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sabato 29 marzo 2025

La quarta Lescano


Andrea Joly, La quarta Lescano: compie 100 anno Maria Bria, dal 1946 sostituì la minore delle sorelle del TrioLa Stampa Torino, 29 marzo 2025 

«Guarda, guarda, guarda il bel pinguino innamorato». Ore 16, Casa dell’Immacolata. Nella sala comune della residenza privata per anziani in via Saccarelli oltre trenta ospiti sono seduti intorno a una torta di compleanno. «Col colletto duro e con il petto inamidato...», prosegue la cantante chiamata per l’occasione. Due signore anziane ballano, tutti gli altri canticchiano. Al centro del gruppo c’è Maria Bria, le candeline sono per lei. Disegnano il numero 100. Con un fiato di voce, a fine strofa, intona insieme a tutti: «Va, passeggiando sopra pack, con un’aria molto chic, dondolando mollemente il frac».

Quello a due passi da piazza Statuto non è un compleanno qualunque, e non solo perché si festeggia un centenario. Maria Bria ha fatto parte del mitico Trio Lescano - autore tra le altre canzoni di “Pinguino innamorato”, “Tulipan” e “Maramao perché sei morto” - dal 1946 al 1952. Solo che nessuno l’ha mai saputo. È “entrata” dopo che la terza delle tre sorelle ungaro-olandesi, Caterina, aveva abbandonato le maggiori Alessandra e Giuditta.

L’ingresso in segreto

La torinese Maria Bria era la quarta Lescano. In incognito: «Sono stati anni indimenticabili», dice mentre stringe il mazzo di rose e tulipani donatole dalla casa di riposo dove vive da oltre sei anni. Sei anni è anche la durata della sua carriera da cantante: «Sono entrata a far parte del Trio in segreto, appena finita la guerra: nessuno doveva accorgersi che fossi un’altra - racconta - poi, nel 1952, ho lasciato ed è finito tutto». Trio compreso, scioltosi con il suo addio.

L’addio

Un passo indietro nella storia. Le sorelle Lescano si erano trasferite a Torino nel 1935 dopo le prime tournée europee col nome di Sunday Sister. La consacrazione e i grandi successi, però, arrivano quello stesso anno con la nascita del Trio Lescano, lanciato dal maestro torinese Carlo Alberto Prato. Un suo collega, Piero Pasero, presenta Maria Bria ad Alessandra e Giuditta Lescano. Al Trio serviva un nuovo mezzosoprano e Maria lo era. Non solo si incastrava alla perfezione, ma aveva anche una passione smisurata per il canto: quando le hanno proposto di unirsi al Trio «non sembrava vero», ammette. Dopo due anni di tour nell’Italia in ricostruzione dopo la guerra e il fascismo, la grande occasione: una tournée in Argentina, dai tanti italiani emigrati che amavano il Trio Lescano, con Radio El Mundo. «Siamo partite nel 1948 e sono tornata indietro 4 anni dopo». Perché? «Lavoravo gratis e stava nascendo la mia seconda figlia».

Il libro

A tramandare la sua storia, oggi, c’è anche la figlia Alba Beiras. Nel suo libro (I miei tu-li-pàn, Armenio editore) intreccia la vita di mamma Maria con quella delle «canterine del potere o dell’esatto opposto, tant’è che vennero arrestate in quanto di origini ebree o perché ritenute spie», scrive. «Subito dopo il rientro in Italia aveva mia sorella Diana e me da crescere - aggiunge la primogenita - e dopo qualche provino ha preferito smettere e dedicarsi ad altri lavori. Ma a casa cantava eccome: siamo cresciute con quelle canzoni che aveva imparato in tre lingue diverse».

Dipendente in Comune

Come loro, anche tantissimi altri italiani. Generazioni intere: figli e nipoti di chi ascoltava il Trio Lescano in radio. Tre sorelle più una: Maria Bria. Tra loro anche il presidente della Regione Alberto Cirio, ieri mattina in visita per farle gli auguri: «Sono andato a ringraziarla perché con il suo talento ha reso grande il Piemonte - dichiara Cirio - e la sua voce ancora oggi ci fa sognare, ballare e cantare». Abbandonata la musica, Maria Bria è stata una dipendente comunale a Torino. Ufficio imposte e tasse. Ha vissuto tra San Salvario e Chivasso senza mai più calcare un palco se non alle presentazioni del libro della figlia: «L’unica volta che ha incontrato Alessandra Lescano era il 1985 - racconta ancora Alba - lei l’ha riconosciuta dalla voce». «Sì, ho avuto una bella vita», saluta tutti Maria dopo aver spento le candeline.

martedì 9 maggio 2017

Sono nella musica


Siamo in un modesto locale della provincia francese (J.-P. Sartre, La nausea, 1938, Mondadori, Milano 1984, pp. 48-50). Qui, grazie al piccolo gesto di una cameriera che gira la manovella di un fonografo, sta per compiersi un miracolo della sospensione destinato a durare il tempo di una canzone ma a perdurare nel tempo della memoria e della coscienza. 
Antoine Roquentin, il protagonista del romanzo, crede che da quel fonografo stiano per sopraggiungere le note  della “Cavalleria rusticana”, com’è accaduto alcuni giorni prima.  Ma no, non è la Cavalleria.  E’ il jazz, anzi più precisamente “un vecchio ragtime”  anni ’20, “Some of these days”, cantato da una donna di colore con una voce graffiante, con un bel ritornello che “si getta avanti come una scogliera contro il mare”, il ritmo è suadente e incalzante, “tanto è forte la necessità di questa musica che nulla può interromperla, nulla che provenga da questo tempo dove il mondo s’è arenato”.
Quello che accade a Roquentin è che la sua nausea, quella nausea che sente dentro di sé, fuori di sé, attorno a sé, che accompagna malinconicamente le sue giornate, che morde col tedio la sua vita, “ è scomparsa … Di colpo … Nel tempo stesso la durata della musica si dilatava, si gonfiava come una tromba d’aria. Colmava la sala con la sua trasparenza metallica. Schiacciando contro i muri il nostro tempo miserabile. Io sono dentro la musica”. E fuori dall’esistenza. (Stefano Cazzato)

http://www.romainjazz.it/index.php/editoriale/53-sartre-tempo-della-musica

Maddalena gira la manovella del fonografo. Purché non si sia sbagliata, purché non abbia messo come l'altro giorno la romanza della Cavalleria rusticana. No, è proprio questa, riconosco il motivo dalle prime battute. E' un vecchio ragtime con ritornello cantato. L'ho sentito fischiettare da soldati americani per le vie di La Rochelle. Dev'essere di prima della guerra. Ma l'incisione è molto più recente. Con tutto ciò è il più vecchio disco della collezione, un disco Pathé con punta di zaffiro. 
Tra un momento ci sarà il ritornello: è sopratutto questo che mi piace e la maniera improvvisa con cui si getta avanti come una scogliera contro il mare. Per ora suona soltanto il jazz, non v’è melodia, solo note, una miriade di piccole scosse. Non hanno sosta, un ordine inflessibile le fa nascere e le distrugge, senza mai lasciar loro l’agio di riprendersi, di esistere per se stesse. Corrono, s’inseguono, passando mi colpiscono con un urto secco, e s’annullano. Mi piacerebbe trattenerle, ma so che se arrivassi ad afferrarne una, tra le dita non resterebbe che un suono volgare e languido. Devo accettare la loro morte; devo perfino volerla: conosco poche impressioni più aspre e più forti.
Comincio a riscaldarmi, a sentirmi felice. Non è ancor nulla di straordinario, è una piccola felicità di Nausea: si estende sul fondo della pozza vischiosa, sul fondo del nostro tempo - il tempo delle bretelle color malva e delle panche sfondate -  è fatto d'istanti larghi e molli, che ai margini s'allargano in una macchia oleosa. Appena nato è già vecchio, mi per di conoscerlo da vent'anni.
C'è un'altra felicità: esternamente, v'è questa striscia d'acciaio, l'esigua durata della musica che traversa il nostro tempo da parte a parte, e lo respinge, e lo lacera con le sue secche, piccole punte; c'è un altro tempo.
- Il signor Randu gioca cuori, e tu passi la maniglia.
La voce scivola e sparisce. Nonv'è nulla che morda sul nastro d'acciaio, né la porta che si apre, né la zaffata d'aria fredda che scorre sulle mie ginocchia, né l'arrivo del veterinario con la sua nipotina: la musica buca queste forme vaghe e passa attraverso. Appena seduta, la bambina è stata afferrata: si tiene rigida, i grandi occhi aperti, ascolta strofinando il pugno sulla tavola. 
Ancora qualche secondo e la negra concerà a cantare. Ciò sembra inevitabile, tanto forte è la necessità di questa musica: nulla può interromperla, nulla che provenga da questo tempo ove il mondo s'è arenato; cesserà da sé, più tardi. Questa bella voce mi piace non per la sua pienezza o per la sua tristezza, ma specialmente perché è l'avvenimento che tante note hanno preparato, tanto in anticipo, morendo per farla nascere. E tuttavia sono inquieto; basterebbe così poco perché il disco s'arrestasse: che si spezzasse una molla, che il cugino Adolfo avesse un capriccio. Com’è strano, com’è emozionante che questa durezza sia così fragile. Nulla può interromperla e tutto può spezzarla.
L'ultimo accordo s'è annullato. Nel breve silenzio che segue sento acutamente che ci siamo, che è accaduto qualcosa. 
Silenzio.

Some oh these days 
You will miss me honey. 


Quello che è accaduto è che la Nausea è scomparsa. Quando la voce s’è levata, nel silenzio, ho sentito il mio corpo indurirsi e la Nausea è svanita. Di colpo: è stato quasi doloroso diventar così duro, tutto rutilante. Nel tempo stesso la durata della musica si dilatava, si gonfiava come una tromba d’aria. Colmava la sala con la sua trasparenza metallica, schiacciando contro i muri il nostro tempo miserabile. Io sono dentro la musica. Negli specchi roteano globi di fuoco; anelli di fumo li circondano velando e svelando il duro sorriso della luce. Il mio bicchiere di birra s'è rimpicciolito, si accoscia sulla tavola: ha un aspetto denso, indispensabile. Voglio prenderlo e soppesarlo, stendo la mano... Mio Dio! E' questo, soprattutto, che è cambiato, sono i miei gesti.

mercoledì 22 luglio 2015

La tromba di Paolo Fresu dalla Sardegna al mondo

Simone Lorenzati 


Paolo Fresu fa parte di quei musicisti che nascono in un luogo ma che poi si donano al mondo. Un trombettista che dalla Sardegna ha portato il suo nome ben oltre i confini della nostra isola. Inizia lo studio dello strumento già ad undici anni nella Banda Musicale “Bernardo De Muro” del proprio paese natale. Ma quando Fresu esce dalla sua condizione paesana, oltre a frequentare il Conservatorio di Sassari, conosce e si innamora del jazz. Nel 1984 si diploma in tromba presso il Conservatorio di Cagliari, avendo abbandonato Sassari, e nello stesso anno vince i premi RadioUno Jazz, Musica Jazz e RadioCorriere TV, come miglior talento del jazz italiano. Questi premi sono solo l'anteprima della fama internazionale, che arriverà non troppo dopo. Risale a questo periodo, poi, la sua idea di proporre, nella sua Berchidda, un festival di musica jazz. La manifestazione, denominata Time in Jazz, partì nella storica piazzetta rossa della piccola cittadina montana e con gli anni l'evento prese piede, passando da una data riservata agli amanti locali del genere afroamericano all'attuale manifestazione internazionale giunta alla sua XXV edizione, con artisti di calibro, una diffusione a macchia d'olio che coinvolge sia i locali dei concerti serali, sia le sempre nuove ambientazioni diurne e pomeridiane così come le continue innovazioni in campo artistico (ad esempio facendo nascere in parallelo un progetto di arti visive). 
Nel 1990 Fresu vince il premio Top jazz indetto dalla rivista 'Musica jazz' come miglior musicista italiano, miglior gruppo (Paolo Fresu Quintet) e miglior disco (premio Arrigo Polillo per il disco 'Live in Montpellier'), nel 1996 il premio come miglior musicista europeo ed il prestigioso ‘Django d’Or’ come miglior musicista di jazz europeo e nell’anno 2000 la nomination come miglior musicista internazionale. Sono solo i primi di una lunga serie di riconoscimenti che proseguono nel presente musicale. Docente e responsabile di diverse importanti realtà didattiche nazionali e internazionali, ha suonato in ogni continente e con i nomi più importanti del jazz degli ultimi 30 anni. Ha registrato oltre trecentocinquanta dischi di cui oltre ottanta a proprio nome o in leadership ed altri con collaborazioni internazionali (etichette francesi, tedesche, giapponesi, spagnole, olandesi, svizzere, canadesi, greche) spesso lavorando con progetti 'misti' come Jazz-Musica etnica, World Music, Musica Contemporanea, Musica Leggera, Musica Antica e altro ancora. Nel 2010 ha aperto la sua etichetta discografica Tŭk Music. Ha coordinato, inoltre, numerosi progetti multimediali collaborando con attori, danzatori, pittori, scultori, poeti, e scrivendo musiche per film, documentari, video o per il Balletto o il Teatro. Oggi è attivo con una miriade di progetti che lo vedono impegnato per oltre duecento concerti all’anno, pressoché in ogni parte del globo. Si divide tra Parigi, Bologna e l'amata Sardegna. E' dotato di uno stile unico e di un lirismo poetico estremamente toccante, sia si esibisca alla tromba sia al flicorno. Per quanto influenzato da Miles Davis e, soprattutto, da Chet Baker, Fresu ha saputo trovare una sua voce particolare, senza cadere nell'eccessivo virtuosismo pur essendo egli dotato di una tecnica invidiabile. Specie nelle ballads la tromba di Fresu è malinconica ma anche poetica, si riallaccia al jazz del passato ma strizzando l'occhio a quello che verrà. Un'ultima nota a margine. Chi scrive ha avuto la fortuna di partecipare ad un seminario di Siena Jazz e di suonare un paio di blues con lui insieme ad altri allievi. Un'emozione indimenticabile, al pari della grandezza e della modestia del piccolo grande Paolo Fresu. Guida all'ascolto essenziale: l'album di Aldo Romano “Non dimenticar”, con Paolo Fresu alla tromba, dedicato alla musica italiana in jazz, può essere apprezzato anche da chi non sia appassionato di musica afroamericana.

mercoledì 13 maggio 2015

Chet Baker, trombettista





Simone Lorenzati
Chet Baker, trombettista e poeta per l'eternità


Il 13 maggio 1988 moriva in un hotel di Amsterdam Chet Baker, uno dei trombettisti jazz più amati nella storia della musica afroamericana (e non solo). Si unì giovanissimo, poco più ventenne, al quartetto di Charlie Parker e da lì incominciò una carriera folgorante segnata però, purtroppo, dalla sua dipendenza dall'eroina. Tra i primi bianchi ad esibirsi nella rivoluzione del be-bop portata proprio dal contraltista Parker, curiosamente si trovò a sostituire altri due trombettisti eccelsi (Dizzy Gillespie e Miles Davis) pur avendo uno stile completamente diverso dal loro. Baker, infatti, suonerà per tutta la carriera in un modo intimista e raccolto, che darà poi origine al cool jazz (altro memorabile esempio è quello del baritonista Gerry Mulligan, col quale Chet suonerà in uno dei primi quartetti senza piano né chitarra). 
Baker è anche noto come cantante, un singer delicato ed introverso (unica la sua versione di My Funny Valentine). Anni di carcere, una vita devastata dalla dipendenza dagli stupefacenti, se non ne offuscarono il talento (“Chet mette due sole note quando altri ne metterebbero venti. Però sono proprio quelle che ti rapiscono” disse di lui il saxofonista astigiano Gianni Basso) tuttavia ne minarono la carriera. 
Dopo una scazzottata, pare con uno spacciatore, si trovò addirittura senza denti e per sopravvivere a fare il benzinaio. Dizzy Gillespie lo riconobbe, gli pagò un dentista e lo rimise in carreggiata. Chet dovette reimparare a suonare la tromba con la dentiera, una cosa inusuale e difficilissima. Eppure la sua poesia non venne meno neanche così. Morì a soli 59 anni cadendo da una finestra di un hotel olandese, sembra sotto l'effetto dell'eroina. “Adoro Chet Baker. Lo amo quando suona, ma quando canta mi sembra un angelo. Un angelo cupo, solitario, pensoso, rancoroso, dolente, ma abbagliante. Usa il cervello, non la voce. Usa l'anima, non la gola. Sono pazza di lui”, disse di lui Mina. Anche 27 anni dopo Chet Baker rimane faccia d'angelo per una infinità di jazzisti.

https://www.youtube.com/watch?v=z4PKzz81m5c

lunedì 19 gennaio 2015

Signora Mullova, può rievocare Abbado?


Leonetta Bentivoglio 
Viktoria ricorda
Mullova e la forza di Abbado “Un maestro generoso la musica era la sua parola”
La grande violinista in tour nel nostro paese con la pianista Labèque
Un anno fa la scomparsa del direttore d’orchestra, padre di suo figlio

la  Repubblica, 19 gennaio 2015

Claudio non “spiegava” i compositori, non teorizzava mai era concreto e intuitivo come me
Ho esteso il mio repertorio a Miles Davis ma senza rinunciare alla classica e alla romantica

ROMA. SPICCA in primo piano sull’elegante sito di Viktoria Mullova l’immagine di una donna seria e bellissima, uno sguardo pieno d’ombre, da indecifrabile diva moderna. A fianco è posta la foto di una bimba dall’aria cupa che suona un violino quasi più grande di lei. Sono i ritratti di Viktoria adesso e in un lontano ieri, a quattro anni, quando studiava musica nella sua Russia. E dal volto della Mullova in versione adulta affiora la stessa indole riottosa di quella minuta e arrabbiata enfant prodige.
Parliamo di una delle più geniali e acclamate violiniste emerse a fine Novecento. Nata a Mosca nel 1959, con il passare del tempo Viktoria è divenuta ancora più maliarda, come una delle modelle over 50 che oggi si vedono sulle riviste femminili più raffinate. Senz’averla logorata, la sua vita clamorosa e intrepida (nei primi anni Ottanta fuggì dall’Urss in modo drammatico e spettacolare) le ha dato un ulteriore guizzo magico e un eclettismo che le consente di dominare un’incredibile ampiezza di repertorio. Oggi fronteggia, con la medesima souplesse, musica barocca e sperimentale, romantica e world fusion. Stupisce l’intesa che questa fuoriclasse, riservata e chiusa fino alla durezza, ha stabilito con Katia Labèque, showoman travolgente al pianoforte, estroversa e impulsiva. Negli ultimi anni Viktoria e Katia si sono esibite spesso insieme, nel segno di una complementarietà «fondata sulla comune predilezione per la ricerca del nuovo», racconta Mullova, attesa in concerto con la pianista francese domani a Milano (per la Società del Quartetto). Il tour parte da Genova oggi e tocca anche Mantova (22), Firenze (24), Trieste (26), Vicenza (27) e Torino (28). «Ci piace, con Katia, avventurarci su strade inesplorate», spiega la violinista. «Siamo interpreti diverse ma con obiettivi analoghi, come la poliedricità e l’interesse per le operazioni trasversali. Oltre a Mozart, Schumann e Ravel, nel programma che portiamo in Italia figurano autori originali del nostro tempo quali Arvo Pärt e il giapponese Toru Takemitsu, la cui mirabile dimensione armonica attinge da Debussy». Nella data del concerto milanese cadrà un anno esatto dalla morte di Claudio Abbado, padre del 24enne Misha, uno dei tre figli di Viktoria. L’indimenticabile direttore d’orchestra italiano visse e lavorò a lungo con l’affascinante moscovita.
Signora Mullova, può rievocare Abbado?
«Era uno straordinario e generoso musicista: mi ha insegnato molto. Musicalmente, assai più che con le parole, comunicava tramite la sua energia e il suo carisma».
Aveva infatti fama di uomo poco loquace, anche durante le prove.
«La verità è che Claudio poteva parlare molto di musica. Ricordo certi suoi catturanti dialoghi con Maurizio Pollini sulla maniera in cui affrontare i tempi di alcuni brani. Però Abbado non “spiegava” i compositori. Non teorizzava mai. Non era astratto. Era concreto e intuitivo. Come me».
Vostro figlio ha ereditato la musicalità dei genitori?
«Fa musica con grande talento e ha un gruppo jazz dove suona il basso».
Lei vive da tempo a Londra con suo marito, il violoncellista Matthew Barley, col quale realizza programmi jazz e folk. Dai Berliner Philharmoniker e Alban Berg è passata a Miles Davis e ai Weather Reports. Metamorfosi sconvolgente… «Più che trasformarmi ho esteso il mio viaggio. Resta sempre forte e irrinunciabile la mia relazione con la musica classica e romantica. Quest’anno, fra l’altro, suonerò tanto Sibelius e Shostakovich, e sarò in tournée con l’orchestra The Age of Enlightenment eseguendo il Concerto per violino di Brahms».
Prosegue la sua collaborazione con Barley?
«Certo. Dopo il successo di Peasant Girl, un progetto che indagava gli intrecci profondi tra musica gipsy, classica e jazz, ora è andato in porto Stradivarius in Rio, ispirato dal mio amore per la musica e le canzoni brasiliane, con pezzi di Antonio Carlos Jobin, Caetano Veloso e Claudio Nucci. Abbiamo registrato un disco a Rio e ci attende un tour che include Milano il 15 marzo».
Tra i suoi due pregiatissimi strumenti settecenteschi, uno Stradivarius “Jules Falk” e un Guadagnini, qual è il preferito?
«Suono il Guardagnini, con corde di budello, per Bach, Vivaldi, Mozart e Beethoven, mentre per la musica a loro successiva scelgo lo Stradivarius, con cui ho forse sviluppato un rapporto più intenso, dato che siamo inseparabili dall’85».

domenica 16 novembre 2014

Jazz e socialismo reale


Diego Giachetti
Venti dell'Est. Il 1968 nei paesi del socialismo reale
Manifestolibri, Roma 2008

Se le merci e i flussi migratori e turistici non erano riusciti a scalfire il blocco orientale, la musica jazz, rock e beat, proveniente dall'occidente capitalistico – con tutti gli stili di vita giovanili nuovi connessi a questi fenomeni musicali e comportamentali –, si diffuse nelle società dell'Est europeo e nell'Urss a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, creando le premesse alla formazione di un mondo giovanile per molti versi simile a quello occidentale. Per questa ragione la rivolta mondiale, giovanile e studentesca del '68 poté così attraversare "gli oceani e i confini dei sistemi sociali, e produrre simultaneamente movimenti di protesta nelle società più diverse, dalla California al Messico, alla Polonia, alla Jugoslavia e alla Cecoslovacchia". In questi ultimi tre paesi la protesta giovanile si trasformò, come nell'occidente, da moda e contrasto generazionale sugli stili di vita, in critica politica, cioè in richieste di riforme innovative e profonde dei sistemi di potere. Negli altri paesi, invece, la protesta rimase confinata nel campo comportamentale e culturale e si scontrò – spesso duramente – col potere, con le istituzioni, col partito e le organizzazioni giovanili ad esso collegate, ma non divenne movimento politico organizzato. In questo senso il Sessantotto non ci fu, non venne, mancò, malgrado si registrasse la presenza di un vivace movimento giovanile già sul finire degli anni Cinquanta e per tutto il decennio dei Sessanta. Casi evidenti di "sessantotti" non esplosi si verificano nella Repubblica Democratica Tedesca, in Urss e, in misura minore, in Bulgaria e in Romania.
Osservando quel mondo nel suo insieme, alla luce della categoria generazionale, colpisce la scoperta di stili di vita, di atteggiamenti, di sensibilità proprie dei movimenti giovanili dei paesi dell'Est, condivisi con quelli dei loro coetanei occidentali. Gli studenti polacchi e cecoslovacchi
assomigliano a quelli occidentali e vestono come loro. Quando si incontrano, si riconoscono: per il modo in cui si manifesta, le comuni in cui si vive assieme, i sit-in, le discussioni, le assemblee nelle Università, e soprattutto l'atteggiamento nei confronti del potere. Un potere che viene contestato, prima ancora di ritenerlo ingiusto o dannoso, perché non gli si dà legittimità, una legittimità morale prima che politica; è una classe dirigente che viene disprezzata perché rappresenta il coagulo degli adulti, cioè di quel mondo che è considerato nel suo insieme una controparte. 
[...]
L'esplosione della beatlemania, dopo il 1964, coinvolse maggiormente i giovani e si presentò subito come un fenomeno interclassista e transnazionale. Furono coinvolti i soggetti giovanili, indipendentemente dalla loro collocazione sociale, e il loro "sentirsi giovani" superò le distinzioni nazionali che esistevano anche tra i paesi del blocco socialista. Come in Occidente, più dell'ideologia, della collocazione di classe, dell'identità nazionale o etnica, poté tra i giovani dell'Est il beat-look. Dall'Urss, dove i fans dei Beatles erano detti bitlovka, alla Polonia, dove venivano chiamati bitel, agli altri paesi Euro-orientali, fu un diffondersi di giacche senza risvolto, di cappotti tagliati e colorati come quelli del gruppo inglese; di capelli lunghi tagliati a caschetto, di stivaletti a punta e col tacco, di bottoni vistosi e lucenti. I Beatles offrirono per molti un modello, il primo che si contrapponesse così vistosamente, nello stile di vita ma non nell'ideologia, a quello proposto dalle organizzazioni giovanili legate ai partiti comunisti e socialisti al potere e alle istituzioni statali. E offrirono anche, come stava avvenendo ad esempio in Italia proprio in quel periodo, ispirazione per tanti giovanissimi musicisti rock e beat, molti dei quali iniziarono la loro carriera imitandoli.







Régis Debray 
De la cohésion à l'arrogance, les forces et faiblesses du monde de l'Ouest
Le Monde, 19 luglio 2014


Malgré la décolonisation et le monde multipolaire, l'Occident a donc gagné la bataille pour l'hégémonie culturelle ?

L'Ouest a gagné la guerre froide par le jazz, les Beatles et les seins nus autant que par la force financière et militaire. Aujourd'hui, les dix premières agences de pub sont occidentales. Les prix Nobel et les brevets assurent à l'Occident une formidable suprématie. Les rapports de puissance ne sont pas réductibles à des rapports de forces matériels et quantifiables. Le fait que la Chine redevienne la première puissance économique mondiale en 2030, comme elle l'était en 1830, ne signifie pas qu'elle devient la première puissance hégémonique.
Les Etats-Unis n'ont même pas besoin d'avoir des instituts culturels à l'étranger. Au Vietnam, les GI ont perdu, mais Coca-Cola a gagné la guerre. L'hégémonie, c'est quand une domination est rendue non seulement acceptable mais désirable par les dominés. M. Sarkozy était fier d'arborer le tee-shirt NYPD - de la police de New York - , et M. Hollande est fier qu'Obama lui mette la main sur l'épaule.

mercoledì 9 luglio 2014

Il Jazz oltre i confini dell'origine

Simone Lorenzati
Il fascino sottile del jazz

Forse il Jazz si sta avventurando su un terreno sconosciuto. Un incontro di sicuro rilievo come Umbria Jazz spinge a tornare sul tema. Inizierà venerdì 11, per concludersi domenica 20, il tradizionale appuntamento perugino. Una rassegna decisamente interessante questa che porterà in città, per un Festival giunto ormai alla 41ma edizione, musicisti di grande valore. Tra gli altri calcheranno il palco umbro Buster Williams, John Scofield, Christian Mc Bride, Paolo Fresu, Roy Hargrove, Wayne Shorter ed Herbie Hancock, Stefano Bollani, senza dimenticare Al Jarreau. Insomma jazzisti di chiara fama, sia a livello italiano che internazionale. Come sempre i giovani talenti si mescoleranno ai vecchi leoni  
Può Umbria Jazz essere l'occasione per cercare di capire la direzione che la musica afroamericana sta imboccando? Tutti concordano sul fatto che ormai da diversi lustri gli innovatori autentici del jazz siano in via di estinzione se non trapassati del tutto (già negli anni 70 Frank Zappa amava ricordare come il jazz non fosse morto ma che emanasse comunque un cattivo odore). Da Louis Armstrong a Benny Goodman, da Dizzy Gillespie a Chet Baker, da Bill Evans a Miles Davis, da John Coltrane a quello stesso Herbie Hancock che vedremo esibirsi a Perugia tra pochi giorni e che negli anni 80 inventò la fusion, ovvero la commistione tra jazz e rock. Da allora in poi il jazz ha trovato spazio nelle scuole musicali (celeberrima la bostoniana Berklee School) così come nei Conservatori italiani. Ma vi sono degli interrogativi anche in questo ambito: il jazz è la musica dell'improvvisazione: se diventa unicamente studio didattico non rischia di trasformare l'incerto in certo? Se Armstrong avesse conosciuto la tecnica musicale sarebbe stato quell'innovatore assoluto che invece è stato? Charlie Parker, probabilmente uno dei migliori sassofonisti nella storia del jazz, sosteneva che se suonava nei pub dei bianchi lo riempivano di soldi ma tutti i presenti battevano le mani al contrario. E l'esatto opposto, dal punto di vista economico e musicale, avveniva invece nei locali con clienti di colore. Dunque il jazz si allontana dalle sue radici ma per andare dove? Ed ancora: deve essere una musica per tutti, come era in origine, o divenire un genere coltivato solo da una elite di uditori ed amanti del genere? Tra tanti interrogativi rimane il fascino di una musica che sa rapire, ma che ormai danza sul confine tra l'improvvisazione eterodossa e la preparazione curricolare. Un genere musicale che, a ben guardare, non ha nemmeno una pronuncia fonetica unitaria. Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere il chitarrista Barney Kessell che, alla domanda su cosa fosse il jazz, rispose “Una musica che non suoni né con la testa né con le mani. Ma col cuore”. E allora che si incominci a soffiare nelle trombe e nei sassofoni.

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Giordano Montecchi 
Django, dio zingaro della chitarra, nato dal rogo dell'emarginazione
l'Unità, 18 gennaio 2010 
 
La storia è di quelle che fanno palpitare: avventura e sventura mescolate insieme, di quelle storie che non basta un film per raccontarle. Perché è vita vera, sofferenza, passione, sogni, miseria, fortuna, genio e sregolatezza. Insomma: Django Reinhardt. Era il 23 gennaio di cent'anni fa. A Liberchies, qualche centinaio di anime poco a nord di Charleroi, Belgio, faceva un freddo cane. Appena fuori dal villaggio da qualche giorno c'era una carovana di zingari, cinque o sei roulottes malandate, coi loro cavalli smagriti, i falò per scaldarsi, e, al centro, una piccola tenda da circo. Quel giorno, in una delle roulotte, Laurence Reinhardt partorì un maschietto. Laurence era così scura di pelle da essere soprannominata «Negros». Era l'acrobata del circo ed rimasta incinta di Jean Vées, acrobata anche lui e, quando poteva, musicista: chitarra, violino, un po' di tutto. Lei però non volle saperne di sposarlo. Il bambino si chiamò Jean-Baptiste, ma presto gli fu affibbiato l'immancabile soprannome: Django. 

IL BANJO A DODICI ANNI

La carovana viaggò ancora molto. Girovagarono per l'Italia, poi furono in Algeria e infine si fermarono alla periferia di Parigi. Sua madre gli regalò un banjo, e a dodici anni Django accompagnava già suo padre e suo zio che si esibivano al caffé del mercato delle pulci di Clignancourt, poco fuori Parigi. Django era bravo, molto bravo, suonava la chitarra con una grinta e una velocità da lasciare a bocca aperta. A diciotto anni aveva già registrato qualche traccia, aveva la sua piccola fama, ma era e restava uno zingaro e ogni notte tornava a dormire nella sua vecchia roulotte. La sua seconda nascita avvenne nel 1928 e fu tragica. Era ottobre, il 26. Jack Hylton, leader di un'orchestra alla Paul Whiteman piuttosto famosa, gli offrì di entrare nella sua band per una tournée in Inghilterra. Era fatta! Forse quella sera Django era eccitato, fatto sta che rovesciò la candela accesa e i fiori di celluloide da vendere l'indomani davanti al cimitero presero fuoco e in un baleno la roulotte fu avvolta dalle fiamme. Bella Baumgartner, la sua compagna, se la cavò con poco, ma Django riportò ustioni gravissime sul lato destro del corpo e alla mano sinistra. Diciotto interminabili mesi di ospedale, e alla fine, mignolo e anulare della mano sinistra rimasero paralizzati. I medici furono unanimi: la sua carriera di musicista era finita. Ma non sapevano con chi avevano a che fare. Perché da quel rogo di miseria ed emarginazione, qualcosa che ben conosciamo ancora oggi, era nato Django Reinhardt, il dio zingaro della chitarra. Dio, perché nessun essere umano avrebbe potuto essere così testardo, inventarsi un modo di suonare con solo due dita e diventare un virtuoso impressionante, rivoluzionando la tecnica e il destino della chitarra. La carriera fu sfolgorante. Incontrò il suo alter ego in Stéphane Grappelli, violinista tanto per bene quanto Django fu sempre imprevedibile, sbruffone, spendaccione. Col loro celeberrimo Quintette du Hot Club de France furono i protagonisti assoluti del trapianto del jazz in Europa, con Monsieur Grappelli perennemente imbarazzato per le figuracce cui lo costringeva Django: analfabeta vero, per il quale un contratto era solo carta, nomade nell'anima, bisognoso ogni tanto di sparire per tornare alla sua roulotte e alle sue radici. Django era fin troppo «fenomeno» per accodarsi a una musica altrui qual era in fondo il jazz. Andò in America, ma il suo idolo Duke Ellington fu una delusione: tutto troppo ordinato, ufficiale, per lui che non volle mai leggere una nota di musica. Django era un sinti, che in Francia sono detti manouche, ricchi come tutte le etnie zingare di una loro tradizione musicale tutta chitarre e violini. Django la «contaminò» e nacque il jazz manouche, jazz portatile: chitarra e violino solisti, niente batteria ma due chitarre e contrabbasso per la pompe, così si chiama quel ritmo indiavolato che ti scortica e sale su dalle piante dei piedi. 

INCIDENTE PITTORESCO 

Curioso sfogliare le pagine di allora. Per André Hodeir, grande jazzologo, Django non era jazz, ma solo un «incidente pittoresco». Ma girate oggi per dischi, o per locali. I gruppi di giovani e giovanissimi, calamitati da questo modo sfrenato di scoparsi la chitarra, sono una schiera e gli scaffali, quelli che restano, pieni di questa musica, un po' jazz un po' world music, con protagonisti dai nomi così inesorabilmente diasporici: Bireli Lagrène, Stochelo Rosenberg, Angelo Debarre, Tchavolo Schmitt ecc. Hodeir toppò, ma non Eric Hobsbawm, che nascosto dietro lo pseudonimo di Francis Newton nel 1959 pubblicava The Jazz Scene, magnifica storia del suo oggetto amato. Dice Hobsbawm: «è significativo che Reinhardt sia fino ad ora il solo europeo che abbia conquistato un posto nell'Olimpo del jazz... ed è significativo che si tratti di uno zingaro». Perché insistere su quel «significativo»? Perché un grande storico come Hobsbawm aveva capito che il destino del jazz non era quello di essere solo la musica dei neri. Il jazz era l'annuncio che una nuova musica alzava la voce: la musica di quelli che il «primo mondo» ha sempre ignorato o odiato. Django è storia di adesso.