Paolo Di Paolo
recensisce Mille volte mi hai portato sulle spalle, di Martino Gozzi, pagine 157 euro Feltrinelli
l'Unità, 7 giugno 2013
IL PASSATO È OSTILE: SI OPPONE ALLA NOSTRA VOLONTÀ DI COMPRENDERLO, DI
RICOMPORLO. Ci s’immerge in esso se è remoto armati degli strumenti più
sottili e ottimistici, ma non basta. Anche il più attrezzato degli
storici deve arrendersi all’idea che la sua indagine sarà tutto sommato
un fallimento.
Lo spessore dell’oblio, l’opacità dei gesti, dei
pensieri tutto è infinitamente ostile alla luce che proviamo, da qui, a
gettare su un evento lontano. Così lo sceneggiatore Ernesto Lizza, nel
tentativo di mettere in piedi un film sull’amore fra Hannah Arendt e
Martin Heidegger, scopre nonostante la quantità di fonti che ha a
disposizione di non sapere nulla. Di non poter capire nulla. «Sentiva
che i veri problemi della sceneggiatura erano radicati molto più in
profondità», «non erano di sintassi e neppure di struttura». È come se
il passato quella specifica zona del passato si rifiutasse alla sua
volontà di comprensione. «Perché Hannah Arendt aveva teso la mano a
Martin Heidegger?»: perché, in sostanza, la geniale intellettuale ebrea,
dopo anni di lontananza dovuti alle persecuzioni antisemite, si
riavvicina al grande filosofo che aveva aderito al nazismo? «Che cosa
mancava?» si chiede Lizza riflettendo sulla sceneggiatura. «La storia
che aveva raccontato era in bianco e nero: prima c’era la passione, poi
la rottura e infine il riavvicinamento, dopo quasi vent’anni di
silenzio. Ma nessun sentimento era puro come l’alcol (...). La rabbia
era sempre mescolata all’affetto. L’amore alla paura. Il rancore
all’attaccamento. La delusione al rimpianto. I sentimenti erano grumi di
materie impure e impossibili da separare».
Ernesto Lizza arriva a
tale constatazione per una via personale, intima. Il confronto con un
nonno novantenne, Ettore un confronto imprevisto e acceso che riguarda
una figura misteriosa, Mario Barcellona: ex partigiano e militante
politico, coetaneo di Ettore e più tardi amico di suo figlio Ferruccio,
che nel frattempo è morto di tumore. Ernesto chiede lumi a suo nonno, e
scopre che fu la presenza di Mario a scavare per ragioni di militanza
politica un fossato fra Ettore e Ferruccio. Così come ha investigato il
rapporto fra Arendt e Heidegger, adesso Ernesto vuole investigare questo
oscuro passato familiare. È altrettanto difficile: intraprende un
viaggio verso la Germania sulle tracce dei protagonisti della
sceneggiatura, ma in realtà cerca Mario Barcellona, che da decenni è
emigrato. Si trova davanti un uomo vecchio dalla memoria ormai molto
fragile, quasi polverizzata, inattendibile. Questo viaggio e il
confronto con il nonno fanno deflagrare le poche certezze che Ernesto ha
sul proprio lavoro: comincia perfino a chiedersi se abbia senso,
raccontare quella storia d’amore lontana. In una lettera di Arendt al
suo maestro Heidegger, aveva letto questa frase: «Mi presento a te con
l’antico senso di sicurezza e l’antica richiesta: non dimenticarmi».
Così
Martino Gozzi, con Mille volte mi ha portato sulle spalle, ha scritto
un romanzo sul rapporto fra memoria e oblio, che non è mai assoluto
questo Ernesto è costretto a verificare, anche con dolore ma sempre
«relativo» alla nostra capacità di dimenticare, all’ostinazione di non
dimenticare; all’oblio dei singoli e delle collettività, che cancella o
imprevedibilmente salva; alla memoria, alla somma dei ricordi nostri e
del mondo, sempre così malcerta, fragile, esposta al nostro stesso
tradirla. Con tono lieve, il trentenne Gozzi si confronta con temi
radicali del Novecento: lo fa da dopo, da un presente (privato e
pubblico) grigio e smorto, in cui il passato sembra la cosa più viva,
perfino la più vitale.
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