Claudio Magris
L'infinito viaggiare
Mondadori, Milano 2005
... Il viaggio dunque come persuasione. Forse è soprattutto nei
viaggi che ho conosciuto la persuasione, nel senso dato a questa parola
da Carlo Michelstaedter; quella vita autosufficiente, libera e appagata
che Enrico, il personaggio del mio romanzo Un altro mare, insegue con
autodistruttivo e vano accanimento. La persuasione: il possesso presente
della propria vita, la capacità di vivere l’attimo, ogni attimo e non
solo quelli privilegiati ed eccezionali, senza sacrificarlo al futuro,
senza annientarlo nei progetti e nei programmi, senza considerarlo
semplicemente un momento da far passare presto per raggiungere qualcosa
d’altro. Quasi sempre, nella propria esistenza, si hanno troppe ragioni
per sperare che essa passi il più rapidamente possibile, che il presente
diventi quanto più velocemente futuro, che il domani arrivi quanto
prima, perché si attende con ansia il responso del medico, l’inizio
delle vacanze, il compimento di un libro, il risultato di un’attività o
di un’iniziativa e così si vive non per vivere ma per avere già vissuto,
per essere più vicini alla morte, per morire. Il viaggio incalzante e
incalzato, imposto sempre più freneticamente dal lavoro e dalla sua
necessaria spettacolarizzazione - specialmente a quel manager di se
stesso e dello Spirito che è l’intellettuale, enfasi e caricatura del
manager industriale -, è la negazione della persuasione, della sosta,
del vagabondare; assomiglia piuttosto a quella eiaculazione precoce che
Joseph Roth, riprendendo nel suo romanzo I cento giorni un pettegolezzo
in materia riguardante Napoleone,attribuisce all’Empereur, il quale non
vuol tanto fare all’amore, quanto averlo subito già fatto, sbrigato e
liquidato. Il viaggio del conferenziere, tra un aeroporto o un albergo e
l’altro, non è dissimile da questo orgasmo assillato. Ma quando
viaggiavo nei vasti paesi danubiani o nei periferici microcosmi,
avviandomi in una certa direzione, sempre disponibile a digressioni,
soste e deviazioni improvvise, vivevo persuaso, come davanti al mare;
vivevo immerso nel presente, in quella sospensione del tempo che si
verifica quando ci si abbandona al suo scorrere lieve e a ciò che reca
la vita - come una bottiglia aperta sott’acqua e riempita del fluire
delle cose, diceva Goethe viaggiando in Italia. In un viaggio vissuto in
tal modo i luoghi diventano insieme tappe e dimore del cammino della
vita, soste fugaci e radici che inducono a sentirsi a casa nel mondo.
C’è il viaggio al di là delle colonne d’Ercole e quello minimo di
Pickwick alle sorgenti di Hampstead o quello da una stanza all’altra
della propria abitazione, spedizione non meno avventurosa né meno ricca
d’incanti e di rischi. I capitani fiumani e triestini di lungo corso che
attraversavano gli oceani chiamavano beffardamente "capitan de cadin"
(di catino) quelli che percorrevano solo piccoli tratti fra Trieste e
l’Istria o tra Fiume e le vicine isole del Quarnero, ma anche in quel
golfo la bora provoca tempeste in cui si può naufragare.Pure nei
capitoli di questo libro si va agli antipodi ma anche nei microcosmi dei
bisiachi o nei nanocosmi della Ciceria e il passo del viaggiatore
vorrebbe assomigliare all’andatura di Lawrence Sterne. Viaggiare
sentendosi sempre, nello stesso momento, nell’ignoto e a casa, ma
sapendo di non avere, di non possedere una casa. Chi viaggia è sempre un
randagio, uno straniero, un ospite; dorme in stanze che prima e dopo di
lui albergano sconosciuti, non possiede il guanciale su cui posa il
capo né il tetto che lo ripara. E così comprende che non si può mai
veramente possedere una casa, uno spazio ritagliato nell’infinito
dell’universo, ma solo sostarvi, per una notte o per tutta la vita, con
rispetto e gratitudine. Non per nulla il viaggio è anzitutto un ritorno e
insegna ad abitare più liberamente, più poeticamente la propria casa.
Poeticamente abita l’uomo su questa terra, dice un verso di Hòlderlin,
ma solo se sa, come dice un altro verso, che la salvezza cresce là dove
cresce il pericolo. Nel viaggio, ignoti fra gente ignota, si impara in
senso forte a essere Nessuno, si capisce concretamente di essere
Nessuno. Proprio questo permette, in un luogo amato divenuto quasi
fisicamente una parte o un prolungamento della propria persona, di dire,
echeggiando don Chisciotte: qui io so chi sono.
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