inciso un segno di estrema bellezza. Si trattava di un tipo di croce, e la croce, si sa, è anzitutto un simbolo solare: il pagano imperatore Costantino lo aveva visto quando aveva guardato il sole accecante alla vigilia
della battaglia di Ponte Milvio, e di qui era nata l’improbabile leggenda eusebiana di una sua conversione al cristianesimo, da allora riflessa nell’arte occidentale fino agli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo. Ma, in particolare, l’emblema inciso sull’anello comprato da Adolf Lanz era una delle forme più notevoli di croce orizzontale: quella tracciata su un piano che per rappresentare la rotazione intorno a un centro fisso aggiunge alle estremità dei suoi rami, ad angolo retto, segmenti geometrici tangenti a un’invisibile circonferenza.
Quel segno in sanscrito era denominato swastika. Identificato da Guénon con il “segno del Polo”, il punto intorno cui verte la rotazione del mondo, assimilabile, nella caotica reductio ad unum dell’esoterismo massonico del tempo, all’Invariabile Mezzo della tradizione cinese come al Motore Immobile aristotelico, nel Simbolismo della croce è collegato direttamente alla cosiddetta Tradizione primordiale anzitutto perché presente fin dalle epoche più remote nelle zone più diverse del pianeta.
Almeno questo è vero. L’orientalismo di fine Ottocento ha conosciuto lo swastika perché ancora molto diffuso in oriente, in Tibet, in Cina e in Giappone oltre che in India. Nel mondo induista è emblema di Vishnu, nell’iconografia buddhista è impresso sul cuore del Buddha, nello zen l’ideogramma che lo rappresenta è immagine della coscienza iniziatica dell’eterno ritorno. Ma l’ancestrale graffito indoiranico, figura del principio ordinante che origina tutte le cose e cui tutte le cose tornano nel loro ciclico divenire, simbolo “eracliteo” come lo definì Georges Bataille, dilaga in ogni ansa del labirinto della storia dell’iconografia globale.
Lo si ritrova nella Grecia preellenica, in più varianti collegate al moto perperpetuo della greca; nei vasi e nelle ceramiche del mondo etrusco, sannitico, messapico, nuragico; nell’arte dell’antica Roma, nei mosaici delle domus italiche, nella valle dei templi ad Agrigento, a Paestum. È immortalato dalla lava a Pompei e Ercolano, scolpito in Sant’Ambrogio a Milano, associato ai gammadia protocristiani e alla cosiddetta Croce del Verbo, profuso nei mosaici bizantini, in San Vitale a Ravenna, nel mausoleo di Galla Placidia. Nel medioevo occidentale è uno degli emblemi di Cristo, fiorisce nelle chiese e nelle cattedrali, si avvinghia ai simboli dell’ermetismo cristiano, in particolare carmelitano. Nel crepuscolo boreale, nei culti di Odino e di Thor, nei riti apotropaici dei popoli germanici oppressi dal tenebroso cielo nordico, ritorna simbolo solare, o augurale, come nell’arte popolare della Finlandia e dell’Estonia e sulle soglie delle case contadine della Lettonia e della Lituania, nei reperti preistorici dell’Ucraina e della koiné balcanica, dove serpeggia nei ritrovamenti neolitici della cultura Vinca. Corre a zigzag dall’uno all’altro polo, scavalca gli oceani, emerge tra i simboli sciamanici dei nativi americani, come i Navajo o i Cuna, che ancora negli anni ’20 del Novecento ne fecero letteralmente bandiera della lotta contro la colonizzazione.
Furono loro per primi, i fieri indiani d’America, a volerlo sopprimere quando nella seconda guerra mondiale quel simbolo di vita e di pacifica accettazione del corso del mondo fu snaturato da ciò che lo stesso Guénon chiama «l’uso artificiale e antitradizionale dello swastika da parte dei razzisti tedeschi, i quali, con il nome fantasioso e piuttosto ridicolo di Hakenkreuz o croce uncinata, ne fecero molto arbitrariamente un segno di antisemitismo, con il pretesto che questo emblema sarebbe stato peculiare della cosiddetta razza ariana, quando invece si tratta di un simbolo veramente universale».
Per capire come mai questo segno mistico legato alla vita, alla generazione e all’accettazione dell’essere sia diventato il micidiale logo novecentesco che ancora oggi ci agghiaccia dobbiamo tornare a quell’anno 1895 che segna il suo ingresso nell’ imagerie dei teosofi dal cui incerto e confuso bacino di riti, credenze e dilettantesche conoscenze nacque la mistica del Terzo Reich. Adolf Lanz utilizzò il segno inciso sull’anello come emblema della setta che fondò non appena tornò in Austria, l’Osthara, inizialmente formata per lo più da chierici protestanti rinnegati, che mescolava l’esoterismo orientalista a un antisemitismo radicale e predicava lo sterminio degli ebrei usando lo swastika come primo emblema documentato dell’ariosofia: l’esaltazione della razza ariana iperborea e del suo ruolo predestinato di purificatrice dell’umanità.
Fu da lì, dalla bandiera gialla pretenziosamente araldica di quei refoulés ecclesiastici nutriti di rivendicazioni aristocratiche e di popolani furori razziali, che la svastica divenne simbolo del neopaganesimo tedesco e poi della Thule Gesellschaft, dal cui bric-à-brac esoterico il diabolico istinto comunicatore del giovane Hitler la trasse inserendola nel 1920 nella bandiera del partito nazionalsocialista e stagliandola su fondo rosso, a imitazione di quello della contemporanea e rivale bandiera comunista.
Solo alcuni intellettuali allora si accorsero della gravità del sacrilegio. Fu peraltro in seguito che Georges Bataille diede voce al «disgusto per l’accaparramento» del simbolo di cui riconosceva con empatia il significato eracliteo. Quel reimpiego suggeriva una temibile sacralizzazione del movimento hitleriano, che gli era apparso, pour cause , «un tentativo schiavista di ricomposizione monocefala della società»; e capovolgeva perciò diametralmente l’originario messaggio “sacro” di filosofica meditazione sulla complessità del mondo.
Ma i simboli, come i miti, hanno una forza intrinseca che agisce sull’irrazionale. Proprio la semplicità e universalità della svastica, unita alla tenebrosa genialità comunicativa del nazismo, della sua estetica architettonica, della sua grafica che combinava la suggestione esotista- esoterista alle geometrie Novecento, resero quella bandiera, con la sua immensa svastica nera inscritta su tondo bianco in campo rosso, una delle più forti, suggestive e terrificanti della storia.
La trasformazione novecentesca di un simbolo di accettazione cosmica in un richiamo ipnotico di intolleranza, di sterminio e di morte si conclude nell’anno e nel momento stesso che estingue per sempre la storia del nazismo: la caduta di Berlino del 1945 [...].
Nel cinquantennio 1895-1945, di cui ricorre quest’anno il duplice anniversario, è racchiusa la parabola del simbolo più terribile del secolo breve, che ha la forza, come quasi sempre la storia, di un avvertimento. Non solo sul potere dei simboli, sulla loro potenzialità distruttiva che ogni guru o augure o sciamano conosce e contempla, simmetrica e inversa alla loro potenza vivificatrice, ma anche sulla pervicace tendenza della natura umana al fanatismo, che scatena il contrarsi del sapere sul passato in un credo univoco e trasforma i dati relativi della storia in assoluti ideologici, in un’ansia di purificazione della loro invincibile molteplicità, ambiguità, ibridità. Il secolo scorso ha visto lo swastika posato sul cuore del Buddha, la saggezza accettatrice dell’eterno ritorno del mondo, associarsi al nazismo; ma anche la falce di Diana, della Dea Bianca, della divinità femminile generatrice, già trasformata nella mezzaluna della conquista ottomana, affiancarsi su fondo rosso al martello operaio.